Che il profitto sia il vettore principale che spinge il “progresso” occidentale non dovrebbe più essere un mistero per nessuno, o quantomeno non dovrebbe più suonare come una provocazione fatta da qualche sovversivo. È oramai un dato di fatto, o meglio è un fatto normalizzato e assunto come evidenza. Se quindi il profitto deve sempre e comunque essere presente in ogni attività è assai strano attendersi un cambiamento radicale che preveda una ridefinizione dei presupposti base del sistema di riproduzione capitalista.
Quindi potremmo immediatamente sgomberare il campo da alcuni ostacoli, tipo credere che il green deal sia l’inizio di un ribaltamento di paradigma. Tutti i cambiamenti che non avvengono in antitesi al modo di riproduzione capitalista sono compatibili e complementari con lo status quo. Partiamo quindi con un piccolo postulato (che non è neanche tanto infondato vista la ritrosia al cambiamento strutturale in atto da circa 50 anni) cioè: che tutti i cambiamenti che mettono in discussione il modo di riproduzione capitalista non vengono accettati dal sistema. Useremo questa affermazione per cercare di analizzare quanto accade fuori e dentro la porta di casa nostra, sia esso il domicilio, il quartiere, l’area urbana o la nazione nei quali viviamo.
Partiamo dal generale. Parlando di processi di lotta al cambiamento climatico, si possono eliminare forse alcune storture in alcune aree geografiche specifiche, ma non sembra ci siano i presupposti per innescare il necessario cambiamento radicale su base mondiale per salvare il pianeta. Da Glasgow a Parigi il mantra contro le emissioni di gas serra è sempre il medesimo, i paesi in fase espansiva non accettano restrizioni. Ma è forse tutta colpa loro? Possiamo affermare, senza tema di smentite, che se si fermano Cina, India, Pakistan e altri importanti pezzi del mosaico asiatico si ferma l’intera produzione mondiale. Semplicemente perché negli ultimi 30-35 anni abbiamo designato quei luoghi come quelli preposti alla produzione manifatturiera e in special modo i passaggi produttivi meno remunerativi o più costosi in termini di lavoro e più impattanti a livello ambientale.
Ora se il greenwashing riguarda solo l’occidente (leggi sono USA, UE e Canada), che per inciso hanno già da tempo spostato le fasi più inquinanti della produzione altrove, capiamo bene che di tutto stiamo parlando fuorché di qualcosa di realmente nuovo. Con buona pace degli entusiasti ambientalisti istituzionali, associazionistici e parastatali che plaudono al “coraggio del cambiamento”. Va da sé che quindi la decarbonizzazione e la lotta ai cambiamenti climatici proposti in salsa capitalista non potranno mai cambiare di una virgola la condizione necessaria del sistema, ossia il profitto, queste più che strategie di cambiamento sembrano palliativi per procrastinare lo status quo piuttosto che una cura per il pianeta.
In questo discorso sulle buone intenzioni si fa spesso riferimento all’economia circolare, al recupero, al riuso ecc. ma difficilmente queste “buone pratiche” avranno vita facile in questa fase storica. Infatti in questa nostra epoca è più la carenza di risorse o la diseconomicità della loro estrazione a preoccupare piuttosto che i disastri climatici. O nella migliore delle ipotesi i cambiamenti climatici stanno minando alcuni interessi specifici da qui la “corsa ai ripari”. Ma più che una corsa per la salvezza del pianeta appare sempre più una corsa per salvare il costante circolo dei flussi di capitale (cfr. D. Harvey, “l’enigma del capitale”, 2018, Feltrinelli.), ed è probabilmente in quest’ottica che devono essere interpretate le azioni governative degli ultimi due anni.
Il green deal quindi passa dal revamping industriale all’ottimizzazione dei prodotti secondari di vari processi chimici e chimico-fisici (cfr. Malanova, L’imbroglio neocoloniale dell’idrogeno: una proposta di lettura del PNRR, 2021) quindi una sostanziale ottimizzazione e massimizzazione di processi obsoleti e vantaggiosi solo per chi li gestisce. Per questo motivo In questi tempi è sempre più forte l’azione dello Stato per salvaguardare la riproduzione capitalista, potenziando l’impalcatura normativa e portando all’estremo le interpretazioni e le ratio legislative e, sostanzialmente, pagando il processo di “ammodernamento” del comparto produttivo. Non senza ovviamente provocare grossolani cortocircuiti tra intenti ecologici e pratiche economiche.
Una delle più grossolane contraddizioni si annida nelle fonti energetiche rinnovabili, o assimilate, in questa piccola estensione del significato o della copertura normativa, si concentra una delle speculazioni più danarose e meglio riuscite degli ultimi vent’anni. Il concetto di “rinnovabile” non ha direttamente un significato ecologico, sta semplicemente a significare che un certo processo si rinnova fornendo nuovi input per i cicli successivi. Immaginiamo un ciclo produttivo agricolo, ad esempio il grano, vedremo che la produzione genera alcuni scarti che forniscono nutrimento per gli animali e le deiezioni degli stessi fertilizzano il terreno garantendo il riavvio del processo. Ora per le fonti energetiche come sole, aria, moto ondoso, acqua ecc., il processo di produzione non consuma la risorsa, la quale si ripresenta identica a sé stessa ad ogni ciclo.
Ma quando si associa al significato di fonte energetica rinnovabile l’output di un ciclo di consumo come urbano, il cortocircuito è più che evidente. La fonte in sé sarà anche rinnovabile nel senso di provenire da una continua produzione di materie di scarto, ma il senso del suo essere fonte energetica è assolutamente discutibile tanto per questioni tecniche, sanitarie ed economiche quanto per ragioni politiche. Al di là della mera motivazione dell’inquinamento. Il processo di incenerimento e valorizzazione energetica del calore prodotto vanno pensati all’interno di sistema nel quale questo passaggio non è la fase finale.
Tenteremo quindi di delineare la strategia che sorregge tutto il sistema di smaltimento cercando di delineare le tacite accettazioni insite nel processo e le contraddizioni economiche e politiche più che rispolverare le pur legittime controindicazioni del processo di incenerimento in sé. Ragioniamo un momento sul significato di CDR (Combustibile Da Rifiuto) e sul processo che lo genera. Abbiamo un costante produzione di rifiuti che viene data per assodata. Già questo primo passaggio ha in sé delle contraddizioni. Accettare lo status quo come un fatto ineliminabile, quindi come un dato assodato al quale semplicemente bisogna trovare soluzioni innovative è già di per sé qualcosa che deve essere analizzato.
Se affermiamo che una città produce quotidianamente alcune centinaia o alcune migliaia di tonnellate di spazzatura e non ci chiediamo se c’è la possibilità di ridurre la produzione alla radice, vuol dire che diamo per scontato questo dato, come diamo per scontato il fatto che ogni giorno il sole ci investe con una forza radiante di milioni di MegaWatt di energia. Ma mentre risulta un po’ difficile spegnere il sole forse è un po’ meno complicato capire se possiamo ridurre il problema della produzione di rifiuti. Non indugeremo molto sulla strategia “rifiuti zero” (sulla proposta Zero-Waste di Paul Connett non le scopiazzature di quart’ordine) ma è ovvio che il processo di riduzione a monte del rifiuto riguarda la fase produttiva, quindi bisogna andare a scomodare i profitti.
Ricordando il postulato enunciato all’inizio, non si può scomodare il profitto quindi la strategia rifiuti zero non si può applicare in senso pieno ma solo quelle parti che non vanno ad incidere sui guadagni. Da qui la narrazione tossica: si mantiene il nome accattivante “rifiuti zero” per poi annacquare il tutto in strategie che di zero hanno assai poco. Da qui i discorsi sull’economia circolare ovviamente dirottata alla preservazione del profitto più che alla salvaguardia del pianeta (cfr. Malanova, Economia circolare (per i soliti circoli viziosi), 2019). Volendo prendere quel che di buono potrebbe esserci, troviamo comunque dei paradossi macroscopici dal momento che i Piani Regionali per la Gestione dei Rifiuti, spingono per la raccolta differenziata e l’implementazione di filiere di recupero e riuso in virtù dei benefici dell’economia circolare.
Peccato però che poi sempre negli stessi programmi trovano posto anche disposizioni per nuovi impianti di incenerimento. Premesso che tali sistemi tutto sono fuorché impianti di valorizzazione di alcunché di diverso dal profitto di chi li gestisce, appare macroscopica la contraddizione fra le buone intenzioni di andare verso un processo a rifiuti zero e l’implementazione di impianti di incenerimento. Se da un lato fino al 2019 si assisteva ad un lento trend di dismissione di impianti, dall’altro, post pandemia, il PNRR sembra letteralmente riaccendere la corsa a nuovi impianti.
Osservando i dati ISPRA si nota che: “Nel 2019, i rifiuti urbani inceneriti, comprensivi del CSS, della frazione secca e del bioessiccato ottenuti dal trattamento dei rifiuti urbani stessi, sono oltre 5,5 milioni di tonnellate (-0,9% rispetto al 2018). Il 70,7% di questi rifiuti viene trattato al Nord, il 10,3% al Centro e il 19% al Sud (Figura 1). Dal confronto con l’annualità precedente, nel 2019, si osservano decrementi delle quantità incenerite di RU nelle macro aree del Nord e del Centro, rispettivamente dell’ 1% e del 3,1%, mentre nel Sud Italia si osserva una crescita dello 0,9%. In totale a livello nazionale sono state trattate circa 50 mila tonnellate in meno al 2018. Gli impianti di incenerimento operativi nel 2019 in Italia sono 37, di cui 26 localizzati al Nord, 5 al Centro e 6 al Sud. In particolare in Lombardia e in Emilia-Romagna sono presenti rispettivamente 13 e 8 impianti operativi che, nel 2019, hanno trattato complessivamente 2,9 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, rappresentanti oltre il 50% del totale incenerito in Italia. La quantità dei rifiuti urbani inceneriti sul totale dei prodotti si attesta nel 2019 a oltre il 18% con una crescita rispetto al 2007 di quasi 6 punti percentuali (Fig.2).”
Da quanto emerge quindi dall’indagine ISPRA, analizzando il trend del numero di impianti e del quantitativo di rifiuti prodotti si assiste ad un processo in controtendenza rispetto ai desiderata dei piani di gestione dei rifiuti. Praticamente ogni Piano regionale di gestioni dei rifiuti parte con le premesse di sostenibilità, di implementare le filiere del riciclo, del riuso innescare circuiti imprenditoriali sulla gestione ecologica e smart dei rifiuti e ovviamente spingere la differenziata verso il massimo consentito dall’attuale tecnologia. I dati dicono invece qualcosa di diverso: se il quantitativo di rifiuti presenta una tendenza alla diminuzione, quello dell’incenerimento aumenta (Fig.2).
Fig. 1 Dati relativi al rapporto Rifiuti prodotti e rifiuti inceneriti
Va da sé che se il quantitativo incenerito tende ad aumentare, vuol dire che ci sono meno materie prime seconde da riprocessare e più combustibili fossili consumati. Rispetto quindi alla programmazione europea sembra che si vada in controtendenza.
Fig. 2a Totale dei rifiuti inceneriti a livello nazionale
Il 2019 sembra quindi uno spartiacque nel processo di incenerimento, difatti si ha un trend di crescita dell’incenerimento con una diminuzione degli impianti (Fig.2a e 2b), il che vuol dire che c’è stato un processo di ottimizzazione delle strutture a fronte di un aumento del quantitativo incenerito. Ma dopo il 2019 interviene il PNRR che sostanzialmente ribalta la tendenza della riduzione di impianti operanti e spinge per una riconfigurazione del sistema di incenerimento con un occhio al sud Italia, nell’ottica di aprire nuovi impianti.
Fig.2b Numero totale di impianti di incenerimento presenti e attivi in Italia
Per alimentare le voraci tramogge di un inceneritore che debba andare a regime, servono mediamente circa 100.000 tonnellate di rifiuti trattati all’anno, il che vuol dire che in regioni non molto popolose è assai difficile mantenere a regime un impianto. Questo ci spinge a fare due considerazioni: o in quelle regioni (Calabria e Sicilia in primis) si decide di non servirsi più delle discariche e di bruciare il tal quale – ipotesi che difficilmente può trovare riscontro nella realtà – oppure si inceneriranno rifiuti provenienti da altri luoghi nazionali europei o addirittura extraeuropei. Nell’ultimo grafico possiamo farci un’idea di quella che è la tendenza nella produzione di rifiuti urbani nel mezzogiorno (Fig.3).
Fig.3 totale rifiuti prodotti nel Meridione d’Italia
Da ciò si evidenzia la tendenza decisamente in calo della produzione di rifiuti, che dovrebbe quindi stimolare tutt’altro ragionamento, ossia il fatto che forse, per quanto mal gestita, la raccolta differenziata sta producendo qualche effetto. che unito al trend di spopolamento del sud (da fonte ISTAT circa 880.000 abitanti in meno dal 2014 al 2019) dovrebbe far riflettere sulla reale necessità di tali impianti. Altra considerazione necessaria a conclusione di queste poche righe, è quella che dovrebbe spingere le popolazioni locali a chiedersi il perché del revival dell’incenerimento quando anche le tanto citate “democrazie del Nord Europa” stanno cominciando a smantellare i loro inceneritori. Non basta un semplice NO! per comprendere le motivazioni profonde che orientano le pubbliche amministrazioni a scegliere questa tipologia di processi di gestione dei rifiuti. Al di là delle emergenze rifiuti pluriennali e i vari commissariamenti, quello che appare chiaro è che ai fini speculativi questi impianti sono perfetti, a suon di incentivi li si tiene operativi e si ammortizzano abbondantemente le spese, si viene pagati per ogni grammo di immondizia che finisce dentro al forno, in barba al fatto che che sperperano molta più energia di quanta non ne producano. Inoltre il Parlamento Europeo, in Commissione Ambiente, ha deciso che dal 2026 le emissioni degli inceneritori dovranno essere pagate, secondo i principi dell’Emission Trading System europeo, da cui finora questo tipo di impianti era esentato. Quindi le cose sono due, o aumentano ancora di più i prelievi in bolletta (CIP6) o aumentano le tariffe per il conferimento dei rifiuti, non sembra ci sia altro modo per tenere in piedi questo circuito.
La redazione di Malanova