C’è la necessità di una premessa prima di tentare di dipanare la matassa della crisi in atto. Si parlerà qui della situazione socio-economica europea e italiana partendo da quella che è la realtà, ossia “accettando” de facto il sistema di economia politica nel quale agiamo, sia come singoli che come militanti. Ciò implica innanzitutto il dover ragionare di problemi economici accettando l’evidenza del reale, ossia, che l’economia e le scelte politiche ad essa associata agisce, in estrema sintesi, sui fattori che innescano o mantengono in un trend positivo la domanda di beni e servizi. Impostazione che deve accettare lo status quo come orizzonte necessario entro cui muoversi ed entro cui agire politicamente. Agire inteso come tentativo di innescare una rottura. Non si può prescindere dal meccanismo di funzionamento della realtà socio-economica che ci ingloba. Far finta che ciò non esista, derubricare le analisi economiche a chiacchiericcio tra tristi accademici vuol dire decidere volontariamente di poter fare a meno di alcuni parametri essenziali per descrivere il nostro mondo contemporaneo. Per capire il perchè di dinamiche scellerate e di provvedimenti illogici non si può limitarsi ad una lettura sommaria e superficiale dei fenomeni senza scavarci dentro. Crediamo che capire le dinamiche finanziarie ed economiche porti alla luce il tessuto connettivo che caratterizza la nostra contemporaneità.
Per una maggior chiarezza metodologica, ci rifaremo allo schema macroeconomico attualmente accettato[1]. Seppur crediamo che il mondo non possa crescere all’infinito, va compreso che l’intero sistema, in tutta la sua mostruosa complessità, è basato su quest’idea e sull’idea che senza la crescita tutto si ferma e, a scanso di equivoci, diremo senza remore che è effettivamente così. Lo sperimentiamo sulla nostra pelle ogni istante della nostra esistenza. Ciò non significa che si accetti sic et simpliciter il sistema dominante ma, molto più semplicemente, che una sua attenta analisi possa tornarci utile per un contro-utilizzo.
Prima si decide di fare i conti con questa situazione, dunque, prima si potrà porvi rimedio. Rimedio che oppone alla complessità del modo di riproduzione capitalista un modo realmente “altro”, ossia incompatibile con l’esistente. I farfuglii sconnessi legati ad un’idea di decrescita più o meno felice che si sentono in giro, e che ben poco hanno a che vedere con le intuizioni molto interessanti del suo pensatore, spesso tendono ad ammantare di una sorta di superstizione una serie di ragionamenti altrimenti abbastanza seri, miscelandoli con chiacchiere primitiviste e un’accozzaglia di espedienti creativi portati avanti da personaggi in cerca d’autore con pochi interessi nella vita[2]. Da quanto si può apprendere dando una rapida occhiata agli andamenti demografici mondiali, lì dove c’è stagnazione economica o recessione, si ravvisa anche un rallentamento della crescita demografica. Il sistema economico strutturato sul metodo di riproduzione capitalista è talmente inserito nei meccanismi di riproduzione sociale che ne determina finanche la velocità di riproduzione biologica. È quindi all’interno di questo schema che si organizzeranno i ragionamenti espressi in questo articolo.
Da dove nasce l’austerity
Il termine austerity è associato a un periodo della storia compreso tra il 1973 ed il 1974, durante il quale alcuni governi occidentali attuarono misure drastiche per contenere il consumo energetico, in seguito alla crisi petrolifera del 1973 scatenata da una serie di fattori geopolitici (chiusura del canale di Suez, le guerre arabo-israeliane, aumento delle royalty dei paesi produttori di greggio, embargo petrolifero, ecc.). Ancora oggi a distanza di decenni, questa pratica di “salvataggio” dell’economia occidentale, attraverso politiche di bilancio restrittive, è diventata, a prescindere dalle cause della crisi, una regola strutturale delle politiche ultraliberiste.
Nel 2007 inizia la crisi finanziaria, crisi innescata all’interno del mercato interbancario nel momento in cui alcuni titoli di investimento non vengono più negoziati, la cosiddetta crisi dei sub-prime. Nella seconda metà del 2008 cominciano a palesarsi i primi effetti negativi sull’economia reale, la crisi del credito. Ritornano con forza le ricette dell’austerity. A livello europeo i più accorti tra la gente comune cominciano a rendersi conto delle macro contraddizioni insite nell’architettura dell’unione monetaria europea. Il resto della popolazione si divide tra chi crede ciecamente ai diktat della cosiddetta Troika e chi vorrebbe un ritorno alla lira. Uno scenario quantomeno agghiacciante con le immancabili “guerre dei pezzenti”, precari contro statali, disoccupati contro precari, tutti contro i sottoproletari storici e quelli nuovi, i migranti, tutti comunque a caccia di un capro espiatorio. In tutto questo gli slogan scanditi durante quel periodo spesso creavano più confusione che altro. La realtà narrata dai fatti storici parlava di un meccanismo inchiodato al suo funzionamento.
La Bce, costretta dal suo mandato istituzionale ad avere una e una sola strategia d’azione, ossia mantenere il tasso d’inflazione al di sotto del 2%, non interviene tempestivamente per “turare la crisi”. Cosa che invece fa la Federal Reserve, dispiegando una potenza di fuoco paragonabile solo alle politiche post belliche del piano Marshall. Intrappolata quindi tra gli obblighi neoliberisti insiti nel Trattato di Maastricht, benvoluti dalle cordate finanziarie, i quali non consentono alternative, quando gli effetti della crisi erano chiari agli analisti di mezzo mondo, la BCE non immette liquidità nel sistema né tantomeno agirà su una riduzione dei tassi d’interesse. La pioggia di liquidità avverrà solo successivamente ma non a favore della protezione della domanda, quindi a protezione di quella crescita di cui tanto si straparla in ogni consesso, ma a protezione degli interessi del mercato interbancario. La pioggia di euro ha agito come lavanda gastrica per i “pancini” ricolmi di titoli tossici delle istituzioni bancarie. Tutti avevano quella porcheria in corpo. Non si è risparmiato sul salvataggio del sistema bancario, ci si è invece accaniti, come se non ci fosse un domani, sui conti pubblici che dovevano avere un solo scopo, rimettere in piedi il sistema finanziario. Sono stati i meccanismi dell’unione monetaria europea che hanno consentito che una crisi di credito interbancario si trasformasse in una purga di austerity “necessaria”.
Da un lato c’era il mantra della riduzione del debito dall’altra un indebitamento coatto con la BCE, il Quantitative Easing (QE), fatto passare come l’unica cura possibile, con parole accorate tipo “Whatever it takes”, fatto passare quasi fosse un atto di pietà. Il QE funziona più o meno con l’emissione di nuova moneta da parte della banca centrale di riferimento (la BCE nel caso europeo, la FED nel caso statunitense) e l’immissione della nuova moneta sul mercato avviene in maniera indiretta, ossia tramite l’acquisto di titoli di Stato, titoli finanziari e anche titoli tossici, da qui l’effetto lavanda gastrica. La reazione “fisiologica” è il conseguente aumento del prezzo dei titoli e riduzione del loro rendimento, nei casi in cui il rendimento dei titoli pubblici sia agganciato a quello dei tassi d’interesse bancari, questo produce un abbattimento degli interessi bancari, che in ultima istanza permette, o permetterebbe, la riduzione nel medio periodo dei mutui, dei debiti delle famiglie verso le banche e di altri tipi di scoperto finanziario. Il risultato finale dell’operazione dovrebbe essere una riduzione del valore reale dei debiti delle famiglie verso gli istituti finanziari e una loro conseguente maggior propensione alla spesa. Tale propensione dovrebbe portare ad un aumento netto dei consumi, che determinerebbe una crescita maggiore nel medio periodo.
Non sembra che la cosa abbia funzionato in questi termini, l’iniezione di liquidità è andata ovunque tranne che alle imprese e alle famiglie, la domanda è rimasta latente. Quindi, come premesso all’inizio di questa breve trattazione, la tanto evocata crescita non c’è stata! Anche a voler mantenere la barra dritta sui fondamentali dell’economia, la domanda non è stata comunque stimolata a fronte di un intervento della BCE di acquisto massiccio di debito pubblico e privato di svariati miliardi. Le conseguenze sono che Il Pil europeo ha perso oltre il 6-7% nel periodo 2008-15. L’Italia è capofila delle economie disastrate con un calo della ricchezza sociale che supera il 10%, al quale si associa la vaporizzazione di circa il 20% della produzione industriale, (in parte dileguatasi in pratiche di offshoring) e il crollo del 25% degli investimenti dal 2007 e l’aumento della disoccupazione “ufficiale” che si attesta oltre il 13%[3]. La disoccupazione reale va ben oltre il 22%, il peggior dato registrato dal 1945 a oggi, al quale deve associarsi la riduzione della vita media nel 2015, fatto più che inusitato, semplicemente mai registrato dai tempi della II guerra mondiale.
Questa strana situazione ha trasformato, almeno per quanto concerne l’Europa, un problema di crisi del credito interbancario in una questione di debito pubblico. Le ripercussioni sono state a dir poco catastrofiche. Purtroppo non è possibile in queste poche righe tracciare tutta la parabola che ha consentito il salvataggio del capitalismo finanziario a scapito di quota parte di quello industriale. Ma la sostanza è che la crisi del credito si è innestata su una situazione già critica, ossia un rallentamento progressivo della crescita della produzione, quindi di quella che si definisce l’economia reale, a favore di una parte dell’élite capitalista. La redistribuzione della ricchezza ha subito una battuta d’arresto, nel senso che la crescita del PIL, per quanto incerta e modesta, non significava ricchezza per tutti dal momento che quota parte di quel poco che c’era era ottenuto altrove e fatturato in Europa. Uno dei fattori che spingono la domanda a crescere sono gli investimenti pubblici ma in periodo di austerity questi vengono ridotti a poco più dell’ordinaria amministrazione.
Ma non basta, qui avviene l’operazione più spregevole e criminale, una sorta di lavaggio del cervello collettiva. Non solo si fa passare il mantra che non si deve spendere, che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità e che l’Europa ci chiede sacrifici, ma si va oltre, si comincia a falcidiare quel poco che resta del servizio pubblico per sanare il debito! Allora qui c’è bisogno di capire un dato su tutti: anche quando lo si volesse sanare – il debito pubblico ammonta ad una cifra a dodici zeri più gli interessi – se tutto va bene è un’operazione che può essere effettuata nell’arco di un secolo. Seconda cosa, chi ha mai detto che il debito pubblico è una cosa di cui vergognarsi? Non dimentichiamo che il più liberista degli Stati, ha immesso nel mercato produttivo, sia dopo il black Friday del ’29 sia dopo il credit crunch del 2008, un’autentica valanga di dollari divenendo uno degli Stati col più alto debito pro-capite del pianeta. E noi per la misura di un debito che è a malapena un decimo di quello degli USA stiamo finendo tutti in fila davanti alla Caritas con la gamella in mano[4]!
Ma purtroppo la cronaca attuale ci dice altro. L’aver salvato il sistema finanziario europeo dalla crisi del credito interbancario, l’aver dovuto praticamente sterilizzare le tonnellate di carta straccia dei titoli tossici in giro per le varie istituzioni finanziarie l’abbiamo pagato con più di dieci anni di purghe costituite da tagli orizzontali a tutti i settori pubblici, con sommo gaudio delle holding private che hanno fatto incetta di tutto quello che lo Stato svendeva a due soldi, dicendo che era per risanare il debito. Morale della favola ci ritroviamo con un trasporto pubblico privatizzato che taglia vettori e corse non remunerative, la scuola fatiscente e assolutamente inadeguata, con aule sovraffollate e personale perennemente sotto organico. Non parliamo della sanità, una cura dimagrante di posti letto di terapia intensiva e rianimazione, centri diurni chiusi, ospedali di comunità mai attivati, presidi locali depotenziati fino alla chiusura. Il tutto ovviamente “controbilanciato” da una esternalizzazione al privato senza precedenti nella storia, RSA che nascono come i funghi spesso senza i requisiti minimi per ospitare numeri crescenti di lungodegenti, ecc.
Per finire, arriva la sindemia da COVID-19 e trova una situazione disastrosa sulla quale assesta un colpo micidiale, peggio del colera in un campo profughi.
Il sistema è in una situazione critica. Stagnazione economica, servizi pubblici al collasso, classe dirigente che peggio non si può. Morale della favola, trasporti pubblici inefficienti e assolutamente incapaci di gestire il distanziamento sociale, sanità al tracollo e scuole nel panico. Non si può fermare quella miseria di attività produttiva residua altrimenti devono paracadutarci le razioni d’emergenza dell’ONU e si tenta quindi di mettere una pezza a colori su un’emorragia arteriosa. La risposta? Spesa pubblica come se non ci fosse un domani! E tra ristori, reddito di cittadinanza, assegni d’emergenza, cassa integrazione, incentivi per l’efficientamento energetico e tutto il resto spendiamo in due anni quanto avevamo “risparmiato” in dieci anni di purghe marca Troika. Ovviamente per governare la situazione si toglie di mezzo un sempre più impacciato Conte e si mette ai posti di comando l’uomo della finanza per eccellenza, Draghi. Quindi il disastro socio-economico del COVID ha origine in tempi in cui il COVID non si sapeva neanche cosa fosse.
Seguendo quest’ottica, il Governo si accinge a presentare il conto agli italiani. Chi pensava che le politiche di austerity fossero ormai giunte al capolinea, dovrà ricredersi perché l’articolo 6 del Ddl concorrenza, in discussione al Senato, pone al centro dell’ intervento governativo la concorrenza – dunque il mercato e il privato – come unico elemento possibile di volano sociale e territoriale. Viene tracciato con molta chiarezza un processo di privatizzazione che ha la sua parte più “avanzata” nella lettera f) del comma 2, dove si prevede l’obbligo per l’ente locale di una “motivazione anticipata e qualificata per la scelta o la conferma del modello dell’autoproduzione”. Il pubblico viene inteso come recessivo a priori, e per esistere deve necessariamente giustificarsi al mercato. Ciò non è richiesto ovviamente al privato.
Al di là di tutto quello che si è detto e si continuerà a dire sulla pandemia o sulla sindemia e su quello che si può o non si può fare, delle zone gialle, bianche o verdi, dei green pass o dei vaccini, teniamo conto che ancor prima del virus ci stava ammazzando un’ideologia economica meschina e fraudolenta. Ancor prima che un elemento microscopico devastasse i nostri organismi, un elemento macroscopico aveva già ipotecato il nostro futuro.
La redazione di Malanova
Nota redazionale – Questo articolo, a firma di uno dei redattori di Malanova, é uscito sul N°1 di Umanità Nova del 2022 con il titolo Politiche lacrime e sangue e gestione della sindemia: Austerity e COVID-19. È stato qui rieditato, implementando alcune parti relative all’analisi storica dell’austerity e scegliendo di dare risalto alle sole questioni legate alle pratiche restrittive di bilancio praticate dai governi occidentali.
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note
[1] Domanda aggregata, o complessiva, YD= C + I + G + X- (IM/ε). Secondo la contabilità nazionale, la domanda aggregata (YD) coincide con la somma algebrica delle spese effettuate per l’acquisto di beni nazionali nel corso di un anno: consumi (C), investimenti privati (I), consumi e investimenti pubblici (G), esportazioni nette, cioè esportazioni (X) meno importazioni (IM/ε). [In O. Blanchard et. All, Macroeconomia: una prospettiva europea, Il Mulino, Bologna 2016].
[2] Serge Latouche, economista, tra i promotori dell’idea della decrescita come riduzione controllata, selettiva e volontaria della produzione economica e dei consumi, con l’obiettivo di stabilire relazioni di equilibrio ecologico fra l’uomo e la natura ossia sviluppo sostenibile in termini di indici di sviluppo di fronte anche al rapporto sui limiti dello sviluppo, nonché di equità fra gli esseri umani stessi.
[3] Cfr. Malanova, Processi di delocalizzazione tra mercato e strategie di produzione, 27 dicembre 2021. L’articolo è consultabile al seguente url: https://www.malanova.info/2021/12/27/i-processi-di-delocalizzazione-tra-mercato-e-strategie-di-produzione.
[4] 2.569 miliardi di euro il debito italiano al 2020 e 28.000 miliardi di euro quello degli Stati Uniti.