Una nota di fine d’anno sull’ultimo film di Paolo Sorrentino
La disposizione di Paolo Sorrentino verso la parola, lo stile, la costruzione dei suoi film è stata sempre attenta e, cosa ancor più evidente, esibita. Al punto che nel guardarli viene naturale chiedersi come sono fatti, per quale motivo sono fatti proprio così e non diversamente. Alcune caratteristiche, a prima vista del tutto inessenziali o fantasiose, inducono a una riflessione approfondita sulla forza organizzatrice che ne motivi la necessità e il funzionamento, arrivando a comprendere che, se avessero una forma diversa, sarebbero senz’altro peggiori.
Nel suo ultimo lavoro, È stata la mano di Dio, questa disposizione prende le mosse dall’esperienza viva e personale del reale (ossia dal racconto delle vicende che hanno indotto il regista campano a scegliere il cinema come mestiere) e non, come è parso di credere in altre occasioni, da un’idea o da una speculazione astratta o, peggio, orientata manieristicamente. D’altronde, si sa, poesia significa pensare per immagini concrete in modo da scardinare qualsiasi giudizio intermedio sull’oggetto attraverso una pronunciata insoddisfazione interiore, non formale, né ricomposta dossograficamente.
L’esperienza del reale passa dalla vertigine di chiacchiere e luoghi comuni che a Napoli, nel corso degli anni Ottanta, sembra percorrere la media borghesia in tutti i suoi discorsi, mentre di ogni visione artistica o semplicemente anticonvenzionale viene sottolineato il margine inconsistente, anzi spregevole, non diversamente in fondo da ciò che accadeva, ad esempio, nella Roma della Grande bellezza, pluri-premiato film del 2013, dove la realtà si sedimentava tra le storture intellettuali, sotto i bla bla bla e il rumore della mondanità. Lordura e falsità che invece, in quest’ultimo lavoro di Sorrentino, è mostrata con esemplare naturalezza, senza ricorrere a un uso, in passato forse un po’ troppo invadente, di simboli, icone e figure mitologizzate, estetizzate, stilizzate.
La famiglia Schisa − composta da Saverio e Maria, genitori di Fabietto (alter ego del regista da adolescente), Marchino e Daniela, dall’avvenente Patrizia, sorella di Maria, e suo marito Franco e da altri ancora − conduce una quotidianità serena, scandita da piccole gioie e da dolori tutto sommato ordinari, fino a quando la scomparsa improvvisa di Saverio e Maria (impersonati dai bravi Toni Servillo e Teresa Saponangelo), avvelenati dalle esalazioni di monossido di carbonio sprigionate dal camino, mette i ragazzi di fronte all’urgenza di trovare una loro strada. Fabietto, scampato alla morte per aver preferito andare allo stadio dove si esibiscono gli azzurri di Maradona invece di raggiungere la casa di Roccaraso con i genitori, inizia il suo percorso di formazione (lo fa prima del fratello, che nell’immediatezza del lutto sceglie di non occuparsi del futuro, e della sorella, perennemente chiusa in bagno, fino al momento in cui ne uscirà in lacrime in una delle ultime sequenze). Il percorso del giovane (considerato nel modo in cui la coralità di tutte le sue relazioni che finisce per intrecciare confligge con la psiche dei singoli individui, adattandosi o meno a essa) culmina nell’incontro con il regista Antonio Capuano, con il quale il ragazzo ha un lungo e acceso confronto sul bisogno e il coraggio di raccontare qualcosa e sul peso che, in chi riesce a farlo, hanno i concetti di dolore e fallimento, di speranza e fantasia, di vita e morte. Il dialogo tra i due, con la sua pronunciata quota metafilmica, costituisce sicuramente il momento culminante della storia.
La realtà si è rivelata scadente, così l’arte, la bellezza e il cinema in particolare avrebbero il compito di distrarre da essa, di evitare che essa deluda ulteriormente con la sua sconcertante onestà. Maria, Patrizia, Saverio e anche il vecchio zio Alfredo cercano di reagire a questo stato di cose, arricchendolo, ossia dotando la realtà di un margine visionario (fatto di scherzi, per Maria, di allucinazioni, per Patrizia, di credenze e piccoli rituali quotidiani, un po’ per tutti), forse antinomico rispetto a quello decadente, ma con ogni evidenza pienamente consustanziale a esso. Si tratta della medesima funzione romanzesca che, nell’immaginario collettivo, incarna la mano con la quale Maradona segna un indimenticabile goal all’Inghilterra durante i mondiali del 1986, proprio mentre il figlio della signora Gentile, congiunta degli Schisa, viene arrestato e lei presa a calci nel salotto di casa da buona parte del parentado, tra le risate dei bambini e gli echi della telecronaca di Giorgio Martino. Se la corrispondenza tra le due occorrenze viene estremizzata, in questo come in altri episodi narrati nel film, è perché Sorrentino vuole affrancarsi dalla superficiale letteralità di quel rapporto per lasciare intuire cosa c’è al di là del luogo comune, della chiacchiera, di Roma, del cinema, quanto di tutto ciò partecipa e quanto, al contrario, sfugge al reale.
Servendosi di un paradosso solo apparente si potrebbe dire che è la vita stessa, con il suo portato di cose inutili e belle, che distrae dalla realtà. E allora, per cercare di aderire a essa, Sorrentino usa l’ironia. Non si tratta di un atteggiamento estemporaneo o che predispone alla fuga. È, piuttosto, conflitto che consente di evidenziare gli aspetti che uniscono la realtà alla decorazione, all’orpello, all’ammirazione, riflettendo su ciascuno di essi, ma tenendoli insieme con coscienza, identità, coraggio. Tutte qualità che, quando ci sono, si riversano in ciò che si ha da dire. Fabietto, nella scena che conclude il film, mostra di saper cogliere gli aspetti visionari della realtà: dal finestrino del treno che lo porterà a Roma, alla stazione di Formia, vede un monaciello, forse lo stesso che, in compagnia di San Gennaro, nella prima scena del film era apparso a Patrizia, poi creduta pazza e incline a prostituirsi. Si tratta di un suo diverso livello d’espressione, complesso ma privo di fronzoli e, dunque, più reale del reale.
Eppure, nonostante Capuano abbia tentato di dissuaderlo, Fabio sta lasciando Napoli (mentre la squadra guidata da Maradona diventa campione d’Italia), assecondando ancora una volta quell’assetto ironico che consente di cogliere una possibilità antiretorica di narrazione (in fin dei conti non sarà proprio questa la grande bellezza?) in fondo a una prospettiva di dolore, di apparente sogno o persino, ma è la medesima cosa, di follia.
La redazione di Malanova