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L’ITALIA TRA DEBITO E SPECULAZIONE: COSA CI ATTENDE COL GREEN DEAL

I dati attualmente disponibili consentono di elaborare solo alcune ipotesi su quelli che potrebbero essere gli scenari futuri legati ai progetti di spesa del PNRR.[1] In una rivista nella quale si propongono inchieste e analisi socio-politiche dei fenomeni in atto, è utile non sconfinare mai nel campo dell’immaginario “complottardo”. Se da un lato questo potrebbe essere forse più divertente e potrebbe attrarre qualche lettore in più, dall’altro verrebbe meno l’obiettivo che la redazione si è data ossia quella di analizzare un’evidenza e non congetturare liberamente sul nulla.

Questo prologo è necessario in quanto quelli che seguiranno sono dei tentativi di estrapolare una visione del futuro prossimo, in conseguenza dell’accelerazione fornita dalla transizione green, innestata in una situazione senza precedenti come quella creata dalla pandemia. Quindi da un lato abbiamo un processo già ben strutturato che è quello del Green Deal, dall’altro una congiuntura difficilmente immaginabile che ha fatto piombare nel panico e nell’indigenza milioni di persone, attività, aziende o intere comunità.[2] Questo aspetto è di fondamentale importanza da un punto di vista psicologico, per far digerire ogni tipo di politica economica; un po’ come un ammalato grave o una persona in astinenza che accetta di tutto pur di lenire la sofferenza.

Sembra quasi la condizione perfetta per una applicazione da manuale della shock therapy.[3] Ma andiamo per ordine, in questo caso cronologico. Il Green Deal europeo che fa il paio con il Green New Deal degli Stati Uniti, è stato varato verso la fine del 2019, quindi la sua gestazione preesisteva alla pandemia. Questo pacchetto di investimenti messo a disposizione dall’UE espressamente per la transizione ecologica, nei fatti segna l’investimento pubblico per traghettare il capitalismo dall’era del fossile all’era delle rinnovabili, del digitale e dell’economia “smart”.[4] i costi di tutto l’affare sono ovviamente scaricati sulle casse dei singoli Stati, dal momento che non si parla di regali che l’UE elargisce in maniera allegra. Sono obbligazioni, che daranno origine ai finanziamenti vincolati e vincolanti. Primo inghippo lessicale della potenza di fuoco messa in campo dall’UE, 750 miliardi di euro, 390 dei quali messi a disposizione come trasferimenti che qualcuno si ostina a definire “a fondo perduto” e 360 come prestiti.

Quello che dovrebbe preoccupare realmente non è tanto il debito in sé e per sé, quanto tutto quello che concerne le riforme strutturali propedeutiche all’accesso ai finanziamenti e ai prestiti. Qui entrano in gioco i meccanismi ben oleati e sempre più agili e veloci (e voraci) della finanza. Tutto questo immenso carrozzone verde ha un solo ed unico scopo, pompare linfa in verdoni reali in un mercato che vaporizza miliardi in un batter d’occhio. Ogni obbligazione “sovrana” – ossia avallata dalle casse statali – viene poi ad essere inglobata in una nuvola di prodotti finanziari assai meno tossici di quella paccottiglia che ha dato origine alla crisi del 2008. Se i mercati hanno imparato una lezione è quella di speculare su chi è veramente troppo grande per fallire, e non sono le big corps, ma i singoli Stati e le Unioni.

Il gioco è quindi quello di riuscire a salvare capre e cavoli ma non affamare neanche il lupo. Si stanno letteralmente facendo i salti mortali per tenere in piedi il meccanismo di riproduzione del capitale, cambiando semplicemente il carburante che lo fa andare avanti. Cerchiamo di schematizzare nella maniera meno banale ma più esplicativa possibile la faccenda. Abbiamo tre fattori da tenere in equilibrio dinamico tra loro, se si fermano casca tutto il carosello. Abbiamo la produzione (merci e servizi), abbiamo il complesso dell’apparato finanziario (il sistema bancario a copertura pubblica o privata che sia e tutti i soggetti che determinano i flussi finanziari ad ogni livello) e abbiamo chi è in grado di generare debito garantito gli Stati per l’appunto. Già questa prima approssimazione semplifica di molto la faccenda e chiediamo venia agli addetti del settore se stiamo procedendo un po’ con l’accetta.

Bene, il green deal fornisce il quadro preciso rispetto a dove devono finire gli investimenti. Non è stato sicuramente elaborato da dame di carità ma segue una esigenza specifica, fornire la base economico-normativa, per favorire ad esempio il revamping di strutture obsolete, la rigenerazione di produzioni onerose e la riconversione di aree inquinate in zone ad interesse immobiliare. In pratica si prende tutto il comparto manifatturiero o quel che ne resta in Europa e a spese dello Stato si finanziano, bonifiche, implementazioni tecnologiche (industria 4.0), innovazione e ricerca su nuovi materiali, digitalizzazione dei processi, in un turbinio di miliardi di euro iniettati direttamente nel circuito economico finanziario, dal momento che tutto il denaro dovrà necessariamente transitare dai circuiti bancari.

Si rimette in piedi la manifattura implementata con l’uso di nuove tecnologie, si rinnovano i processi produttivi con la robotica e la logistica integrata, nel frattempo ci si sbarazzerà della manodopera a bassa specializzazione o a specializzazione 2.0 o 3.0, si spenderanno le briciole per corsi di formazione in alfabetizzazione digitale e si “accompagnerà” alla porta una generazione di operai non più necessari ricollocandone qualcuno nella giostra della rigenerazione dei territori o delle bonifiche. La traiettoria è ben delineata già da un po’ di tempo. L’occidente non ha più bisogno di tenersi in casa la produzione di massa, quella la ricolloca altrove con ampi margini di guadagno, in casa si preferisce tenere i servizi e i processi ad altissimo valore aggiunto e lo sfruttamento sine die delle risorse locali e i territori. Si avvia la macchina degli investimenti infrastrutturali o il loro potenziamento.

Se ci si prende la briga di spulciare i capitoli salienti del piano europeo denominato “The Recovery and Resilience Facility” si apprenderà che quattro dei sette “drivers” riguardano l’evoluzione digitale, dal potenziamento di reti a banda larga per facilitare il trasferimento dati (probabilmente in vista di e-learning, e-commerce e smart working come orizzonte permanente), digitalizzazione della pubblica amministrazione, aumento della capacità di immagazzinamento nei cloud virtuali e processori sostenibili (rapporto costo/durata, rapporto costo di produzione/smaltimento ecc.) e infine potenziamento e rieducazione per i saperi informatici. Questo la dice lunga su quelle che sono le basi su cui poggia il Green Deal: innovazione tecnologica e digitale massiva e la necessità di educare la popolazione all’approccio integrato con le nuove tecnologie.

Un premio Nobel dell’economia Michael Spence, in un interessante rapporto dal titolo “The Impact of Globalization on Income and Employment –the downside of integrating markets” sosteneva, a ragion veduta, il cambiamento profondo del tipo e della quantità di forza lavoro negli Stati Uniti.[5] Spence analizzando l’andamento occupazionale e la progressiva delocalizzazione delle attività produttive di massa, specialmente manifattura legata ad oggetti d’uso comuni e componentistica a basso costo, arriva alla conclusione che l’occidente è destinato a gestire servizi e le uniche attività manifatturiere che rimarranno localizzate entro i confini nazionali saranno quelle ad altissimo valore aggiunto. Di fatti sopravvivono le grandi cordate legate all’industria aeronautica e navale, tutto quello che è legato ai beni di lusso o alle nicchie di mercato estremamente remunerative. Tutto il resto viene trasferito in aree nelle quali le normative su lavoro, ambiente e inquinamento sono molto “lasche” e nelle quali la forza lavoro a bassa specializzazione è presente in quantità.

Cosa rimane ancora come forza lavoro di massa nei paesi occidentali o occidentalizzati? I nuovi operai digitalizzati, persone specializzate nell’uso di qualche software, istruite il minimo indispensabile per star dietro a qualche macchina o per dare i giusti input. L’e-commerce al di là del facchinaggio, è tutto un turbinio di lettori ottici e codici da inserire e procedure di sblocco da attuare in caso di arresto di un programma o di un nastro trasportatore. Sequenze via via sempre più complesse man mano che il guasto si fa più complesso e che richiedono di volta in volta la mano di un semplice operatore, o di un responsabile di linea fino ad arrivare alla ditta dell’assistenza, e il carosello riparte con addetti addestrati ad operare su quei determinati software. Addetti appunto, tecnici, non ingegneri o programmatori. Persone con qualificazioni ibride, smanettoni che hanno accumulato una certa esperienza spesso anche al di fuori di un titolo di studio.

Forse per fornire addetti con uno standard base si è optato per una alfabetizzazione progressiva della forza lavoro ancora in grado di reggere il cambio di tecnologia, per il resto c’è il percorso di allontanamento soft. Ed è forse per questo che, nei capitoli di spesa dei fondi europei, le ICT e il digitale in genere ha tutto questo peso. Per ogni euro di debito garantito dallo Stato, col quale si intende rilanciare un territorio, sono pronti una serie di prodotti partoriti dall’ingegneria finanziaria per moltiplicarne la resa. Che poi le opere si realizzino o no è un fatto non fondamentale, l’importante è che l’euro sul quale è stato costruito il castello speculativo sia garantito e tanto basta. Ma questo euro come viene garantito? Leggendo quanto riporta il sito dell’UE circa la base finanziaria dei prestiti, si legge che “per finanziare la ripresa, l’Unione Europea assumerà prestiti sui mercati finanziari a tassi più favorevoli rispetto a molti Stati membri e ridistribuirà gli importi. Perché ciò sia possibile, tutti gli Stati membri dovranno ratificare la nuova decisione relativa alle risorse proprie, conformemente alle rispettive norme costituzionali.”[6]

Facciamo due conti e tiriamo due somme, I finanziamenti saranno raccolti sui mercati finanziari attraverso l’emissione di bond da parte della Commissione Europea, che metterà a garanzia di tali prestiti il bilancio stesso dell’Unione Europea, più o meno come fa una SpA, avvia un grosso giro di investimenti e aumenta il capitale societario. Quindi il bilancio dell’Unione Europea verrà aumentato, ma questo significa che ogni singolo Stato deve mettere la sua parte, dal momento che il bilancio UE non si crea dal nulla. L’Italia dovrà versare 96.3 miliardi di euro per riceverne 81,4 come trasferimenti e 124,7 come prestiti. Quindi, se c’è qualcosa che viene dato “a fondo perduto”, sono i 14,9 miliardi che l’Italia mette in più, togliendole dal suo bilancio, rispetto a quelli che riceve come “trasferimento”, mentre i soldi reali che ottiene sono tutti a prestito.[7]

Ossia versiamo denaro esente da debito e ne prendiamo una vagonata a prestito. Sembra una follia ma è perfettamente coerente con quello che “serve” al sistema. Il denaro non frutto di debito non agisce come leva speculativa, in pratica non servendo ai mercati finanziari non serve a nulla. L’Italia gioca un ruolo chiave in questo meccanismo, dal momento che pur essendo una delle nazioni più indebitate d’Europa è anche quella il cui debito è più affidabile, ma non si può affidare ovviamente la gestione del pacchetto di finanziamenti al primo che capita, serve un uomo fidato al governo, uno che possa mettere a punto un PNRR a prova di bomba e blindarlo contro eventuali ripensamenti dei vari partiti così ben disposti a fare passi indietro o di lato, in un valzer armonioso pur di restare in parlamento. Quindi è chiaro che il Governo Conte non dava queste garanzie. Lo Stato che più di tutti acquisirà debito sovrano non può tentennare davanti alle riforme e agli adeguamenti richiesti. Quindi la logica conseguenza è che vi sia Draghi alla regia, con un assist di un utile idiota come Renzi.

Ma il capitale sorride e ringrazia. Cosa succederà invece alla società nel suo complesso? Questa è ovviamente un’ipotesi, ma chi segue queste pagine e rammenta gli articoli già pubblicati su investimenti territoriali, turistificazione, infrastrutture e aree depresse, potrebbe immaginare quale potrebbe essere uno scenario possibile per il tessuto sociale. Intanto possiamo enucleare le invarianti del sistema, ossia la scarsità, e la necessaria diseguaglianza che innesca il bisogno. I bisogni collettivi legati alla necessità di reddito sono il carburante inesauribile per giustificare investimenti pubblici e quindi mantenere attivo il sistema finanziario legato al debito. Ma forniscono storicamente la forza lavoro più ricattabile.

Al di là delle parolone altisonanti e delle mission che compaiono nelle varie bozze del PNRR, che a questo punto andrà probabilmente rivisto in salsa Draghi, è probabile che vedremo i soliti avvoltoi fiondarsi rapacemente sui territori per fare incetta di finanziamenti e investimenti. Vedremo l’alta velocità portata avanti come vettore del progresso, dimenticandosi le ferrovie ad un binario sparse nel meridione, vedremo attraverso il Giubileo l’ennesimo maldestro tentativo di rimettere in piedi le sorti della “città eterna”, vedremo le ex aree industriali diventare innovation districts e vedremo il valore immobiliare dello squallore circostante schizzare alle stelle. Non abbiamo certamente la sfera magica ma semplicemente questo è il protocollo standard applicato in lungo e in largo nel mondo occidentalizzato.

L’economia green, gli investimenti in criptovalute, le attività smart, le trasformazioni urbane ecc.. ecc.. non mitigheranno i problemi sociali, forse potrebbero nella migliore delle ipotesi mitigare quelli ambientali (ma nutriamo serissimi dubbi in proposito), ma gli squilibri sociali sono necessari al capitale per continuare a riprodursi. Non sarà un Green Deal a spazzare via le prevaricazioni o la segregazione socio-culturale, al massimo renderà la miseria sociale un po’ più smart, invece che avere la tessera per il pane avremmo l’app sul telefonino.

La Redazione di Malanova


NOTE

  1. Articolo completato il 14-02-2021
  2. L’obiettivo generale del Patto Verde è rendere l’Unione europea il primo “blocco climaticamente neutro” entro il 2050. Gli obiettivi si estendono a molti diversi settori, tra cui l’edilizia, la biodiversità, l’energia, i trasporti e il cibo. Il piano include, inoltre, possibili tasse sul carbonio per i Paesi che non riducono le loro emissioni di gas ad effetto serra alla stessa velocità degli altri e tassazioni speciali sugli imballaggi non riciclati o non riciclabili.
  3. La locuzione shock therapy qui usata ha la valenza di richiamo alla teoria della shock economy elaborata da Naomy Klein. La tesi consiste nell’evidenziare alcune politiche economiche radicali, che prevedono privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica e liberalizzazioni dei salari, siano state intraprese sempre senza il consenso popolare, ed imposte come “necessarie” approfittando di uno shock causato da un evento contingente, provocato ad hoc per questo scopo, oppure generato da incapacità politiche o da cause esterne.
  4. Cfr. Per uno sguardo sull’economia smart: J.R., Il nuovo significato dell’esclusione sociale, Umanità Nova, url: https://www.umanitanova.org/?p=13357 e J.R., Contraddizioni e speculazioni, Umanità Nova, url: https://www.umanitanova.org/?p=13357
  5. M. Spence, The Impact of Globalization on Income and Employment – The downside of integrating markets, Foreign Affairs, July/August 2011
  6. Cfr. Piano per la ripresa dell’Europa https://ec.europa.eu/info/strategy/recovery-plan-europe_it
  7. Cfr. M. Bersani, Recovery Fund: è tutto oro (o tutto loro) quello che luccica?, url: https://www.ilcambiamento.it/articoli/bersani-di-attac-recovery-fund-e-tutto-oro-o-tutto-loro-quello-che-luccica
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