Alcune delegazioni dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (Ezln) arriveranno in Europa nel giugno del prossimo anno. Saranno a Madrid il 13 agosto, a cinquecento anni dall’avvio del processo di colonizzazione di quello che oggi è il Messico. Presumibilmente a fine agosto, invece, una delegazione più ridotta farà tappa in Italia per incontrare resistenze e ribellioni che, pur silenziate o dimenticate, continuano a porsi in contrasto al treno mortale del progresso a tutti i costi.
Il fine degli zapatisti è quello di sottolineare la correlazione evidente tra una stolta difesa di sviluppo e modernità e alcune questioni specifiche: l’omicidio di donne, le catastrofi naturali, i nazionalismi e l’assedio del pensiero critico, quello cui hanno ormai derogato tanto i neoliberisti e i conservatori quanto gli attivisti da tastiera. Pensiero critico che, è bene precisarlo, si fonda su un rapporto di indistinzione tra lotta e vita.
L’Ezln, nelle montagne del sud-est messicano, ha sfidato distanze, frontiere e differenze, opponendosi con ogni mezzo alla tirannia del governo nazionale.
In Italia i movimenti di base, filozapatisti e no, si stanno preparando ad accogliere le delegazioni in viaggio. In Calabria, pure. Ma cosa ci rende eguali? In che modo noi calabresi possiamo incarnare la sostanza militante dell’Ezln? Cos’è lo zapatismo per noi? E, soprattutto, noi chi? È sufficiente allestire intorno all’incontro-evento un programma di avvicinamento che attraversi alcune esperienze resistenziali simbolo del cosiddetto antagonismo calabro?
Un programma, lo si sa, non è un processo che saggi la prospettiva che l’evento potrebbe avere sui territori, se questi fossero in grado di situarsi con coscienza in relazione a esso. Al di là delle azioni di una manciata di movimenti che si oppone alle grandi opere, agli interessi privati nella sanità e nello smaltimento dei rifiuti e alla tirannia del capitale, non si può certo dire che la popolazione calabrese, fuori dai circuiti militanti, stia lottando con coscienza contro le logiche dell’accaparramento e del profitto, né, men che meno, che lo faccia attenendosi a un modello comunitario e conflittuale zapatista.
Non sarebbe male, allora, per mettere a frutto una così ghiotta occasione, formare una più larga base di partecipazione, passando magari dall’analisi dei contenuti politici che l’Ezln sta portando nel cuore dell’Europa capitalista: oltre al rispetto delle diversità, alla salvaguardia delle risorse naturali, a una maggiore inclusione delle comunità nei processi decisionali e nei piani di sviluppo riguardanti i loro territori, alla possibilità di esercitare il controllo rispetto ai processi giuridici e amministrativi, all’autonomia delle comunità e al diritto all’autodeterminazione, si potrebbe tornare a parlare di educazione al consumo, della necessità di tradurre e decostruire i contorti meccanismi del potere, dell’opportunità di aggirare le mode politiche e intellettuali calibrando l’esistenza su un’idea più consistente di coscienza.
Perlomeno, specialmente in Calabria, è necessario prendere atto della contraddizione tra militanza e ciò che cresce fuori da essa e blandirla andando incontro alla delegazione zapatista con la convinzione che proprio in quella contraddizione risieda il carattere perverso e scellerato dell’epoca che stiamo vivendo.
Perché è così difficile pensare che sia proprio in quel punto che gli esponenti dell’Ezln vorrebbero incontrarci? Perché non smarcarsi invece dal meccanismo buffonesco di ostentare una vittoria del popolo laddove la nostra coscienza ha registrato sconfitte su sconfitte?
Proprio nella sconfitta, però, si potrebbe individuare quella zona di contatto che consentirebbe di guardare negli occhi chi, senza sovrastrutture e con grande umiltà, sta cercando di riconoscere una disposizione comune. Prima di incontrarci dovremmo lavorare per reinterpretare quella base locale da troppi anni priva dell’appoggio civile di una comunità, dibattendo collettivamente sulle nostre debolezze, prima ancora che su astratti e risibili punti di forza. Sarebbe un’auto-investigazione che ci consentirebbe davvero di pòrci nella giusta relazione nei confronti dei nostri ospiti, senza ridursi a ricostruzioni nostalgiche, quando non addirittura folkloristiche, delle nostre o persino delle loro esperienze di lotta. Eviteremmo, così, di rappresentare in un altrove mitopoietico, esotico e idealizzato, una società calabrese mai come adesso frammentata e ultra-individualizzata.
Redazione di Malanova