No perditempo!

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CERCAVO UN MARE CALMO MA HO TROVATO TE

Continuiamo il nostro percorso di approfondimento ed analisi sulla cirsi della militanza proponendovi nove buone ragioni per ricominciare da zero estratte da KITRIK, prontuario di sopravvivenza all’agonia del capitale (DeriveAPPRODI, 2019). Movimento e movimento (quello con la m maiuscola e minuscola), centrosocialismo, sindacalizzazione della forma mentis dei militanti, incapacità di stare dentro e contro i meccanismi del capitale e le sue contraddizioni, sono questi gli aspetti che vengono messi in crisi per prospettare un’altra via, quella utile e necessaria a trasformare il mostro in classe, perché ci troviamo di fronte a una soggettività che spesso ha un volto mostruoso, proprio come mostruoso è il processo di soggettivazione capitalistica che genera deformazione nella classe abbattendone tenore di vita e aspettative sociali.


1 – Il Movimento non c’è più. Tranquilli, non agitatevi: non ci riferiamo ai movimenti sociali, questi anche negli ultimi anni sono talo­ra emersi, in modo frammentario, sporadico, senza costituire ciclo, con linguaggi, pratiche e rivendicazioni ambigue e contraddittorie. Ma, e forse sempre più sarà così, i movimenti dentro la crisi permanente sono creature mostruose e bastarde. Noi se questo pronome ha ancora senso, laddove il Movimento non c’è più queste creature le comprendia­mo ben poco, perché non rispondono ai nostri desideri, ai nostri codici, alle nostre retoriche. Anzi, spesso le rifiutiamo, le bolliamo come reazio­narie, congratulandoci con noi stessi quando la profezia si autoavvera. Raramente invece proviamo a farci spiazzare produttivamente: è indub­biamente più facile denunciare la bruttezza del mostro per assolverci delle nostre insufficienza, invece che interrogarci concretamente sulle nostre insufficienze per collocarci progettualmente dentro le viscere del­l’inquietante creatura. Allora, il Movimento di cui parliamo e che non c’è più è quello dell’ano­malia italiana degli anni Sessanta e Settanta, del rintreccio tra organizza­zione autonoma e autonomia di classe, tra progetto e lotta, tra gruppi e pro­cessi di conflitto. Era davvero, in quella specifica congiuntura, il movimen­to che abolisce lo stato di cose presente. È quell’anomalia, in senso forte, che ci permetteva negli anni Ottanta e Novanta di definirci «militanti di movimento» senza dover dare ulteriori spiegazioni. Ciò non avveniva in altre parti del mondo, dove per movimento si intende semplicemente una mobilitazione che inizia e che finisce, attorno a una rivendicazione circo­scritta, e dove il termine duro di militante è sostituito dalla figura liquida dell’attivista. Ora, e non solo da oggi, è chiaro a tutti che quell’anomalia so­pravvive solo come identità ideologica, o se vogliamo come gloriosa genea­logia. Tuttavia, siccome con l’identità, l’ideologia o la mera genealogia non si fanno le rivoluzioni, è necessario andare avanti. Non per amore del nuovo, parola in sé vuota e priva di senso; ma per l’inutilità della nostalgia, cioè di vestire i panni del morto per non elaborare il lutto. Dopo la fine del Movimento, c’è solo diluvio, solitudine e disperazio­ne? No, per nulla. C’è l’esigenza di ricominciare. Perché in fondo i mili­tanti rivoluzionari ricominciano sempre. E quando smettono di ricomin­ciare, smettono di essere militanti rivoluzionari.

2 – I movimenti (con la m minuscola) sono sempre stati ambigui e bastardi. Ovvero, non sono mai esistiti mostri belli e puliti. Nel gennaio 1905 un nutrito corteo si muove per le strade innevate di San Pietroburgo: è composto da operai e dalle loro famiglie, che svento­lano le sacre icone, immaginette recanti effigi analoghe a quelle di padre pio; è guidato da un prete, a capo di un sindacato zubatovista (leggi: al ser­vizio del regime) e probabilmente spia dell’Ochrana, la polizia politica russa; si dirigono verso il palazzo d’inverno, per rivolgere un appello allo zar, padre della patria, più o meno in questi termini: noi crediamo in te e ti vogliamo dire che sei ingannato dai tuoi funzionari corrotti. Chissà se fosse stato presente qualche compagno del nostro derelitto «Movimento», avrebbe sicuramente bollato quel corteo come travaglista e grillino, magari addirittura fascista. Invece la polizia falcia coi cannoni alcune cen­tinaia di operai e lì comincia quel processo che, in modo contraddittorio, a salti e tutt’altro che lineare, la genialità rivoluzionaria leniniana avrebbe fatto balzare fino alla rottura dell’Ottobre del ’17. Nel 1962, il Pci e il sindacato sostengono che gli operai che si sono ri­voltati in Piazza Statuto sono agenti prezzolati dai padroni: basta guardar­li, sono troppo giovani, si vestono e si comportano in modo troppo eccen­trico, hanno perfino i capelli troppo lunghi per essere operai. In quattro gatti avevano anticipato quella nuova composizione soggettiva, e da lì ini­ziò l’intreccio tra il Movimento e il movimento. Nel 2001 a Genova il mostro è vestito di nero, la sinistra e un pezzo della dirigenza dei centri sociali ancora una volta li definisce provocatori e infiltrati. Che belli invece che sono i pacifisti e la società civile, i preti e i boy scout: così colorati e così innocui, sia per noi che per i padroni. Il Mo­vimento ormai è lontano dal movimento. La guerra prima e la crisi poi spazzeranno via pacifisti e società civile: ce ne dobbiamo rammaricare? Nel 2008 gli studenti dell’Onda parlano di meritocrazia e ce l’hanno a morte coi corrotti. Noi, quel noi del defunto Movimento, tentiamo di spie­gare loro pedagogicamente che sbagliano perché così facendo alimentano l’orrido giustizialismo. Il risultato è catastrofico: con «Il fatto quotidiano» sotto il braccio se ne vanno con il Movimento 5 stelle e in questo caso sì, bisogna scriverlo con la M maiuscola. Il problema però siamo noi, non loro. Alla fine del 2013, a pochi giorni di distanza dalla mobilitazione dei «for­coni» che ha bloccato Torino, praticando autonomamente quello «sciopero sociale» che vari think tank del Movimento predicavano da anni senza suc­cesso, un vecchio compagnoirritato dalla mancata coincidenza tra i suoi concetti e la realtà in movimento dice che quella composizione è «biopo­liticamente reazionaria». Avesse detto biologicamente, sarebbe stato meno accorto tatticamente ma molto più sincero con se stesso. Qual è la composizione a cui fa riferimento? Sono giovani delle perife­rie e ceto medio impoverito, costretto chissà perché nella definizione di popolo, a cui vengono contrapposti i lavoratori della conoscenza, esaltati chissà perché come moltitudine. Senza rendersi conto che spesso queste figure, svuotate nell’astrazione filosofica, nella materialità si sovrappon­gono e si intrecciano. Senza rendersi conto che a decidere della direzione politica, reazionaria o rivoluzionaria, non è l’identità lavorativa ma la lotta. E senza rendersi conto che tutti, moltitudine o popolo che li si voglia chiamare, hanno un volto mostruoso, perché mostruoso è il processo di soggettivazione capitalistica che negli ultimi trent’anni li ha impoveriti nelle capacità e plasmati nell’accettazione, così come mostruosa è la crisi che ne ha fatto precipitare il tenore di vita e annullato le aspettative. Ogni tanto, quantomeno per rendersi conto dove si è collocati, servirebbe meno ontologia e più sociologia. Questo mostro non diventerà classe sce­gliendo tra Spinoza o Hobbes, ma solo attraverso un processo di lotta e di rottura, con il nemico e con se stesso. Se prima non vogliamo agire progettualmente nell’ambiguo ventre della bestia, è inutile lamentarsi dopo che la bestia è andata in una direzione contraria.

3 – Parlare della sfiga proprio non si può. Contrariamente all’indicazione pop di Luca Carboni (più utile per interpretare il mondo di tante dotte dissertazioni di Movimento, che né lo interpretano né lo trasformano), la crisi ha prodotto tra molti compagni e compa­gne un insano amore per la povertà e le mani callose, la miseria e la soffe­renza. Improvvisamente, così, siamo stati ridotti a essere quello che non siamo mai stati: missionari e pauperisti. Come se noi stessimo dalla parte degli oppressi e degli sfruttati, e non invece come è sempre stato di co­loro che si ribellano alla propria condizione di oppressione e sfruttamento. Noi non proviamo amore per la classe così com’è, proviamo odio per come il capitale la forma; non desideriamo esaltare il lavoro e la proletarietà, al contrario vogliamo abolirli; non ci interessa assistere i deboli, ma cercare la forza. Da qualche tempo invece fornire ai poveri dei servizi, tra l’altro fati­scenti e precari, è diventata l’attività principale del Movimento. Con il risul­tato che si è riprodotta la divisione tra erogatori e utenti del servizio, i primi tronfi di essere riconosciuti dall’opinione pubblica come buoni samaritani, i secondi momentaneamente pacificati dall’aver trovato qualcosa. Puntual­mente, quando i poveri trovano servizi migliori offerti dalle istituzioni, ab­bandonano i missionari del Movimento senza pensarci due volte. Del resto, non è difficile da capire che non si crea identità sull’essere poveri. Perché significa debolezza, sfiga appunto. E nessuno lo vuole es­sere, tanto più in una fase di crisi in cui come ci ricorda ancora Carboni i tempi son duri per non avere il sorriso sul viso. Si può invece costruire identità attorno a una linea di forza: per questo parliamo di classe, perché indica la possibilità di mettersi insieme con altri che vivono condizioni si­mili per farla pagare ai padroni. E dunque le nostre figure di riferimento non sono mai i poveri, ma coloro che lottano contro i processi di impove­rimento della soggettività e non solo economico. Un discorso analogo vale per la rinnovata passione per le mani callose: all’inveterato sinistro amore per la sofferenza su cui piangere, si aggiunge qui l’ansia per una malintesa ricerca di risultati tangibili. Vengono così esaltate quelle vertenze che portano a ottenere «qualcosa di concreto». Poco conta che quel qualcosa sia piuttosto irrilevante o marginale, perlo­più tra l’altro ben presto rimangiato e spazzato via dalla riorganizzazione padronale. Il punto è avere l’impressione di fare qualcosa per la «vera» classe, ribaltando il corretto rapporto politico tra lotte e vertenze: in questa ansia per la «concretezza», infatti, non sono le vertenze funzionali alla lotta, ma al contrario è la lotta funzionale alle vertenze. Vi è quindi una sindacalizzazione della forma mentis dei compagni, nel senso che il sin­dacato cessa di essere uno strumento tattico per diventare un obiettivo strategico. E in questo passaggio la rottura rivoluzionaria viene definitiva­mente espunta dall’agire politico. Proviamo allora a ribaltare nuovamente la gerarchia di priorità: in que­sta fase specifica il processo è tutto, il risultato è nulla. Dove l’opportuni­smo bernsteiniano sosteneva un’abdicazione strategica, noi assumiamo una necessità tattica; dove quello rinunciava ai macrofini politici, noi li riaffermiamo rifiutando di esaltare i microobiettivi vertenziali; dove il processo era inteso come riformismo istituzionale, noi – contro i novelli e inconsapevoli Bernstein contemporanei – mettiamo al centro la produ­zione di controsoggettività. Perciò, meglio una sperimentazione politica di conflitto che fallisca produttivamente, cioè facendo avanzare la comi­cerca con figure e su terreni centrali, piuttosto che una vertenza margina­le che «vinca» chiudendo lo spazio all’allargamento della lotta e allo svi­luppo dei processi di rottura e autonomia.

4 – Il futuro è morto. Sentiamo già il ronzare del rumore di sottofondo: eccoli lì, quelli che blandiscono l’estremismo nichilista. Rilassatevi e provate a ragionare, se ne siete capaci. Il nichilismo, soprattutto nella composizione giovanile, è un dato di fatto. È un problema? Certo, è un problema. Ma questo problema è nelle cose, non nelle parole che descrivono le cose. È il nichilismo prodotto dal capitale e dalla crisi. È il nichilismo della finanza e dei lupi di Wall Street come mo­dello di vita. È il nichilismo delle aspettative non più decrescenti, ma ormai decresciute. Compagni e compagne, se fare davvero inchiesta e non ideolo­gia vi costa troppa fatica, almeno mentre andate al centro sociale o all’uni­versità sintonizzate l’autoradio sulle hit dell’estate. «Soltanto per stasera amore e capoeira», «un domani non ci sarà un po’ come le storie su insta­gram», «questa sera non ti dico no», e via di questo passo. Attenzione, non è la gioiosa conquista del presente del proletariato giovanile, dietro a cui tramontava l’etica sacrificale del partito comunista. E non è nemmeno il no future dei punk, in un misto di rabbia e rifiuto, di disperazione e autoesclu­sione da una società che andava in una direzione opposta. Questo presen­tismo è tutto interno alla crisi permanente e alla radicale asimmetria dei suoi rapporti di forza, è la rassegnata consapevolezza che aspettative non ce ne sono e si tratta semplicemente di godersi quel poco che si ha. È un nichi­lismo passivo, non attivo. Il problema non è condannare chi brucia tutto. I sinistri fanno così, perché temono che qualcuno prima o poi darà fuoco anche a loro. Il pro­blema è come dalle ceneri organizziamo prospettiva, che è tutt’altra cosa dal futuro, perché affonda le proprie radici nella materialità del presente, di quello che siamo e contro cui cerchiamo di essere. Come assumiamo il fallimento delle prospettive offerte dal capitale in modo attivo e non passi­vo, cioè come occasione per costruire aspettative interamente autonome. Come assumiamo che la rottura è un processo e non un evento, un volere tutto e non accontentarsi dei margini, autonomia collettiva e non comu­nità interstiziali.

5 – L’iindividuo e la comunità sono soli. Al precipitare delle aspettative dentro la composizione sociale, corrisponde un precipitare delle aspettative dentro la composizione militante. Due aspetti della crisi, quella economica e quella politica. Come hanno perlo­più reagito le compagne e i compagni a questa crisi? Con il riflusso, nel privato e nella comunità. Hanno reagito chiudendosi nell’amministrazio­ne dell’esistente, a livello individuale o di «struttura». Sul primo c’è poco da aggiungere, lo conosciamo fin troppo bene, e chi non lo conosce può farsi un giro nelle industrie della formazione, della comunicazione, della riproduzione. Lì troverete persone che se non sapete per altre fonti essere schierate politicamente, direste che sono le più accettanti e sottomesse che esistono, felici di contribuire alla riproduzione di un mondo che, al di fuori delle mura del lavoro e ben attente a non dar fastidio ai padroni, di­cono di voler trasformare. O magari, come avviene nelle università, i soggetti delle lotte (i migranti, ad esempio) diventano oggetto di studio, ossia di carriera accademica: li si priva di parola nel momento in cui si afferma di volergliela dare, li si depoliticizza facendo finta di fare politica. E quan­do fanno di testa propria, sfuggendo ai paludati concetti e all’immagine di vittimità in cui li si vorrebbe ingabbiare, prendendo autonomamente pa­rola e diventando quindi pericolosi, li si allontana e denuncia: toccatemi tutto, ma non il mio spritz! Qualcosa va aggiunto, invece, sul riflusso nella «struttura». È un ter­mine divenuto caro ai militanti centrosocialisti, che ne hanno fatto una vera e propria ragione di vita comunitaria. Se chiedete a un compagno come è stato il passato anno politico, vi dirà che il contesto è quello che è (le insufficienze appartengono sempre al contesto, o alla cattiveria dei pa­droni, o alle carenze delle altre «strutture» concorrenti), però per il noi della nostra «struttura» è andato benissimo: vuoi mettere, abbiamo ag­gregato due compagni! Ve lo dirà con la soddisfazione di una piccola im­presa un po’ sfigata che si vanta di sopravvivere dentro un mercato in pro­fonda crisi. Non è ovviamente dato sapere cosa la «struttura» se ne farà di questi due compagni in più, al di là di spillare birre e stare alla porta ai concerti. Nel centrosocialismo reale, infatti, la «struttura» non è un mezzo per fare la rivoluzione, avviene l’esatto contrario: la retorica rivolu­zionaria è un mezzo di merchandising per il vero fine, l’autoriproduzione della «struttura», appunto. «Il mio centro sociale esiste da tot anni!» affermano appagati i suoi gestori, indipendentemente da ciò che in questi tot anni ha fatto o non ha fatto per far avanzare la lotta di classe. Ciò implica che, così come nell’accademia non si fa teoria, nel centrosocialismo spes­so non si fa politica: in entrambi i casi si gestisce l’orticello privato, individuale e comunitario, nella misura in cui dall’autoriproduzione della co­munità dipende il riconoscimento individuale. Questa brama antimaterialistica e atemporale di eternità, tra l’altro, non è mai appartenuta ai rivoluzionari. Le strutture militanti più impor­tanti della nostra storia sono durate per un tempo limitato, lasciando poi un’eredità e una sedimentazione soggettiva per un balzo in avanti nelle forme di organizzazione. D’altro canto, l’obiettivo dei rivoluzionari è es­sere superati nella loro singolarità per poter rilanciare in avanti collettiva­mente. L’obiettivo dei rivoluzionari è produrre crisi: la crisi della propria controparte, la crisi della propria parte. E fare della crisi terreno di rottura e trasformazione radicale. Rottura con il nostro nemico, rottura con il ne­mico che si incarna in noi.

6 – Non siamo noi a essere estremisti, è la realtà a essere estrema. L’idea tipicamente democratica e di sinistra per cui alla moderazione dei toni corrisponde un allargamento del consenso, è sempre stata politicamente deleteria. È infatti basata su una concezione quantitativa della politica, per cui si guarda ai numeri e non alla potenzia­lità soggettiva. Tale concezione può essere utile per chi deve prendere voti, è catastrofica per chi le istituzioni rappresentative le vuole distrugge­re. Oppure è utile per chi vuole riprodurre la propria istituzione, per quanto sfigata e marginale: e ritorniamo alla soddisfazione per i due com­pagni aggregati. Conflitto e consenso, dicevano una ventina di anni fa quelli che corteggiavano la società civile (brrrr!), che significava: far finta di fare il conflitto al fine di ottenere consenso per se stessi. Tuttavia, oggi quell’idea è pure falsa, perché la crisi produce una polariz­zazione sociale a cui corrisponde una polarizzazione dei comportamenti, delle passioni, delle possibilità. È sempre accaduto così, ci sono fasi in cui lo spazio di contenimento tra rivoluzione e reazione si asciuga; e tra possi­bilità di mobilitazione in un senso o nel senso opposto il confine è labile e reversibile. Questa reversibilità non dura in eterno: quando si stabilizza, il confine cessa di essere labile. Fino ad allora, vale quello che dice il poeta: dove massimo è il pericolo, là cresce anche ciò che salva. Oggi è il conflitto a contenere in sé il consenso. I reazionari lo hanno capito, «noi» no. Quando oggi sentite qualcuno che fa appello al frontismo democrati­co, sappiate che è un nemico. Perché ci è nemico il frontismo, che vuol dire portare acqua al mulino di chi vuole conservare lo status quo. E, so­prattutto, ci è nemica la democrazìa, straordinario dispositivo di depoliti­cizzazione e svuotamento della soggettività. La democrazia non nega la possibilità del conflitto, ma lo anestetizza e risolve nei confini del consenso, cioè delle proprie forme di autoriproduzione. Il poeta oggi direbbe: dove la democrazia viene messa in discussione, là cresce anche ciò che salva. Aggiungiamo: dove c’è la sinistra e la democrazia, spariamo senza pietà. Senza lacrime per le rose.

7 – Per andare avanti bisogna ricominciare da zero. Ecco, bisogna fare come Marx. No, non il Marx delle leggi di movimento del capitale: quello lo dobbiamo studiare, possedere, e poi rompere e rovesciare questo ci ha insegnato Lenin, questo ci hanno inse­gnato le leggi di movimento dell’autonomia della classe. Stiamo parlando del Marx militante, quello che viene descritto nell’onesto film di Peck. Non il topo da biblioteca dipinto dalle accademie, ufficiali o alternative. È il Marx ossessionato dalla rivoluzione, che intriga e scappa dalla polizia, che cerca di capire cosa pensano i proletari e dove sta la forza, che organiz­za riunioni e progetta spaccature. I pochi, pochissimi che gli stanno intor­no (per fare la rivoluzione non dovremmo essere più di tre?, domanda iro­nica Jenny a uno spaesato Engels), faticano a comprendere la furia con cui usa tatticamente e poi attacca violentemente il mostro sacro Proudhon, o con cui ridicolizza il pope Weitling. Ci vuole cautela, ci sono centinaia e centinaia di operai che lo seguono! Marx se ne infischia, perché per i rivo­luzionari il problema è qualitativo e non quantitativo. Bisogna disfarsi di una cultura politica inadeguata, di figure esaurite, di forme organizzative incapaci di cogliere le tumultuose trasformazioni del presente. Bisogna ricominciare da zero, appunto. Il film si conclude da dove tutto è cominciato. Poi ci sarebbe stato il 1848, e quel maledetto giugno. Marx non l’ave­va previsto. Marx l’ha organizzato. Non con il consenso, ma con il conflit­to; non sommando quello che c’è, ma rompendolo per scommettere su ciò che gli altri non vedono; non inseguendo le presunte maggioranze, ma scommettendo sulle potenti minoranze.

8 – Allora, cari compagni e care compagne abbarbicati alle grotte­sche certezze della vostra vuota identità, le nostre strade inesorabilmente si separano. Senza polemica, senza astio, senza rancore. Non siete nostri nemici né nostri avversari. Semplicemente, siete inuti­li. Non proviamo alcuna rabbia nei vostri confronti. Proviamo qualcosa che forse è molto peggio: tristezza e pena. Se abbiamo tempo vi diciamo velocemente addio. Se decidete di sopravvivere, riproducendo quello che siete, non ci incontreremo più. Se decidete di morire per rinascere, sapete dove trovarci: dentro e contro una realtà che basta guardarla per provare odio e voglia di distruggerla.

9 – Noi non siamo eterni: dobbiamo morire per conquistare l’immortalità. Dobbiamo metterci in crisi continuamente per divenire quello che siamo sempre stati. È noto che una delle più belle ancorché inconsapevoli definizioni del militante rivolu­zionario l’ha data San Paolo: siamo uomini e donne in questo mondo, non di questo mondo. Oggi molti di quelli che ci stanno attorno e a cui abbia­mo detto addio hanno scelto di essere il contrario: uomini e donne di que­sto mondo, non in e dunque contro questo mondo. L’individuo è solo, abbiamo detto; ed è sola l’organizzazione ripiegata sull’amministrazione del proprio esistente, abbiamo aggiunto. La consapevolezza delle nostre sconfitte è ciò che ci permette di dare, di nuovo e sempre, l’assalto al cielo. Dietro le vostre retoriche autocompiaciute e trionfalistiche noi vediamo l’accettazione della sconfitta peggiore: la solitudine di chi a quell’assalto ha definitivamente rinunciato. Lo mettete nei vostri siti e lo stampate sulle vostre felpe perché non sta più nella vostra testa e nel vostro agire. E allora, la solitudine può essere sconfitta solo nella conricerca mili­tante dentro la composizione di classe, cioè dentro il caos, le contraddizio­ni e le ambiguità che la animano e la frammentano. Dentro e contro. Ali­mentare di spontaneità l’organizzazione e condurre l’organizzazione dentro la spontaneità. L’autonomia è sempre stata questo: è l’organizza­zione che riflette sulla propria spontaneità, è la spontaneità che riflette sulla propria organizzazione. È una scommessa che va alla radice, met­tendo in gioco quel (poco) che abbiamo, per poter conquistare quel (tanto) che desideriamo. Se cercate un mare calmo in cui godervi un’identità ideologica, state alla larga da queste onde. Noi ricerchiamo la tempesta. È inutile scaricare sulla soggettività esistente le nostre insufficienze. Voi che vedete buio pesto ovunque, chiedetevi se non sono le vostre lenti a es­sere oscurate o a guardare nella direzione sbagliata. Allora, non l’hai ancora capito? Nessuno dorme c’è il sole anche di notte l’ho detto mille volte che tutto può succedere. Siamo pronti per qualcosa di più che una notte speciale?

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