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PERCHÉ LEGGERE ALQUATI OGGI?

di Steve Wright*

Proponiamo ai nostri lettori un estratto (pag. 112-127) del volume Pratiche di inchiesta e conricerca oggi, libro curato da Emiliana Armano (Ombre Corte, 2020) dove Steve Wright traccia una sintesi del lavoro militante di Romano Alquati chiarendo perché – ancora oggi – sia importante leggere e capire i suoi contributi su questioni fondamentali come la composizione di classe, il ruolo della militanza nella politica di classe e il modo di comunicare attraverso gli scritti.


Introduzione

Romano Alquati ha svolto un ruolo cruciale nello sviluppo dell’operaismo fin dal suo emergere. Nei primi anni Sessanta, egli elabora una parte significativa dei concetti centrali di questa tendenza politica a cominciare dalla categoria fondamentale di composizione di classe. Tale attività avrebbe potuto costituire per lui una realizzazione soddisfacente, ma invece la sua mente fertile ha continuato a produrre analisi e prospettive rilevanti anche nei decenni successivi. Cittàfabbrica, operaio sociale, autovalorizzazione, conricerca, proletariato intellettuale, terziarizzazione del lavoro: concetti la cui discussione è stata fortemente impulsata dall’elaborazione di Alquati. Mentre alcune delle innovazioni più significative di Mario Tronti sembrano a volte emergere attraverso la pura elaborazione logica – soprattutto la sua nozione di necessità del lavoro salariato di auto-sopprimersi come forza-lavoro per distruggere il rapporto capitalistico – l’originalità di Alquati deriva dalla sua straordinaria attenzione all’analisi del nesso critico esistente tra materialità della composizione di classe e soggettività di massa. Anni dopo, Tronti ha riconosciuto chiaramente tale apporto, ricordando che nell’esperienza dei “Quaderni Rossi”:

Il gruppo romano, come quelli del Nord, era arrivato alla conclusione della centralità politica della classe operaia e della fabbrica, ma la differenza consisteva nel fatto che loro ci erano arrivati perché quella classe l’avevano davanti, l’avevano vista, l’avevano studiata, mentre noi c’eravamo arrivati per via teorica, leggendo Marx.(1)

Alquati ci ha lasciato un’eredità ricca e complessa, che solo ora (e lentamente) cominciamo a squadernare. I suoi sforzi per comprendere e impegnarsi con le “forze nuove” degli anni Sessanta e il loro apporto al rilancio della lotta di classe continuano a ispirare importanti analisi sulla contemporanea composizione di classe, delle quali il libro di Jamie Woodcock, Working the Phones(2)è solo l’esempio più recente.

In un modo simile anche se più sotterraneo, le riflessioni di Alquati sul proletariato intellettuale degli anni Settanta hanno decisamente influenzato anche i dibattiti del movimento durante quel decennio.

Al contrario, la sua elaborazione contenuta nei suoi scritti negli anni Ottanta e Novanta finalizzata a sviluppare una teoria sociale adeguata alla fase dell’”iperproletariato”, è molto meno conosciuta.

Poche persone al di fuori dell’Italia hanno sentito parlare di Alquati; ancora meno hanno effettivamente letto e fatto proprio tutto ciò che ha scritto. Probabilmente è giusto aggiungere che, persino in Italia, il lavoro di Alquati non è così conosciuto come potrebbe e dovrebbe essere poiché relativamente pochi autori hanno esplorato il pensiero di Alquati in profondità. D’altro canto, quando il lavoro di Alquati è stato ripreso e riesaminato, spesso ha ricevuto una calorosa accoglienza. Di recente, per esempio, l’apprezzamento del suo pensiero è stato espresso nel libro di Michele Mezza, Avevamo la luna(3), che richiamando le indagini di Alquati sulla Olivetti dagli anni Sessanta, dice: “L’unico vero esempio di confronto materiale con il nuovo mondo produttivo che comincia a fare capolino nelle fabbriche italiane”.(4)

Mezza sottolinea inoltre che la ricerca di Alquati è stata ampiamente trascurata dalle tendenze dominanti all’interno della sinistra italiana, sia allora che successivamente. Ciononostante, come notava Alquati presentando il volume Sulla FIAT e gli altri scritti per la prima volta a metà degli anni Settanta, i saggi contenuti in esso erano richiesti da un pubblico ampio ed eterogeneo, inclusi:

studenti costretti a fare la solita tesi sulle lotte degli anni Sessanta, giovani quadri del movimento operaio alla ricerca delle fonti di una serie di ideologie dominanti, sociologi, scienziati sociali e politici che sentono il bisogno di una verifica delle tematiche dell’ultimo decennio, giovani imprenditori in cerca di spunti per nuove strategie di sviluppo capitalistico.(5)

Data la complessa natura di gran parte del suo lavoro di ricerca edei modi in cui, come per ogni pensatore significativo, il suo pensiero è evoluto nel tempo, a volte è difficile individuare un argomento specifico e dichiarare categoricamente: “Questo è ciò che Alquati credeva in merito a X”. D’altra parte, Alquati ci ha lasciato un ricco corpo di materiale eterogeneo che ritorna più volte sui temi che hanno impegnato la riflessione durante tutta la sua vita e che continuano ad essere centrali per chiunque sia interessato a ciò che Marx ha chiamato “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti”.(6) Avendo presente l’ampio panorama delle questioni da lui trattate all’interno del suo percorso di ricerca, in questo articolo intendo concentrarmi su tre specifici temi: composizione di classe, ruolo della militanza nella politica di classe e modo di comunicare attraverso gli scritti. E dal momento che la lettura di Alquati è un’esperienza peculiare, nel proporla intendo attirare il più possibile l’attenzione sulle sue parole. Nelle pagine che seguono proporrò una discussione di questi tre temi attraverso l’analisi di alcuni testi.

Alcune attuali tematiche alquatiane

Sul comunicare”

Non ho mai scritto per intellettuali, ma per militanti, con una scrittura peculiare.(7) Danilo Montaldi è spesso citato per la sua influenza formativa su Alquati come importante punto di riferimento per tutta la sua vita. In comune avevano le attività politiche svolte a Cremona nel corso degli anni Cinquanta, attraverso l’impegno nella conricerca come forma di produzione di sapere e di organizzazione, nel contesto complesso che aveva assunto la lotta della classe operaia per l’autonomia dal capi-tale, dallo Stato e dal movimento operaio istituzionale: tutte queste tematiche erano condivise da Montaldi e Alquati, anche se ciascuno le intendeva in modo distinto. A tal proposito sottolineo che, metà del libro, scritto successivamente a questo periodo, è dedicata alle riflessioni di Alquati riguardanti il suo rapporto intellettuale e politico con Montaldi – in particolare le prospettive che hanno condiviso e le differenze che li hanno separati. L’autore anonimo della prefazione a questo testo sostiene che: “È evidente che, quando scriveva, Montaldi non dava il meglio di sé. Che egli era ben meglio nei dialoghi, nel vivo del suo rapporto di studioso e politico, nella militanza, di quanto non fosse nelle scritture”.(8)

Se questa opinione su Montaldi è fondata, è ragionevole dire che anche il rapporto di Alquati con la scrittura e della sua scrittura con il parlato è stato complesso. Chiunque si sia confrontato con i testi di Alquati sa che aveva un modo di scrivere personalissimo fino a sfiorare l’idiosincrasia. Allo stesso tempo, il fascino di questi scritti sta anche nello stile di scrittura. Le questioni che affronta erano difficili e complicate, e complicate ancor più dagli anni Settanta in poi, quando comincia a sviluppare il suo peculiare vocabolario e il suo modello teorico interpretativo.

Inoltre, nei suoi scritti, l’esposizione è sempre caratterizzata da una certa giocosità (che di solito) ripaga dello sforzo richiesto per la comprensione dei testi. Elementi di quella giocosità possono già essere osservati nelle note che accompagnano gli articoli rivisti in Sulla FIAT e altri scritti; ma questa dimensione del lavoro di Alquati si presenta veramente compiuta con le sue pubblicazioni degli anni Novanta che contengono divertenti scarti linguistici e un uso colorato della lingua.

L’altro aspetto caratteristico degli scritti di Alquati – soprattutto nei successivi – è che sono tipicamente basati sul linguaggio parlato. (9) Come ha sottolineato in Camminando:

Questo testo non è una sbobinatura di lezioni, ma questa è una sbobinatura di parti di interventi orali in alcuni centri sociali del nord. È sempre la ripresa di un parlato. Io procedo così. Per ora non mi interessa granché essere scrittore, la scrittura. Inoltre io non considero questi “libretti” come dei piccoli libri, ma ancora – come macchinette. E dunque la loro forma la intendo solo come “struttura logica”, quindi non come stile di scrittura.(10)

I libri come “macchinette” – il riferimento ai temi di apertura di Mille piani di Deleuze e Guattari è evidente. (11) E come si evince in un altro opuscolo dell’anno precedente, Alquati ha preso molto sul serio l’indicazione degli autori francesi che i testi siano creati in modo da essere considerati strumenti provvisori da condividere e rielaborare e, se necessario, armi:

i miei volumi non sono e non vogliono essere tanto dei “libri”, ma macchinette, e non sono solo da leggere. Sono sì da imparare, ma sono soprattutto da operazionalizzare; pure talora passando per la loro integrale traduzione in ipertesti, ed esplorandovi anche nuovi e diversi percorsi. Tanto più che sono fatti per blocchi abbastanza autonomi di testo e quindi riassemblabili differentemente, con altri fili, spero rossi…! Dipende dall’immaginazione e dall’impegno del lettore. Ma c’é chi già l’ha fatto. Si possono anche così collettivizzare. E mettere in reti elaborative. Potrei già farlo io col modem e forse presto lo farò. (12)

Tuttavia, come Franco Fortini(13), neanche Alquati ha scritto “nemmeno per tutti”(14). Al contrario, e nonostante il commento secondo il quale i suoi scritti erano rivolti a un pubblico ampio composto di “sociologi, scienziati sociali e politici” e “giovani imprenditori” egli ha chiarito che lo scopo primario di ripubblicare i materiali provenienti da “Quaderni Rossi” e “Classe Operaia” era politico. Per quanto riguarda il pubblico, come aveva detto Alquati(15) nella prima frase di Sulla FIAT e altri scritti, lo scritto era destinato innanzitutto “ai giovani quadri del cosiddetto ‘movimento’”. Allo stesso modo, egli indica che alcuni dei suoi testi successivi “si riferiscono a coloro che in qualsiasi maniera si considerano membri di un’organizzazione che dicono ‘comunista’”.(16)

Connesso alla questione del comunicare è il senso di curiosità di Alquati, insieme alla sua capacità di mettere in discussione le ipotesi teoriche accettate solitamente come valide. La distanza e il disprezzo di Alquati per la mentalità ristretta della cultura socialcomunista che ha dominato il movimento operaio italiano dopo la seconda guerra mondiale é un’altra costante del suo lavoro. Durante gli anni cruciali immediatamente successivi al 1956, per esempio, aveva sostenuto che l’avanzamento nella comprensione della situazione sociale sarebbe stato possibile solo accantonando la visione ortodossa e focalizzandosi sui cambiamenti in corso nella società italiana. Come ha osservato in quella fase, un ruolo guida in tal senso è stato svolto dai:

Giovani che, disgustati dai “centri studio” dei “partiti operai”, ormai in ogni città, si raccolgono in gruppi per continuare, loro, “nei limiti del possibile” una cultura critica in senso marxista. […] Oggi, per chi cerca l’aggancio dialettico con la struttura, la realtà della “base” è talmente mistificata e sconosciuta che bisogna solo descrivere (e non si richiedono né “protocolli descrittivi” e tanto meno “descrizioni fenomenologiche”) al livello del senso comune e nel linguaggio della vita quotidiana, per fare un lavoro di interesse politico e culturale. Ciò è possibile soprattutto dove situazioni arretrate conservano forme di vita primaria che facilitano il contatto personale. Altrove si richiedono strumenti di cui, a un certo punto, è doveroso impadronirsi.(17)

Questa sensibilità costituisce un motivo costante nell’itinerario di ricerca di Alquati al punto che alla fine degli anni Settanta sosteneva che “il primo passo d’avvio della ricerca è una discesa sul campo per chiedere agli interlocutori”.(18) Essere coerenti con questo intento rappresentava il fascino del processo di apprendimento, questione cruciale sia per la formazione di militanti politici sia per gli allievi in generale. Imparare, ricercare, cambiare il mondo: tutto ciò era intimamente connesso per Alquati.(19) La conricerca, come mappatura dei rapporti di forza tra classi in un contesto dato, implicava: “la ricerca alla pari con coloro che prima erano solo oggetto di intervista e basta”.(20) Era, in altre parole, un esercizio condiviso e circolare nella costruzione di conoscenza e nella comunicazione dell’apprendimento reciproco tra il cosiddetto “educatore” e l’“allievo” – un rapporto su cui Marx stesso, come sappiamo, aveva una visione ben precisa. (21) Per Alquati, ciò significa anche che l’apprendimento non era semplicemente da intendersi come “contenuto”, ma era anche come processo: “insegnare ad esercitare e sviluppare le capacità critiche”.(22) Dopo tutto, “il comunicare cambia sia il ricevente che l’emittente”.(23) E anche se la conricerca, a volte difficile, non era per gente pusillanime(24), era comunque una parte obbligatoria di qualsiasi “lavoro d’esplorazione per la lotta e mobilitazione e d’organizzazione di militanti vecchi e nuovi su nuovi obiettivi”.(25)

Composizione di classe

Quando parliamo di composizione di classe, parliamo di un processo di apprendimento, lungo e difficile; Non erano cose che potevi imparare in un giorno, e non erano cose che leggevi su un libro. (26)

Elemento chiave degli strumenti teorico interpretativi che Alquati ha contribuito a sviluppare negli anni Sessanta è la nozione di composizione di classe. Almeno per un breve periodo, la sua utilità politica è stata considerevole e ha permesso agli operaisti di dare la loro impronta sulla lettura della politica di classe durante il “maggio strisciante” degli anni Sessanta e Settanta. Ma è anche giusto dire che, pur con tutta la sua efficacia in quella fase, l’analisi della composizione di classe così come è stata svolta in quel periodo è oggi tutt’altro che adeguata per la comprensione della divisione imposta dal capitale tra la sfera della riproduzione e della produzione, così come dei mezzi con i quali questa divisioni può essere superata. (27)

Se il saggio di Sergio Bologna(28) sulle lotte rivoluzionarie nel Novecento offre una prima comprensione di alcune delle ipotesi operaiste relative alla questione della composizione di classe, è Alquati che in genere è riconosciuto per aver dato per primo sviluppo a questa nozione. Infatti, come dice lo stesso Bologna(29), la composizione di classe è “un termine inventato da Romano Alquati”. Allo stesso tempo, è difficile trovare all’interno del lavoro di Alquati qualsiasi discussione sistematica e argomentata di questo strumento analitico, quale la si può trovare nel discorso breve ma estremamente ricco di Bologna pubblicato nel 2013. Invece, negli scritti e nelle interviste di Alquati c’è una serie continua di osservazioni disperse qua e là. Per ricostruire la definizione della nozione alquatiana occorrerà quindi in futuro svolgere un lavoro sistematico di ricostruzione e analisi critica comparata dei testi, più approfondito di quanto mi è possibile effettuare in questo breve articolo. Nel frattempo, qui di seguito vorrei offrire alcune considerazioni e cominciare ad evidenziare alcuni passaggi nei quali Alquati ha scritto sul tema.

I saggi di Alquati sui “Quaderni Rossi” e “Classe Operaia” costituiscono probabilmente la fonte primaria e immediata per esplorare le sue opinioni sulla nozione di composizione di classe. Cercando di giungere ad una definizione attraverso questi scritti, possiamo cogliere il lento ma costante emergere della categoria, a cominciare dall’articolo di Alquati sulla Olivetti che svolge un ruolo cruciale in questo senso. Ciò per una serie di ragioni, forse la più rilevante è che in questo testo, Alquati, pur non esprimendosi mai esplicitamente in merito, tuttavia nella sua analisi presenta una connessione cruciale tra “la composizione organica del capitale” (e quindi il processo lavorativo) da un lato, e le varie forme assunte dal comportamento dei lavoratori dall’altro. Oltre a ciò, è necessario notare che, con l’eccezione di due saggi sulla struttura della classe operaia, la maggior parte dei riferimenti alla nozione di composizione di classe all’interno di Sulla FIAT e altri scritti si concentra sulla questione della ricomposizione di classe: cioè del processo mediante il quale i lavoratori cercano di sottrarsi alle segmentazioni del capitale, proiettandosi collettivamente in avanti sulla base di una pratica, di un programma e di una organizzazione autonome. Anche in uno degli specifici saggi che costituiscono le eccezioni, ritroviamo che l’analisi di Alquati della composizione interna della classe operaia non è mai separata dalla questione dalla prospettiva della ricomposizione:

Il discorso sulla classe operaia è stato fin qui condotto da noi in modo generale e prevalentemente legato al momento della lotta. Ci interessa a questo punto iniziare un tipo di considerazione sociale del problema, che punta l’attenzione soprattutto sulla composizione interna della classe operaia, in una situazione storica precisa, come può essere quella italiana. L’obiettivo è di recuperare alla fine, in termini concreti, dell’unità politica della classe, che dovrà essere prima di tutto unità e univocità dei movimenti delle varie parti di cui storicamente si compone la classe operaia, ai fini della lotta contro il padrone collettivo.(30)

Viceversa, nel lavoro successivo di Alquati, le considerazioni incentrate esclusivamente sulla nozione di composizione di classe come strumento di analisi, sono presenti solo come cenni intermittenti. Certamente, nel suo discorso il termine composizione di classe evoca una figura “mitica”, quella che egli chiamava “Una delle più sacre icone”(31): anche qui, gran parte della sua focalizzazione è ancora sulla ricomposizione e sul ruolo dei militanti all’interno di quel processo. Infatti, Sacre Icone è un testo in cui Alquati(32) esprime dubbi sull’efficacia di alcune delle terminologie chiave associate alla composizione di classe, a partire dalle nozioni di composizione tecnica e politica: “questi aggettivi”, egli sostiene, “non vanno bene, creano equivoci”.

Un paio di anni prima, esprime questi dubbi ancora più chiaramente, quando nel corso di un’intervista sostiene che:

Bisogna abbandonare sia il concetto di composizione tecnica che politica. Composizione politica perché bisogna iniziare a distinguere tra politica e politico. Oppure la composizione politica assume il politico, dove il politico è una dimensione, una valenza dello stesso sociale. La composizione tecnica cos’è? E’ riferita alla tecnica, ma la cosa più importante è cultura e organizzazione, io le metto dentro, allora ci metto dentro anche i bisogni. Ma allora questa terminologia non funziona assolutamente. La composizione tecnica della classe è l’articolazione della classe come capitale variabile, però non solo la tecnica, ma è anche la sua cultura, la sua ideologia, la sua organizzazione; la composizione politica non è nient’altro che la vera ricomposizione. Allora quei due aggettivi vanno modificati, perché ora gli abbiamo dato un contenuto, che gli abbiamo dato noi.(33)

E per complicare ulteriormente le cose, alcune sue note del decennio successivo suggeriscono una sorta di ripensamento. Così sostiene che: “Nel triangolo composizione tecnica – composizione politica – ricomposizione (così come in quella Gerarchia tecnica – Gerarchia politica – Lotte) esistono delle ambivalenze né da appiattire né da negare: da approfondire. Il fondamentale scarto che lì dentro si muove è l’essenza della politica”.(34)

Torniamo per un attimo all’intervista di Alquati del 1991, in cui sosteneva che la dimensione organizzativa è più importante da quella della tecnica: questa affermazione può sorprendere coloro che abbiano una conoscenza del suo pensiero basata solo sul suo lavoro più lontano nel tempo, che pure è stato importante per aiutare a comprendere come i lavoratori abbiano combattuto nella fase storica della catena di montaggio. Ebbene, in vista della definizione della relazione teorica esistente tra lavoro morto e vivente, questa sottolineatura sulla dimensione organizzativa del dominio del capitale può essere ritenuta una costante nel pensiero di Alquati a partire dai suoi primi contributi a “Quaderni Rossi”. A conferma di ciò, ad esempio, nei suoi scritti su Università e composizione di classe degli anni Settanta, sostiene che la trasformazione organizzativa apre uno spazio nelle Università per impulsare direttamente il processo di valorizzazione:

L’innovazione è oggi soprattutto “innovazione organizzativa”. La stessa ristrutturazione ha innovato l’organizzazione, e se non era la tenuta operaia […] vinceva! Il salto “tecnologico” che tutti aspettavano è stato attuato, ma la sinistra non l’ha visto perché sognava sopratutto un nuovo macchinario: invece esso è consistito in una nuova organizzazione. E questo riaffermarsi dell’organizzazione come via regia dello sviluppo capitalistico e dell’accumulazione vuol dire che nella produzione, nella riproduzione, nel governo, quello che serve di più alla conoscenza di ciò che avviene e alla comprensione di ciò che storicamente è avvenuto, è la scienza dei rapporti sociali: non solo la scienza del lavoro vivo e del suo scambio con quello morto, ma la scienza sociale in senso lato. E proprio per questo sono le Facoltà più legate all’Impresa quelle che più devono ridare spazio alla scienza sociale (come appunto Ingegneria…), ma anche quelle legate alla riproduzione (si veda cosa cambia e in che modo cambia a Medicina); in generale esse sviluppano la scienza sociale come esigenza di “governo del territorio”…(35)

In modo simile, quindi, Alquati evidenzia l’esigenza di qualcosa di altro, di qualitativamente diverso per avanzare verso la “liberazione dell’umanità dalla forma-valore stessa, e quindi dalla stessa forma–merce; Oltrechè dal capitale e dalla forma-capitale”. (36) L’inizio di questa critica era già presente nella descrizione della cultura dell’operaio massa:

Questi nuovi operai avevano per slogan “più soldi e meno lavoro”, e potrebbero essere definiti dei nihilisti fordisti, potenzialmente mobilitabili pure contro se stessi… Ma anche questo nuovo referente operaio aveva i suoi limiti, e solo una nuova organizzazione politica poteva portare verso il loro superamento la nuova classe operaia in ricomposizione.(37)

Militanti

Il nostro tempo è il tempo dei militanti(38) In tutto il suo lavoro, Alquati ha sempre sostenuto che, poiché i militanti svolgono un ruolo indispensabile nel processo di ricomposizione della classe, la loro formazione, il consolidamento e l’estensione siano una questione degna di notevole attenzione. Già nel suo saggio sulla Olivetti l’idea è che, nonostante gli sforzi del capitale per dividere e ricondurre il ruolo dei lavoratori all’interno del processo di valorizzazione capitalistica,

la classe operaia torna con più forza a combattere: ma le sue lotte sono ancora funzionali al sistema. Sono sempre le lotte di atomi, sono sempre di lotte cieche. Superare il cieco empirismo è il grande compito collettivo dei militanti rivoluzionari nel capitalismo che razionalizza tutti gli aspetti della vita sociale, che pianifica lo sfruttamento su scala mondiale.(39)

Il pensiero di Alquati riguardo la funzione dei militanti si approfondisce nel periodo di “Classe Operaia”: agli inizi degli anni Sessanta riteneva possibile identificare una generazione emergente formata nel conflitto sul posto di lavoro – in parte attraverso l’incontro con altri (compagni di una precedente generazione, e militanti “esterni” come Alquati), ma soprattutto formata dalle esperienze di lotta al capitale sul posto di lavoro:

è importante riferirsi a questa nuova figura del militante, chiarirne le ambiguità, le caratteristiche transitorie, i pericoli, ma anche la funzione positiva nella situazione attuale dei nuovi militanti: che devono essere considerati come parte del lavoratore, in quanto sono definibili in base all’azione che svolgono all’interno delle lotte operaie: perché già esprimono ad un livello potenzialmente soggettivo l’azione di creazione, di connessione e di scoperta dei meccanismi di unificazione e selezione del movimento di lotta operaia. Quindi il contenuto di questa nuova figura del militante non è meramente “organizzativo”; Si tratta di capacità che si esprimono in relazione alla lotta operaia.(40)

Più difficile da definire era il rapporto di tali militanti con i partiti allora esistenti. Se durante l’esperienza di “Classe Operaia”, ciò implicava un tipo di relazione, per quanto contorta, con il Partito comunista italiano (Pci), la situazione divenne più complessa dopo che quest’ultimo espresse l’intenzione di entrare nel blocco governativo cercando di subordinare le rivendicazioni della classe operaia a quell’obiettivo.(41)

Un decennio più tardi, Alquati era del parere che “questa unificazione politica della classe operaia al livello dell’operaio sociale” – dipendesse in parte dalla presenza di una componente adeguatamente formata : “è oggi compito di un partito e questo potrà avvenire ormai solo su scala internazionale”.(42)

Per conservando tutto il suo affetto e rispetto per alcuni membri dei gruppi della nuova sinistra degli anni Settanta, tuttavia, Alquati era scettico dei modi con i quali essi tentarono di soppiantare il Pci; intervistato molti anni dopo, avrebbe sostenuto che “Nemmeno nel ’70 -’75 gli operai presero più che tanto sul serio i partitini, anche se li usarono per comunicare, coordinare, ricattare, ecc. Votarono Pci”.(43)

Con tutto ciò non è che Alquati considerasse l’impegno e l’ organizzazione dei compagni rivoluzionari come qualcosa di inutile o destinato a fallire. Tuttavia, riflettendo poi sulla questione negli anni Novanta, Alquati avrebbe detto che l’impegno a rendere le strutture interne organizzative più “orizzontali” necessitava ancora di un livello minimo di gerarchia per coordinare le attività di coloro che erano coinvolti: “come dicevano certi compagni di “Socialisme ou Barbarie”, rifiutare l’organizzazione per paura della burocrazia è come tagliarsi la testa per non avere cattivi pensieri”.(44)

Anche in questo processo, un particolare ruolo è attribuito ai militanti, “i nodi viventi della rete che costituisce e tiene insieme nella molteplicità del movimento la classe”45. E dal momento che i militanti diventano tali solo attraverso la lotta (che consente l’apprendimento), il suo riferimento è ancora una volta alla conricerca con la quale il cerchio si chiude: “L’idea stessa di conricerca nella nostra versione parte da lì. Non dagli iscritti o dalla base, ma dai militanti”.(46)

In conclusione (per ora)

Gran parte di ciò che Alquati ci ha lasciato sono tasselli di un mosaico: provvisorie e affascinanti linee di indagine sulle dinamiche della politica di classe che, essendo incomplete, attendono ancora definizioni precise. Per esempio, la sua intuizione che il valore e le informazioni possono essere in qualche modo collegate è uno degli aspetti più intriganti (ma non sviluppati) delle sue prime riflessioni sulle lotte alla Olivetti: L’informazione è l’essenziale della forza-lavoro, è ciò che l’operaio attraverso il capitale costante trasmette ai mezzi di produzione sulla base di valutazioni, misurazioni, elaborazioni per operare nell’oggetto di lavoro tutti quei mutamenti della sua forma che gli danno il valore d’uso richiesto; la “disponibilità operaia” la porta a essere un indice qualitativo del tempo di lavoro socialmente necessario, per cui il “prodotto” viene valutato come “recipiente” di una certa quantita di “informazioni.” […] Il “lavoro produttivo” si definisce nella qualità delle “informazioni” elaborate e trasmesse dall’operaio ai “mezzi di produzione”, con la mediazione del “capitale costante,” in modo tendenzialmente “indiretto”, ma completamente “socializzato”. […]

L’“informazione”, consentendo l’”automazione” come metodologia complessiva dello sfruttamento nel suo flusso regolato, quantificato e programmato chiarisce il ruolo irriducibile dell’operaio nell’accumulazione.(47)

Un altro significativo tassello da considerare riguarda lo schema temporale secondo cui a un ciclo di lotte/ristrutturazione segue un altro di scomposizione del lavoro / nuove lotte. Nel ventesimo secolo durante la fase fordista di egemonia dell’operaio massa, il potere che la forza lavoro aveva assunto le consentiva di agire più che come un semplice fattore del ciclo di produzione capitalistica. Il fatto che non fosse più così dopo gli anni Settanta costituì uno dei principali elementi di crisi del paradigma operaista e certamente indusse la maggior parte dei suoi ex esponenti ad abbandonare completamente l’analisi della composizione di classe. Questo schema temporale può dirsi superato per sempre? Forse come Alquati rimuginava a metà anni Novanta, il salario potrebbe tornare a diventare “la variabile strategica… malgrado l’uscita dal fordismo. Ma certo oggi non è variabile indipendente; al contrario è tornato ad esserlo il profitto”(48)

Questo problema, posto da Alquati quasi un quarto di secolo fa, resta ancora senza risposta e la nostra capacità di affrontarlo efficacemente contribuirà in gran parte a definire la rilevanza o meno in futuro dell’analisi della composizione di classe. In tale prospettiva deve essere ripensato il rapporto tra lavoro astratto e lavoro concreto e come questo muta nel tempo attraverso la spinta del conflitto sociale. Alla fine degli anni Settanta, pochi mesi prima del suo arresto, Toni Negri(49) aveva affermato che “la tesi fondamentale, su cui si costruisce la teoria dell’operaismo, è, se si vuole, proprio quella di un’astrazione successiva del lavoro che corre in parallelo alla sua socializzazione”. Dato che oggi anche questa assunzione di principio sembra discutibile, può valere la pena di riconsiderare l’idea di Alquati – basata sulla sua interpretazione della risposta del nemico di classe alle lotte dell’operaio massa in Piemonte negli anni Sessanta – che al contrario sembrava che “talora [il capitale ] volere fare una sua utilizzazione dello scioglimento del legame storico tra il processo secolare di semplificazione e quello di astrattizzazione della capacità lavorativa”.(50)

Infine, arriviamo a richiamare una delle categorie più complesse elaborate da Alquati; una nozione che conserva notevole rilevanza nell’ attuale fase di rinnovata automazione, quella che egli definì la “terziarizzazione del lavoro”, l’altra faccia della macchinizzazione: Assumo qui, come “terziarizzazione del lavoro”, il processo di evoluzione – assolutamente specifico – di quella parte del lavoro vivo che (in seguito a quell’altro processo parallelo e complementare della macchinizzazione dell’altra parte del lavoro, quella anche invece diviene “lavoro morto” oggettivato nel “macchinario”) non viene trasmesso alla macchina, non viene meccanizzato e cibernizzato neppure ai più alti livelli attualmente raggiunti dal progresso tecnologico; ma anzi: cresce socializzandosi proprio con l’estensione del “macchinario”, passando a sempre nuove, più produttive, funzioni (produttive di plusvalore). Allora: la “terziarizzazione del lavoro” lunghi dal significare da un lato la semplice “proletarizzazione” di impiegati di ceti medi, e dall’altro soprattutto la fine della classe operaia, ne è invece (in senso marxiano) proprio la sua più piena realizzazione: la trasformazione della forza-lavoro che consente la realizzazione della specificità più piena della classe operaia; la realizzazione della forza lavoro nella sua peculiarità esclusiva di unica merce valorizzante, alla quale soltanto tutte le altre forze produttive del capitale (dalla società, al macchinario, alla scienza…) devono unirsi per produrre il plusvalore, per accumulare il capitale, per accrescere il potere della classe capitalistica. (51)

In una fase in cui il capitale cerca non solo di sostituire i lavoratori con la tecnologia, ma di progettare macchinari in grado di emulare il lavoro, è facile dimenticare che la ricerca del capitale di rompere completamente la propria dipendenza dal potere del lavoro è comunque inutile. Se il limite tra “ciò che le macchine possono fare” e “ciò che i lavoratori possono fare” è in ridefinizione continua, Alquati ricorda comunque l’importanza strategica di fare i conti con questa “altra faccia della macchinizzazione” e le possibilità latenti in ciò in termini di “crescita qualitativa del potenziale di quel [lavoro] vivo, della sua intensificazione e potenziamento”.(52)

Una volta, in una discussione con gli amici, Alquati lamentò che: Nella mia vita io sono sempre finito male perché sono sempre arrivato prima, ho sempre anticipato troppo e questa previsione non mi ha mai giovato, perché poi davo semplicemente idee agli altri che le mettevano in pratica nel momento giusto, loro vincevano e io venivo eliminato.(53)

Eppure c’è almeno una delle sue tante immaginazioni che appartengono agli anni Settanta – e potrebbe essere la più importante – che continua a perseguitare il presente, quella di “un’eventuale nuova ricomposizione dell’unificazione politica [come] una minaccia al sistema capitalistico come tale rispetto alla quale il ’69 dell’operazione massa può apparire come una piccola cosa”. Quale modo migliore quindi per onorare il cinquantesimo anniversario dell’autunno operaio che cercare, nell’incontro tra l’opera di Alquati e “una discesa sul campo”, gli appigli che potrebbero aiutare a rendere tale sogno una realtà?


*Steve Wright insegna presso la Faculty of Information technology della Monash University. Si occupa di analisi delle politiche di comunicazione, il suo attuale lavoro di ricerca si incentra sulla ricostruzione dei fenomeni di creazione e uso di documenti cartacei da parte degli operaisti italiani durante gli anni Sessanta e Settanta. È l’autore di Storming Heaven: Class Composition and Struggle in Italian Autonomist Marxism (Pluto Press, seconda edizione, 2017; trad. it. L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Alegre, 2008).

Note

  1. In Giuseppe Trotta e Fabio Milana (a cura di), L’Operaismo degli anni sessanta. Da“Quaderni rossi” a “classe operaia“, DeriveApprodi, Roma 2008, p. 600
  2. Jamie Woodcock, Working the Phones. Control and Resistance in CallCentres, Pluto, london 2016
  3. Michele Mezza, Avevamo la luna. L’Italia del miracolo sfiorato, vista cinquant’anni dopo, Donzelli, Roma 2013
  4. Michele Mezza, Avevamo la luna. L’italia del miracolo sfiorato, vista cinquant’annidopo, Donzelli, Roma 2013, p. 128
  5. Romano Alquati, Sulla FIAT e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1975, p. 9
  6. Alquati dice in modo inimitabile: “il movimento che cambia tendenzialmente quasi tutto dello stato di cose esistente, in circolarità fra il basso e l’alto ed il più alto” (Romano Alquati, Camminando per realizzare un sogno comune, Velleità Alternative, Torino 1994, p. 27 [grassetto sottolineato nell’originale, N.d.R.])
  7. Romano Alquati, Sul secondo operaismo politico,senza data, p.1
  8. Alquati, Camminando per realizzare un sogno comune, cit., p. 2
  9. “ho pubblicato in piccoli circuiti quasi tutto quello che andavo scrivendo, o meglio dicendo” (ivi, p. 207)
  10. Alquati, Camminando per realizzare un sogno comune, cit., p. 4
  11. “A parte poi l’astruseria gratuita, roba insopportabile, io ho preso in mano Millepiani venticinque volte e non sono mai riuscito ad andare oltre la metà perché morivo di noia” (Romano Alquati, Chiacchierata con Romano Alquati – 14 agosto 2001, 2001, p. 2). Fortunatamente per noi, in Millepiani la definizione di “macchinette” appare in quella prima parte del libro, che Alquati aveva già letto ripetutamente
  12. Romano Alquati, Per fare conricerca, Calusca edizioni, Padova 1993, p. 59
  13. Daniele Balicco, Non parlo a tutti. Franco Fortini intellettuale politico, manifestolibri, Roma 2006
  14. Alquati, Camminando per realizzare un sogno comune, cit., p. 4
  15. Romano Alquati, Sulla FIAT e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1975
  16. Alquati, Camminando per realizzare un sogno comune, cit., p.27
  17. Romano Alquati, ‘Recensione di Comunismo e Cattolicesimo in una parrocchia di Campagna, Feltrinelli, Milano, di liliano Faenza, in “Presenza” 3, 4, gennaio marzo 1960, in Trotta e Milana (a cura di), L’Operaismo degli anni sessanta, cit.
  18. Romano Alquati, Università, formazione della forza lavoro intellettuale, terziarizzazione, in Studenti e composizione di classe, a cura di Roberta Tomassini, edizioni aut aut, Milano 1977, p. 13
  19. “Mai separare ricerca e formazione!” (Alquati, Per fare conricerca, cit., p. 78)
  20. Alquati, Sul secondo operaismo politico, cit., p.33
  21. Curioso che Alquati attribuisse questa visione più a lenin che a Marx. Cfr. Alquati, Camminando per realizzare un sogno comune, cit., p. 127
  22. Alquati, Università, formazione della forza lavoro intellettuale, terziarizzazione, cit., p. 14
  23. Alquati, Camminando per realizzare un sogno comune, cit., p. 101
  24. Romano Alquati, Per fare conricerca, cit., p. 119
  25. Alquati, Sul secondo operaismo politico, cit., p. 6
  26. Sergio Bologna, Operaismo e composizione di classe, in Gigi Roggero e Adelino Zanini (a cura di), Genealogie del futuro. Sette lezioni per sovvertire il presente, ombre corte, Verona, 2013, p. 115
  27. A questo proposito, Gigi Roggero osserva che la composizione di classe è “un problema che contiene tutti gli altri” – nonostante ciò sia giusto, la questione della riproduzione sociale necessita di essere analizzata più approfonditamente di quanto venne fatto a suo tempo dall’operaismo. Cfr. Gigi Roggero, Elogio della militanza. Note su soggetività e com posizione di classe, DeriveApprodi, Roma, 2016, p.9
  28. Sergio Bologna, Composizione di classe e teoria del partito alle origini del movimento consiliare, in Aa.Vv., Operai e stato. Lotte operaie e riforma dello Stato capitalistico tra rivoluzione d’Ottobre e New Deal, Feltrinelli, Milano1972
  29. Bologna, Operaismo e composizione di classe, ibidem, p.116
  30. Alquati, Sulla FIAT e altri scritti, cit., p. 220
  31. Romano Alquati, Sacre icone, Calusca edizioni, Padova 1993,p.44
  32. 32 Ivi, p.48
  33. Romano Alquati, Storiografia e movimento del ‘77. Intervista di Luca Perrone, Torino, 1991, senza pagina
  34. Anonimo, Sintesi della chiacchierata del 25 settembre 2001, 2001, p.1
  35. Alquati, Università, formazione della forza lavoro intellettuale, terziarizzazione, cit., pp. 65-66
  36. Alquati, Camminando per realizzare un sogno comune, cit., p. 31
  37. Intervista a Romano Alquati in Guido Borio, Francesca Pozzi e GigiRoggero, Glioperaisti, DeriveApprodi, Roma 2005, p.46
  38. Danilo Montaldi, Militanti politici di base, Einaudi, Torino 1971, p. 393
  39. Alquati, Sulla FIAT e altri scritti, cit., p.83
  40. Ivi, p. 226
  41. espresso con le parole di Franco Milanesi: “la pratica militante cessa là dove inizia il potere […]. Il militante può stare in un partito, ne fa strumento di forza e di trasformazione. Ma il partito fattosi Stato non è il suo luogo” (Franco Milanesi, Militanti. Un’antropologia politica del novecento, edizioni Punti Rossi, Milano 2010, pp. 81-82).
  42. Alquati, Università, formazione della forza lavoro intellettuale, terziarizzazione, cit., p.34
  43. Alquati, Sul secondo operaismo politico, cit., p. 10
  44. Alquati, Camminando per realizzare un sogno comune, cit., p. 59
  45. Ivi, p. 193
  46. Ivi, p.192, confronta con Alquati, Sul secondo operaismo politico, cit., p.33
  47. Romano Alquati, Sulla FIAT ealtri scritti, cit, p. 115, 116. Alcune preliminari riflessioni su questo punto si possono ritrovare in emiliana Armano, Devi Sacchetto e Steve Wright, Coresearch and Counter–Research: Romano Alquati’s Itinerary Within and Beyond Italian Radical Political Thought, Viewpoint Magazine 5, https://viewpointmag.com/2013/09/27/ coresearch–and–counter–research–romano–alquatis–itinerary–within–and–beyond–ita- lian–radical–political–thought/, 2013. Più argomentate osservazioni che vanno in un’altra direzione di analisi possono essere ricavate dalla lettura di Matteo Pasquinelli, Capitalismo macchinico e plusvalore di rete: note sull’economia politica della macchina di Turing, http://www.uninomade.org/capitalismo–macchinico/, 2011
  48. Alquati,Camminando per realizzare un sogno comune, ibidem, p.139
  49. Toni Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, Multhipla edizioni, Milano 1979, p.11
  50. Alquati, Università, formazione della forza lavoro intellettuale, terziarizzazione, cit., p. 32
  51. Alcune importanti riflessioni su questo punto possono esserere ritrovate in MariaGrazia Meriggi, Le classi sociali nello sviluppo e nella crisi capitalistica. Terziarizzazione e ricomposizione di classe. Una proposta di discussione, in Id., Composizione di classe e teoria del partito, Dedalo, Bari1978
  52. Romano Alquati, Terziario terziarizzazione sindacato, Foglio di zona 1-2, maggio-giugno, 1975, p. 6
  53. Romano Alquati, Seminario sull’intervista di Guido – 4 gennaio 2002, 2002, p. 16