La storia non è acqua. Il 9 novembre del 1989 cadeva il muro di Berlino e trascinava con sé una delle due facce della medaglia. La faccia erosa dall’uso era quella del socialismo reale che si era trasformato lentamente in una copia burocratizzata del capitalismo occidentale, agita centralmente da un partito fattosi Stato che poco aveva lasciato alle suggestioni di autogoverno dei popoli contenute nello slogan rivoluzionario: “Tutto il potere ai Soviet”. Certo, con il senno del poi tutto è più semplice, anche le analisi storiche, ma c’è la necessità di recuperare tutta la complessità di quel periodo, nella sua densità, nelle difficoltà delle guerre interne ed esterne, in particolare l’esperimento socialista condensato in un unico territorio, con la borghesia internazionale che fungeva da “genio guastatori” nel resto del mondo. Non si vuole criticare il socialismo reale, ma proporre un’analisi della sua fine e delle sue ripercussioni fino a oggi. Di fatto, l’esperimento “comunista” è imploso, lasciando tra le macerie un sentimento da “fine della storia”. Non era possibile, al tempo della guerra fredda, e non è più possibile oggi, parlare di comunismo, non c’è alcuna alternativa al sistema dato e, per quanto imperfetto, il mantra che ci siamo costruiti è che questo abbiamo e questo dobbiamo, nostro malgrado, tenerci.
PRIMA CONSEGUENZA
Se il modello capitalista è l’unico possibile, allora c’è una sola possibilità, quella di renderlo “più umano” riformandolo laddove necessario, ma nulla di più. Persino i partiti che continueranno, con una certa mal dissimulata vergogna, la storia delle grandi organizzazioni socialcomuniste, cambieranno nome più volte, (facendo progressivamente scomparire termini incresciosi – la C di comunista – e simboli oramai impresentabili – la falce e il martello – scimmiottando il Democratic Party a stelle e strisce) e si uniformeranno alla litania collettiva, ponendo il libero mercato come unico campo d’azione possibile, magari da “imbrigliare” con molta cautela attraverso qualche espediente legislativo. Persino la Cina “comunista” nel 2001 entrerà nel WTO, dando l’avvio a un capitalismo statale ibridato e autoritario che surclasserà lo storico modello Occidentale-statunitense.
Nessuna possibilità di critica allora. La politica, una volta venute meno le ideologie massimaliste e l’equilibrio mondiale dei grandi blocchi, si è trasformata in vassallo della tecnica finanziaria e della schizofrenica volontà dei mercati. Non c’è nulla da rivoluzionare, c’è solo la necessità di gestire il flusso della storia attraverso le ricette globali del neoliberismo che ha provato, almeno in Europa, a coniugare la libertà speculativa dei mercati con la garanzia dei capitali investiti e con gli strumenti dell’austerity come il pareggio di bilancio. Tutto è aziendalizzato. Tutto schematizzato in un’immensa “partita doppia” di dare e avere. I conti devono tornare! Così dal bilancio europeo a quello nazionale, dai conti della Regione a quelli degli enti locali, dalle Università agli Ospedali, tutto è gestito secondo i criteri di efficienza, efficacia ed economicità, maldestramente celati dietro parole altisonanti come “sostenibilità” e “competitività”. Nell’Azienda Totale, dove si applicano le cure della libera impresa nel libero mercato, tutto è numero. Il Bilancio sanitario è in rosso? Chiudiamo qualche Ospedale, accorpiamo qualche reparto. Qualcuno morirà? È nella natura delle cose! Il Bilancio dei Comuni è in rosso? Decretiamo il dissesto, commissariamo, tagliamo i servizi pubblici, blocchiamo il turnover. Spesso però non ci si chiede il motivo per cui l’ente va in perdita o i bilanci segnano rosso fisso. La risposta diffusa rimanda a ruberie e corruzione – il che spesso è verissimo -: verità incontestabile anche se, laddove la longa manus delle consorterie del malaffare non arrivano, i comuni e i servizi pubblici registrano comunque perdite e situazioni debitorie. Ciò trova una spiegazione nelle politiche neoliberiste che l’UE ha adottato e imposto agli stati membri. Alcuni addirittura in un eccesso di zelo, hanno fatto entrare lo spirito neoliberista nella propria Costituzione.
Fiscal compact, pareggio di bilancio e patto di stabilità hanno progressivamente impoverito le casse degli enti pubblici e massacrato i servizi, in nome della libera concorrenza e del rinnovamento delle amministrazioni. Una macelleria sociale portata avanti dalla logica del puro tecnicismo economico-finanziario.
SECONDA CONSEGUENZA
Nel mondo normalizzato del post guerra fredda e segnato dall’idea di una postmodernità che nega la necessità di visioni utopiche, tacciate di ideologismo e annichilite da una narrazione romantica dell’agire politico, il conflitto di classe, agito da soggettività antagoniste, lascia il posto a una vertenzialità diffusa. Una pseudo-conflittualità basata su rivendicazioni spesso sterili e, anche se multiforme, priva di una reale soggettività autonoma, senza un programma e un approdo, liberamente fluttuante tra una lotta contro questo o quello, senza una visione capace di cogliere le profonde contraddizioni del sistema e collegare le varie stagioni di lotta all’interno di una visione organica. Bisogna sostenere tutti, anzi prima di tutto le aziende che dovranno tornare a produrre così da fornire nuovo lavoro. È un grosso problema ristabilire un rapporto tra operaio e capitalista se entrambi sembrano stare dalla stessa parte per resistere ai capricci dei mercati. È altrettanto difficile riconoscersi e identificarsi come soggetto sfruttato all’interno del sistema di riproduzione capitalista se passa l’esigenza di essere “imprenditori di sé stessi”, un modo molto politicamente corretto di definire la forza lavoro con partita iva trattata peggio degli operai a contratto. Siamo tutti sulla stessa barca, certo, ma c’è chi sta ai remi e chi prende il sole. Non importa se del comparto produttivo fanno parte quei soggetti che hanno continuato a guadagnare abbondantemente all’interno di ogni crisi. Non importa che alcuni spicchi di popolazione (l’1%) goda del 90% delle risorse e delle ricchezze mondiali. Siamo tutti sulla stessa barca!
I movimenti di protesta, più o meno spontanei e più o meno organizzati a tavolino (sardine e gilet arancioni appartengono al secondo gruppo) si scagliano contro l’oligarchia politica solo per rivendicare onestà e pulizia, pongono delle domande, segnalano sofferenze, quasi mai però organizzano le risposte; le aspettano invece dai governi, dalla classe dominante, da un ceto politico che, sperano, sia finalmente nuovo e rinnovato. Si tratta, quasi, di un tentativo di formare una domanda fittizia alla quale un soggetto politico possa fornire una risposta. La protesta non diventa altro-da-sé, non si trasforma in critica immanente dell’economia politica, in quanto ha perso la capacità d’individuare il luogo delle contraddizioni, di stare dentro le ambivalenze del capitale per costruire rapporti di forza capaci di rompere lo schema produttivo e riproduttivo del capitalismo. Così ad esempio accade per i movimenti di lotta su specifiche questioni, come ad esempio le crisi aziendali, la precarizzazione del lavoro, le riforme di settore; oppure su temi più generali, come la difesa dell’ambiente, l’antirazzismo o le questioni di genere. Queste forme di movimento possono prodursi più o meno spontaneamente, intercettando una parte di settori popolari sulla base di una protesta che riguarda un tema specifico[1]. Uno dei più recenti esempi è stato quello del movimento dei gilet gialli in Francia o l’attuale sommossa antirazzista negli States. Anche il “movimento” italiano, in preda a una crisi depressiva acuta, si muove sul terreno delle piccole vertenzialità e sul gioco di un’effimera lotta all’egemonia tra aree politiche, riesumando esperienze e pratiche dal passato e incapaci di esplorare appieno le contraddizioni del moderno proletariato, nonché di individuare le nuove possibili linee di tendenza del modo di produzione capitalistico.
Dall’altra parte, c’è una fetta di società che vede, ancora oggi, nel gioco elettorale una possibilità trasformativa, nonostante le prove evidenzino il contrario.
Queste visioni di cambiamento si fermano alla superficie, rivendicando semplicemente efficienza amministrativa, amministratori non corrotti e politici meno attaccati alla propria poltrona. Il tacito assenso al sistema esistente appare chiaro e francamente disarmante. Il proliferare di liste “pulite” e “oneste” a livello locale o di un MoVimento dalle “mani pulite” a livello nazionale, è emblematico di un modus operandi, quello degli outsider, che, con appositi eventi mediatici (i vaffa-day), danno il benservito ai vecchi burocrati.
Tutto questo ha preso il posto dei vecchi e tradizionali partiti. È nata così la stagione delle liste civiche o dei “movimenti” che promettono di governare meglio e a favore delle esigenze dei più. Nessuna critica sistemica, nessuna nuova idea sociale (è sufficiente che si proclami “né di destra, né di sinistra”), nulla da rivoluzionare.
TERZA CONSEGUENZA
Anche a livello locale, molti movimenti, alcuni radicati altri meno, imboccano la via elettorale soprattutto perché vedono esaurirsi un ciclo di lotte durato decenni che non è riuscito a esprimersi con soggettività ampie e radicate. Si sono quindi fatte strada alcune pratiche di ripiego: “visto che il potere è sordo, prendiamo noi il potere”, “invece di mediare con i corrotti, andiamo direttamente noi al potere”. Un surrogato di contropotere che è figlio della frustrazione e non dell’eccedenza. Una rinuncia de facto al cambiamento di paradigma attraverso le forzature conflittuali: rinuncia giunta dopo la reiterazione di pratiche errate: grandi assembramenti per mostrare i muscoli all’interno del movimento antagonista in una smania egemonica da cani randagi e grandi cortei variopinti che hanno portato in piazza tutto e il contrario di tutto, in una moltitudine destrutturata che somiglia sempre più a una sommatoria di vertenze. Di stagione in stagione, tra autunni sempre più tiepidi e minestre riscaldate, la frustrazione ha insidiato le analisi fino al collasso finale e alla fuga verso le urne. Il tutto nella medesima triste convinzione che basti cambiare il pilota per far funzionare al meglio la macchina e indirizzarla verso i lidi sperati, senza approfondire il discorso sui meccanismi e le regole interne che costringono la macchina sugli stessi binari, a prescindere dal macchinista. Si apre la stagione delle “giunte di movimento” che spesso cedono sotto il peso di comuni che versano in uno stato comatoso e in dissesto o stritolati dalle gabbie neoliberiste del pareggio di bilancio.
In Calabria, c’è l’esempio, per molti aspetti significativo, del cosiddetto modello Riace. Tre mandati, quindi molti anni di governo spesi nel tentativo di lasciare un segno alternativo su alcuni aspetti cruciali: dai migranti al servizio idrico, dai rifiuti all’utilizzo della moneta locale, tutti tentativi che sembrano non aver lasciato traccia nella popolazione locale (o nella maggior parte di essa) che ha voltato le spalle a Mimmo Lucano e, nelle ultime elezioni, accordando totale fiducia allo schieramento antagonista innestato alla Lega di Salvini. Il risultato ha fatto scalpore anche a livello nazionale facendo ripiombare la cittadina reggina nell’anonimato amministrativo dei comuni vicini. Cosa non avrà funzionato? Perché Riace è stato un modello per tanta parte della cosiddetta sinistra italiana e internazionale, ma non lo è stato per i suoi cittadini che con tanta facilità hanno cambiato casacca? Forse che la narrazione della realtà ha esautorato la realtà stessa? Forse che l’immaginario paese felice dell’integrazione era più nei racconti che nella quotidiana realtà di paese? Forse perché è proprio il concetto di “integrazione” che andrebbe messo in discussione? Il virtuosismo sociale e l’autosostenibilità del “progetto Riace” nella realtà non sono mai esistiti ed è bastato chiudere i rubinetti dei finanziamenti per avere un voltafaccia dei cittadini riacesi. Anche volendo individuare, invece, un esempio più distante, passando dalla Magna Grecia alla madre patria, possiamo constatare come in Grecia, Tsipras, pur disponendo di pieni poteri, non è riuscito ad avviare politica riformatrice e a invertire la rotta rispetto ai governi precedenti.
Non basta la conquista del potere, la vittoria delle elezioni, se non c’è una reale soggettività autenticamente autonoma capace di sovvertire il presente. Si ricordi che le più grandi conquiste del movimento operaio italiano nella seconda metà del Novecento arrivarono senza un partito di riferimento al governo del paese.
FINALE CON BRIO
Se questi assunti sono veri, sarebbe allora opportuno ricalibrare il lavoro, elaborare finalmente la sconfitta storica, guardare in faccia la realtà e provare a osare tornando a pronunciare parole impronunciabili: quelle che alludono alla necessità di una rottura radicale rispetto al sistema capitalistico e non soltanto a una sua riformabilità.
Oggi più che mai, dopo mesi di chiusura a causa di un virus generato da un sistema predatorio, con il dramma dei cambiamenti climatici, con la consapevolezza dell’iniqua distribuzione delle ricchezze, abbiamo la certezza che il capitalismo ha fallito su tutti i fronti. Non è stato in grado di produrre quel paradiso in terra che aveva promesso. Se così è, allora, possiamo guardare dall’altra parte del muro di Berlino con meno timore. Il fallimento del socialismo reale ha cancellato una delle due facce della medaglia. Oggi anche l’altra faccia risulta consumata e non più spendibile. A noi il coraggio di gridarlo, di denunciarlo, di lottare per riuscire a fondere quella moneta non più utilizzabile e coniarne un’altra totalmente inedita, spendibile, capace di riaccendere le passioni dei popoli!
Non possiamo arrampicarci più su quel muro guardando dall’est all’ovest dalla prospettiva degli sconfitti. Non ci siamo accorti che la visuale è cambiata perché il muro non c’è più, è stato abbattuto, e l’est è diventato come l’ovest e oggi non incanta più nessuno!
Redazione Di Malanova
[1] per un approfondimento suggeriamo la lettura di https://commonware.org/formazione/avanguardie