di Maurilio PIRONE*
Pubblichiamo questo interessante intervento apparso su Into the black box nel quale vengono poste una serie di domande da esplorare in questa fase. In tempi di pandemia e quarantena, cosa ne è del pensiero critico inteso come pensiero del movimento che trasforma lo stato di cose presenti? Quale politica possiamo immaginare? Dobbiamo rassegnarci al governo degli uomini forti per far fronte all’emergenza? O dobbiamo cedere alla cruda visione di un mondo per pochi, con meno diritti e più controllo sociale? Ci sono altri scenari da esplorare?
Lo stato di salute del neoliberismo
Oggi la pandemia ci pone indubbiamente davanti a una sfida globale e totale che implica scelte politiche (Come decidere in uno stato di emergenza?), economiche (Quali politiche economiche adottare e come finanziarle?) e sociali (Come vogliamo vivere ai tempi della pandemia?). Senza cadere nella teleologia dell’evento (“nulla sarà più come prima”) o nella nostalgia del passato (“dobbiamo tornare al più presto alla normalità”) queste scelte, ovviamente, contribuiranno a definire nuovi equilibri e gerarchie così come ad accelerare alcune trasformazioni e conflitti. In che modo però è ancora difficile dirlo.
Il carattere apocalittico della pandemia non sta nella fine di qualcosa (la specie umana? Il capitalismo? Il neoliberismo?) quanto nella capacità di rivelare caratteristiche e contraddizioni del mondo in cui viviamo: dal ruolo pervasivo delle tecnologie digitali alla centralità dei flussi, dagli effetti socialmente devastanti delle politiche di tagli e austerità alla frammentazione del progetto della globalizzazione.
Potremmo parlare di una crisi globale, se non fosse che il termine ‘crisi’ presuppone uno stato di eccezionalità mentre quello che oggi sembra essere inconsueto è proprio un certo grado di stabilità.
Senza fare confusione tra eventi profondamente differenti fra di loro per origine ed esiti, ad un rapido sguardo al nostro passato prossimo risulta evidente come viviamo in tempi di radicali sollecitazioni nei confronti di quelli che consideriamo i principi mainstream dell’economia, le nostre abitudini sociali, le forme della partecipazione politica.
Anno 2008: una crisi di natura finanziaria originatasi attorno al mercato immobiliare e ai subprime investe l’economia reale, in particolare in USA ed Europa. L’uscita dalla crisi passa attraverso le stesse ricette neoliberali che l’hanno originata, diventando uno strumento per l’imposizione di riforme del mercato del lavoro e del welfare; in certi casi un rigido programma di austerità viene imposto ad alcuni paesi come la Grecia che sono considerati inaffidabili o inadempienti. Il terreno della riproduzione sociale subisce una nuova ondata di processi di accumulazione tramite privatizzazioni e liberalizzazioni.
Anno 2015: una crisi politica colpisce l’Unione Europea di fronte alla gestione dei flussi migratori (da est a ovest, da sud a nord) causati dalle grandi disuguaglianze economiche e dallo stato di guerra permanente di alcune aree del globo. I paesi della Unione non trovano una linea comune per la gestione del fenomeno e in nome di una pretesa ragione umanitaria si realizza un inasprimento del regime necropolitico dei confini.
La riproduzione sociale si rivela pienamente come terreno di competizione non solo di classe ma anche di razza.
Anno 2020: una pandemia causata da un virus originatosi in Cina e propagatosi rapidamente lungo rotte commerciali globali mette a dura prova la tenuta dei servizi sanitari di tutti i paesi del mondo.
L’impatto del virus e le relative misure di gestione dell’emergenza sanitaria preannunciano una recessione dell’economia reale di larga portata e trasformazioni radicali dei nostri stili di vita. “Salus populi suprema lex esto” sembra essere il principio attorno al quale si ridefinisce il perimetro degli spazi sociali e politici, mentre la riproduzione sociale diviene posta in palio della lotta alla pendemia.
Una cosa è certa: la pandemia, così come la recessione del 2008 o le migrazioni del 2015, non si sviluppa in un contesto neutro ma entro precise coordinate storico-sociali che danno forma tanto al fenomeno quanto alle sue conseguenze.
Come già successo in precedenza, il neoliberismo viene chiamato in causa in quanto progetto totale (non solo economico, ma anche politico, culturale e sociale) egemone nella costruzione di quelle coordinate storico-sociali.
In queste settimane, infatti, è emersa in primis la difficoltà di pensare un evento come la pandemia da parte della classe dirigente che ha dapprima minimizzato la situazione per non disturbare il business as usual e poi rincorso la diffusione de virus per evitare una catastrofe umanitaria. Le lacune dei diversi sistemi sanitari sono venute fuori – soprattutto considerando i consistenti tagli alla spesa pubblica che ci sono stati negli anni – così come è palese la resistenza opposta da alcune frazioni di capitale alla chiusura delle attività produttive pur conoscendo la gravità della situazione e la necessità di frenare la diffusione del contagio. Inoltre, anche se restano da dimostrare, si iniziano a fare ipotesi sulla genesi e diffusione dei virus a partire da fenomeni strutturali quali l’urbanizzazione planetaria, la distruzione di eco-sistemi naturali, la diffusione di un modello intensivo di agro-industria.
Se la tenuta del progetto neoliberale sembra vacillare davanti alla difficoltà di mantenere in piedi un sistema economico totalmente basato sulle catene globali del valore e la loro interconnessione just-in-time e to-the-point nel momento in cui gli Stati hanno messo in campo provvedimenti di compressione delle libertà per la tutela della salute pubblica (che ricordiamoci essere uno degli obiettivi fondanti della macchina statuale), l’Unione Europea e l’egemonia globale americana – costruiti entrambi su diverse gradazioni di questo progetto neoliberale – non potranno che scontare a loro volta le medesime difficoltà. L’Europa palesa per l’ennesima volta la sua intrinseca incapacità di elaborare politiche comuni, gli Stati Uniti invece abdicano al ruolo di leader globali nella gestione dell’emergenza.
Questo non vuol dire che stiamo assistendo alla fine del progetto neoliberale o addirittura del capitalismo. Piuttosto sembra essersi aperta davanti a noi una fase estremamente incerta i cui esiti sono tutt’altro che scontati. E per questo diventa importante elaborare un pensiero trasformativo del nostro presente, non solo per cogliere i nodi attorno ai quali si sta definendo lo stato di cose che stiamo vivendo ma anche per agire in esso.
In generale, due sembrano essere le tonalità emotive che ci vengono offerte – il negazionismo e l’allarmismo – che equivalgono a due posture politiche precise, la fiducia dogmatica neoliberale in un futuro radioso o la cruda accettazione di un mondo dalle scarse risorse tipica del darwinismo sociale che sottende alle nuove destre.
Negazionismo e allarmismo sono due sentimenti opposti ma accomunati dall’incapacità di pensare il presente in termini trasformativi. Mentre il neoliberismo postula la natura immutabile del libero mercato, della competizione e dell’individuo proprietario, il darwinismo sociale delle destre sovraniste e razziste spoglia questa antropologia delle promesse di prosperità futura e trasforma la competizione in una guerra civile fra identità. In entrambi i casi non c’è una messa in questione dello stato di cose presenti, ma solo un diverso modo di rapportarsi ad esso. In entrambi i casi, l’agire politico è privilegio di pochi, in un caso dei tecnici dell’economia e nell’altro dei leader populisti.
Cosa ne è invece del pensiero critico inteso come pensiero del movimento che trasforma lo stato di cose presenti? Quale politica possiamo immaginare al tempo della pandemia? Dobbiamo rassegnarci ad accettare nuovi tagli al welfare e riforme del mercato del lavoro con la promessa che una volta ripagati i debiti ci sarà ricchezza a pioggia per tutti? O dobbiamo cedere alla cruda visione di un mondo per pochi, del mors tua, vita mea con meno diritti e più controllo sociale? Oppure ci sono altri scenari da immaginare ed esplorare?
“Salus populi suprema lex esto”
Inserire l’emergenza attuale all’interno di uno specifico contesto vuol dire, innanzitutto, riflettere su alcuni processi strutturali di lungo corso e sul come entrino in gioco nella definizione della situazione presente.
La pandemia, le misure di contrasto del contagio per la tutela della salute, il loro impatto sull’economia e la società: in tutti questi casi le coppie vita/morte, salute/lavoro, riproduzione/produzione diventano gli assi attorno ai quali si riformula il discorso politico.
Ma come collocare queste categorie all’interno del progetto neoliberale che tutte e tutti noi abitiamo? Guardare al passato prossimo del nostro presente vuol dire, allo stesso tempo, interrogarsi su quali direzioni possano prendere gli eventi che stiamo vivendo, vuol dire immaginare quali tendenze possano subire un’accelerazione e quali invece una battuta d’arresto, vuol dire identificare quale sia il terreno di scontro e quali i soggetti in campo.
Vorrei formulare quattro ipotesi a riguardo.
Prima ipotesi: la pandemia ha portato in primo piano la centralità assunta dalla riproduzione sociale nelle dinamiche di valorizzazione capitalista.
L’emergenza sanitaria ha indubbiamente messo in luce le limitate capacità dei servizi sanitari nazionali, così come ha fatto del tema della salute una questione di dibattito pubblico. La centralità assunta da concetti quali salute, welfare, malattia va però radicata all’interno di alcuni processi di lungo corso. Negli ultimi anni, tanto il movimento trans-femminista Non Una di Meno quanto quello ambientalista Fridays for Future avevano già posto l’accento sulla centralità della riproduzione sociale come campo di scontro con le politiche estrattiviste e patriarcali di stampo neoliberale.
Fare riferimento alla riproduzione sociale vuol dire richiamare indirettamente anche il modo di produzione capitalistico; il confine fra i due ambiti è mobile, la perimetrazione di uno influisce sulla definizione dell’altro. Produzione e riproduzione costituiscono due dinamiche distinte ma interdipendenti che nella storia delle società capitalistiche si sono articolate in forme, spazi e soggettività variabili. Semplificando, la divisione sessuale del lavoro (uomini/produzione, donne/riproduzione) alla base della famiglia come unità fondamentale della società fordista ha lasciato sempre più spazio a una commercializzazione della sfera della riproduzione divenuta così campo di valorizzazione.
I processi di accumulazione che hanno investito la sfera riproduttiva non necessariamente hanno garantito un accesso universale alle forme della riproduzione, anzi. Un esempio può essere la generale diminuzione dei posti letto nelle strutture sanitarie pubbliche a fronte di un aumento degli investimenti privati nel campo sanitario. Ma la commercializzazione della sfera riproduttiva va ben al di là delle misure di welfare pubblico e investe, ad esempio, tutte le trasformazioni occorse al lavoro di cura negli ultimi anni.
Pensiamo al ruolo sempre più ampio assunto dalle piattaforme nel fornire servizi che in altri momenti erano demandati alla divisione sessuale del lavoro.
La riproduzione sociale non è più (se mai lo è stata) una dinamica secondaria e sussidiaria rispetto ai processi produttivi ma terreno centrale nei processi di valorizzazione capitalistica.
Seconda ipotesi: il rapporto produzione/riproduzione non è riassumibile all’interno di una relazione di valore ma oggi assume la forma del cortocircuito fra dinamiche produttive e tutela della salute.
Siamo abituati a pensare al capitale come costante trasformazione dei rapporti di produzione e delle forze produttive. Questa trasformazione passa attraverso processi di accumulazione originaria che rompono il confine tra il dentro e il fuori dai circuiti di valorizzazione e momenti di crisi che mettono in questione lo stato di cose presente. In entrambi i casi prende forma quella che Schumpeter chiamava la distruzione creatrice, un processo di negazione che successivamente innesca una trasformazione che spinge il capitale un passo più in là. Oggi registriamo un cortocircuito fra produzione e riproduzione – modo di produzione di stampo capitalistico e riproduzione sociale – che ne mette in questione i rispettivi confini. Detto altrimenti, la disgiunzione fra riproduzione e produzione, tutela della salute e circuiti produttivi ci mostra come la riproduzione sociale vada pensata in maniera più ampia della sua inclusione all’interno di dinamiche produttive. Il terreno della riproduzione sociale (come fenomeno che include la vita della specie tanto quanto l’ecologia del pianeta) si dimostra come irriducibile alle dinamiche di valorizzazione. È significativo, ad esempio, che ci sia voluto un blocco parziale della produzione per ripulire le nostre città dall’inquinamento dell’aria.
Tuttavia, non è detto che questa rottura debba necessariamente essere assorbita all’interno di dinamiche di valorizzazione. Come il capitale prova a riorganizzarsi per espandere alcune attività produttive all’interno di un’economia di quarantena (si pensi al ruolo di infrastruttura sociale assunto sempre più da aziende come Amazon o Google) così emergono esigenze diverse da quelle della semplice valorizzazione: ad esempio, se si trovasse una cura contro il Covid, sarebbe giusto sottoporla a un brevetto proprietario o è necessario che sia dichiarata bene comune accessibile gratuitamente a tutte e tutti?
Non ci può essere pensiero critico senza un pensiero di questo cortocircuito. Pensare a partire dalla sincope, dalla rottura insanabile vuol dire anche prendere atto del fatto che non c’è nessun sol dell’avvenire ad attenderci dietro l’angolo.
Terzo: la gestione neoliberale dei processi di valorizzazione passa attraverso politiche di inclusione differenziale basati su dispositivi e strategie di contenimento, perimetrazione, separazione che possono replicarsi anche all’interno di una emergenza sanitaria.
Se il cortocircuito fra produzione e riproduzione è irreversibile perché la riproduzione è stata trasformata in campo di valorizzazione allora o l’emergenza porta con sé un ripensamento del modello produttivo o si scaricherà inevitabilmente anche sulle dinamiche di riproduzione sociale acuendo le distinzioni di classa, razza, genere. Detto altrimenti, se il capitale è un rapporto sociale fra produttori e possessori, allora una uscita capitalistica dall’emergenza richiederà inevitabilmente una ridefinizione di chi ha accesso alla ricchezza e chi no, fra chi deve ricevere sostegno e chi no, fra chi può curarsi e chi no.
Senza ipotizzare alcuna pianificazione securitaria (biopolitica) o produttiva (shock economy), è possibile che il potere economico e politico trovino modo di trasformare l’emergenza in un’opportunità, magari per imporre un maggior controllo sociale al di là della pandemia o per sviluppare ulteriormente alcune frontiere della valorizzazione capitalista. Cosa resterà dei provvedimenti adottati finora? Cosa tornerà allo stato di cose pre-pandemia e cosa no?
Il telelavoro non è di certo una novità delle ultime settimane – anzi si pone all’incrocio fra i processi di frammentazione del lavoro e l’ascesa delle tecnologie digitali – ma in questo periodo di quarantena ha subito una forte espansione a vantaggio delle grandi compagnie di servizi digitali. Stiamo andando verso una economia della reclusione (shut-in economy) basata sullo sfruttamento intensivo di una forza-lavoro logistica e sul controllo oligopolistico dei flussi?
Allo stesso tempo, si acuisce il divario fra nord e sud del mondo, fra chi può mettere in campo conoscenze, infrastrutture, fondi per affrontare l’emergenza e chi no. Questa differenza geoeconomica rischia di tradursi in un inasprimento geopolitico delle guerre commerciali, della competizione e quindi anche delle spinte sovraniste di fronte a un contesto di presunta scarsità di risorse. Siamo dunque di fronte a un ritorno dello Stato come protagonista della scena politica?
Quarta ipotesi: la riproduzione sociale è innanzitutto terreno di contesa e soggettivazione.
Sul terreno della riproduzione sociale non si giocano solo processi di valorizzazione o strategie di inclusione differenziale, ma emergono anche modi eterodossi di pensare al politico, soggetti indisponibili ad assumere ruoli subalterni, movimenti e aspirazioni contrari alle logiche neoliberiste.
All’interno della pandemia sembra emergere un’etica della fragilità, intesa non solo come presa di coscienza dei limiti dell’individuo, ma anche come necessità di una vita in comune con altri e altre (quella Gattungswesen di cui parlava Marx).
La singolarità riscopre quel tessuto comune emozionale e cognitivo senza il quale ci troviamo soli, spaesati, svuotati.
Allo stesso tempo, questa etica della fragilità apre a una politica della cura. Quest’ultima si concretizza primariamente nella richiesta di welfare, servizi sanitari, ammortizzatori sociali ma porta con sé la possibilità di una politicizzazione della riproduzione sociale come terreno di contesa per il ripensamento della società stessa nella sua totalità.
Il paradigma politico della quarantena
Se, dunque, la pandemia si presenta come momento radicalmente trasformativo e la riproduzione sociale diventa il terreno a partire dal quale pensare non solo il contesto storico-sociale in cui collocarla ma anche le condizioni per la sua trasformazione, bisogna allargare questa riflessione anche alle forme del politico e agli spazi a disposizione per agire in senso trasformativo.
Da anni assistiamo a una generale tendenza all’erosione degli spazi pubblici. Le misure di contenimento stanno probabilmente accelerando questo processo. Ma senza polis non c’è politica, senza spazi pubblici in cui costruire consenso e conflitto non c’è possibilità per una decisione collettiva. Piuttosto che la fine del liberismo come sistema economico, è la democrazia liberale come modello politico pluralistico a sembrare seriamente a rischio. Tecnopolitica, confinamento domestico, ordine del discorso della guerra: tre diversi elementi la cui rispettiva genealogia è differente ma che in questa fase cooperano nella creazione di quello che potremmo definire il paradigma politico della quarantena.
La tecno-politicizzazione non si limita allo slittamento dell’opinione pubblica negli spazi digitali, ma corrisponde a un divenire tecnica della politica e contemporaneamente ad un accentramento del potere decisionale. Detto altrimenti, la tecnopolitica non è solo l’uso propagandistico dei social media fatto da leader e partiti politici per veicolari i loro messaggi in maniera spettacolarizzata ed emozionale. È anche il venir meno della autonomia del politico mentre cresce il comando capitalista sul general intellect. La politica stessa è ormai questione di marketing e di sapere tecnico.
Il cittadino – come soggetto della modernità portatore di diritti individuali e collettivi da agire all’interno di processi decisionali democratici – è ridotto a spettatore di decisioni prese da uomini soli al comando che sanno cosa fare.
La produzione di opinione pubblica diventa parte di una gestione algoritmica della cooperazione sociale che passa da piattaforme digitali, big data e intelligenza artificiale. La capacità di contro-organizzarsi viene erosa dall’estensione degli spazi digitali e dalla difficoltà riscontrata nel muoversi autonomamente al loro interno. Questa crisi ha rafforzato ulteriormente il ruolo di tech giants come Google, Facebook e Microsoft che gestiscono le infrastrutture digitali attorno alle quali si sta riorganizzando la vita sociale.
Questa pervasività della tecnologia negli spazi politici corrisponde anche all’estensione del controllo sociale tramite dispositivi digitali. La smart city può facilmente ribaltarsi nella città della sorveglianza totale dove tutti i movimenti sono tracciati, dove nessuno può muoversi senza una preventiva autorizzazione, dove la partecipazione si restringe a un like.
La sfera domestica sembra emergere come altro polo nella ridefinizione degli spazi politici. La casa diventa oikos – luogo ibrido di produzione e riproduzione – ma anche linea di confine del distanziamento sociale tra l’io e gli altri, di ciò che è nostro e ciò che non lo è.
L’oikos non è semplicemente la casa in cui siamo costretti a lavorare e prenderci cura dei nostri cari più vicini, è la perimetrazione del soggetto nella dimensione privata, è forma politica della frammentazione produttiva contemporanea. La domesticizzazione della politica vuol dire riduzione dell’interesse collettivo a interesse privato, vuol dire frammentazione della sfera pubblica in tanti piccoli spazi personali.
Tecnopolitica e domesticizzazione sono due movimenti diversi – uno centrifugo di dispersione negli spazi digitali e uno centripeto di concentrazione negli spazi domestici – che ricollocano il cittadino all’interno del politico. La tecnopolitica aspira ad essere quella tecnica di ricostruzione di un tessuto sociale che supplisce al disfacimento dello spazio pubblico, riconnette ciò che d’altro lato l’oikos frammenta, individualizza.
Questa opera di ricostruzione tecno-politicamente mediata di un tessuto sociale frammentato negli spazi privati si appoggia oggi anche a un preciso ordine del discorso, quello della pandemia come guerra. Si tratterebbe di una guerra combattuta sul terreno della società stessa, all’interno della quale si annidano un nemico invisibile da contrastare in maniera compatta e dei fiancheggiatori da scovare, predisponendo delle misure urgenti e incontestabili da adottare e una economia di guerra da sostenere con sacrifici collettivi. Questa narrazione – ben diversa da quella dell’emergenza sanitaria che invece politicizza la questione della riproduzione sociale – non è neutra ma prepara già il terreno a future misure economiche che si scaricheranno su una parte della popolazione e allo stesso tempo contribuisce a una neutralizzazione dello spazio pubblico.
Nelle sue opere storiche Marx ha messo in luce come non esista solo la lotta di classe ma anche una lotta alla lotta di classe. Detto altrimenti, la società è sempre stata luogo di interazione fra conflitto e convivenza, differenza e unità. Il punto è come si identificano le linee di frattura e quelle di congiunzione di una comunità, ad esempio in termini identitari o di classe. La retorica della guerra oggi contribuisce a nascondere le contraddizioni sociali all’interno delle quali viviamo mentre annuncia già una comunità immaginaria da difendere affinché tutto torni come era prima. La costruzione di una immunitas contro il contagio rischia di ribaltarsi in una immunizzazione dalla politica come spazio trasformativo mentre la definizione di una communitas in guerra oscura una visione della riproduzione sociale come terreno di lotta.
Esiste uno spazio politico al di là della verticalità della tecnopolitica e del confinamento nel privato? E se non esiste come crearlo dentro e contro gli spazi digitali e quelli domestici? Sono domande aperte che nei prossimi mesi saranno indubbiamente oggetto di ricerca e sperimentazione politica.
L’etica della fragilità e la politica della cura che stanno prendendo forma all’interno di questa emergenza sanitaria costituiscono le premesse di un programma che deve costruire i suoi spazi e una sua narrazione.
Questo processo, una volta superata la fase emergenziale, non potrà che passare anche attraverso momenti di rottura – come forse ci hanno già mostrato la radicali e diffuse rivolte dei detenuti o gli scioperi dei lavoratori della logistica – contro le gerarchie della tecno-politicizzazione e il confinamento domestico che devono far emergere quel cortocircuito fra produzione capitalistica e riproduzione sociale a partire dal quale costruire una comunità di lotta.
*INTO THE BLACK BOX | 23.04.2020