In questi giorni di dibattito sulla fase 2, in molti si chiedono chi potrà riaprire e come. Ma è una domanda che resta sospesa, un interrogativo inevaso; chi non riaprirà? Non è un toto scommessa ma in molti casi è un semplice calcolo aritmetico. Non siamo piombati nell’emergenza coronavirus provenendo da un periodo di vacche grasse, ma arriviamo da una fase di stagnazione o, per meglio dire, di recessione tecnica, il che non vuol dire che fosse una recessione più blanda o un’ipotesi accademica ma solo che “l’analisi è provvisoria e nulla permette ancora di stabilire – in un senso o nell’altro – la sua gravità, le sue implicazioni, la sua durata”.[1]
È chiaro che una batosta come quella che stiamo attraversando, abbattendosi su un sistema socio-economico già prostrato lascerà dietro di sé disoccupati e attività irrimediabilmente chiuse. Ma è tutta colpa del virus o c’è qualche altro fattore da tenere in considerazione?
Come ogni fenomeno complesso anche la recessione economica si fonda su molti fattori, certo il lockdown ha interrotto di colpo le attività, ma è stato il colpo di grazie per molte imprese; chi prima dell’emergenza Covid-19 stentava a far quadrare i conti ha dovuto gettare la spugna. Anni di politiche di austerity hanno indebolito il sistema economico, i tagli alla spesa pubblica hanno avuto un riflesso su tutte quelle attività che contavano sulle commesse del settore pubblico.
Ma l’austerity non vuol dire solo tagli, vuol dire anche innalzamento della pressione fiscale generalizzata, soprattutto sui consumi. È un circolo vizioso che ha via via rallentato tutto. Un esempio eclatante è il mercato immobiliare. Tranne alcune zone specifiche, le aree metropolitane maggiori (Milano, Roma Firenze ecc.) che hanno visto una certa tenuta, dopo il 2008 il settore ha avuto grosse perdite e ha visto una ripresa estremamente lenta dovuta ad una serie di fattori come la difficoltà di accesso al credito, l’aumento della disoccupazione e la diminuzione del reddito medio.
Il settore immobiliare è un settore molto importante attorno al quale girano molte attività collaterali, agenzie immobiliari, studi professionali di progettazione, imprese edili, mobilifici, attività di riparazione e manutenzione e impiantistica.
Come il mercato immobiliare anche altri settori chiave hanno visto un progressivo rallentamento o timidissime riprese. Più queste attività entrano in stallo minore è il flusso reddituale in circolazione e minore sarà la propensione al consumo. Quando i consumi rallentano si assiste alla recessione. Questa è la situazione nella quale eravamo prima della pandemia, in bilico sul ciglio del burrone.
Non c’è da meravigliarsi se la fase 2 vedrà molte saracinesche chiuse, molte attività che non hanno retto il colpo, il che vuol dire un pezzo del corpo sociale senza reddito o quasi che dovrà razionare gli acquisti, inducendo un’ulteriore contrazione della domanda di beni e servizi.
Ci si chiede allora, se l’azione di governo sia sufficiente per frenare la corsa in discesa che stiamo imboccando.
I sistemi di “aiuti” che si stanno attuando somigliano tanto a dei capestri più che misure d’emergenza. Si inonda come al solito di liquidità il sistema finanziario “per garantire accesso al credito” invece di aiutare direttamente chi è in sofferenza: sarebbe preferibile applicare provvedimenti indiretti agendo sulla pressione fiscale anziché indebitarsi con l’Europa. Le azioni di allentamento della pressione fiscale portano a mancati gettiti momentanei ma evitano la trappola degli aiuti costituita dalle politiche di austerity per garantire il rientro del debito. Le azioni da intraprendere potrebbero riguardare la cancellazione delle more fiscali per le microimprese e i piccoli esercizi; un sostanziale ribasso generalizzato dell’IVA potrebbe sostenere i consumi aumentando il potere d’acquisto dei soggetti a basso reddito.
Una moratoria – non uno slittamento – delle imposte per le partite iva sarebbe forse meglio delle 600 euro. Si mettono invece in campo meccanismi simili a quelli del post 2008, molto simili ai Tremonti bond, ossia liquidità alle banche che poi predisponevano delle “finestre d’accesso al credito” per le imprese in difficoltà: in pratica denaro incamerato ma poi elargito col contagocce. Oggi sembra ripetersi la stessa pantomima.
Uno Stato che attraverso i suoi organismi dichiara di essere in emergenza – “siamo in guerra” dicono – ma continua ad operare infilando il capo nel cappio dei meccanismi come il MES e tutto l’armamentario di prestiti ripianabili solo con drastiche politiche di austerity. Non sembra agire proprio come se fosse in guerra!
Se le politiche di austerity ci hanno azzoppati e ridotti in una perenne crisi economica, come possiamo immaginare che altre dosi della stessa “medicina” possano rimetterci in piedi? In casi eccezionali come questo, si dovrebbe pensare alla salute del corpo sociale non a quella dei mercati. Sono i soggetti piccoli, le imprese artigiane, o le PMI a conduzione familiare che costituiscono il sottobosco fertile del nostro sistema economico, se non si immagina di salvarle in qualche modo i danni che saremo costretti a ripristinare faranno sembrare la pandemia come solo l’inizio dell’incubo.
Redazione Malanova
Note:
[1] Riccardo Sorrentino, Recessione tecnica, che cos’è e perché non è diversa dalle altre, il Sole 24 Ore – https://www.ilsole24ore.com/art/recessione-tecnica-che-cos-e-e-perche-non-e-diversa-altre–AFPXplD