L’attuale fase pandemica ha riaperto – semmai si fossero chiuse – le profonde cicatrici lasciate dalla crisi economica del 2008 facendo riaffiorare la strutturale debolezza di una società che, costruita sulle leggi del capitale, ha anteposto per sua stessa natura il profitto di pochi al benessere dei molti, il valore d’uso a quello di scambio.
Questa emergenza ha avuto il merito di far riemergere la questione della riproduzione – centrale nel dibattito femminista − e spesso dimenticata o descritta solo come antitesi del lavoro produttivo.
Il lavoro produttivo dispiega la sua essenza all’esterno − fuori di casa, nelle città o in fabbrica – mentre il quello riproduttivo si svolge all’interno, dentro le abitazioni, lontano dalle strade, come una sorta di ombra del lavoro produttivo. Ma oggi, rinchiusi in casa e negli ospedali, vediamo emergere con forza una riproduzione sociale capace di stare alla pari e vincere sulla produzione economica perché senza cura di sé e degli altri, senza cura dell’ambiente e del territorio, nessuna produzione è possibile.
È necessario quindi decostruire la narrazione unica del modello economico attuale per costruire una nuova economia su basi sociali ed ecologiche; una nuova società della “cura collettiva” capace di escludere dal proprio orizzonte l’economia dei profitti individuali. Questo possiamo farlo ora perché questa “nuova” crisi apre contraddizioni e possibilità il cui esito naturalmente non è per nulla scontato ma sta a noi rovesciare il paradigma produttivista di fondo per evitare che non siano i soliti soggetti deboli a pagarne il prezzo più caro.
Per fare questo deve essere chiaro un concetto: nessuno deve rimanere indietro e nessuno deve tornare indietro perché non è la normalità del “prima” quella a cui guardare: va immediatamente ripensato il senso intrinseco del lavoro e, al contempo, va garantito subito il diritto al reddito.
Con tutta evidenza la normalità di cui parlano il Governo e pezzi del sindacato è quella di chi scambia lavoro per salari da fame e privi di ammortizzatori sociali, è quella dei lavoratori occasionali, stagionali e delle tante “invisibili” che svolgono il lavoro di cura (e riproduzione appunto) all’interno delle nostre case, di chi lavora in nero sottopagato e sfruttato in agricoltura e in genere è quella normalità di tantissimi milioni di precari che sopravvivono, letteralmente giorno dopo giorno, barcamenandosi tra bollette, affitti e mutui.
Non è questa la normalità che vogliamo e non sarà la speranza di una uscita imminente dall’incubo della quarantena a garantirci una giusta dignità sociale ed economica perché – come sappiamo bene − non si tratta di una crisi iniziata con il virus ma che viene da molto più lontano.
Per noi resta quindi imprescindibile rivendicare a gran voce una misura reddituale immediata e universale, per tutti, a prescindere da genere, settore produttivo e tipo di contratto. Una forma di reddito universale non “lavorista”, svincolato dal lavoro. Questo dobbiamo rivendicarlo ora, nella contingenza attuale dell’emergenza, ma dovrà giocoforza rimanere un pezzo dell’orizzonte politico su cui misurare la nostra prassi.
R.AS.P.A. (Rete Autonoma Sibaritide e Pollino per l’Autotutela)