Quando questo numero del giornale andrà in stampa, la campagna elettorale per la rocambolesca corsa alla Regione Calabria sarà terminata ed una cosa soltanto appare certa: è stata una campagna elettorale giocata sulla pelle delle comunità locali senza mai, in due mesi, aver toccato i temi caldi che oggi affliggono i cittadini calabresi.
Grandi assenti nel chiacchiericcio elettorale sono stati temi cruciali come la salute ed il diritto alle cure ripetutamente violati, la mancanza di un lavoro che restituisca dignità alle persone, il ciclo dei rifiuti e delle acque perennemente in mano a pochissimi privati e potentati di turno che, in questo ultimo periodo, stanno anche assaporando l’asfissiante aria delle patrie galere.
Una pratica capestro – perfetto mix di privatizzazione, appropriazione coloniale e pratica dell’emergenza come anticamera del commissariamento – hanno messo letteralmente in ginocchio un’intera comunità regionale e a nulla sono servite le sirene ammaliatrici di governi che hanno fatto le loro fortune elettorali su promesse mai mantenute di contrasto a questi meccanismi predatori.
Un esempio per tutti, il fallimento dei governi a guida M5S con i due partener, Lega e PD, a rappresentare uno il risvolta della medaglia dell’atro, incapaci di dare risposte concrete a esigenze reali essenzialmente per una precisa linea politica, quella di non disturbare lobby e multinazionali dei servizi; quei servizi che una volta venivano definiti pubblici ed essenziali e che oggi hanno come unico orizzonte possibile il profitto.
Il M5S in questi due anni di zoppicatura governativa ha perso per strada una delle sue 5 stelle, quella dell’acqua pubblica. Avrebbe potuto (e dovuto) rimettere mano al servizio idrico integrato facendo approvare il testo di legge di iniziativa popolare proposto dal Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua.
Nulla di tutto questo è stato fatto.
Non sono riusciti neanche ad avviare un piano strategico nazionale che potesse riammodernare la pessima situazione in cui versa tutto il sistema idrico nazionale con perdite medie che si attestano sul 50%, che in soldoni vuol dire che ogni 100 litri di acqua immessi nella rete 50 si disperdono e non vengono utilizzati dall’utenza finale.
Ed in Calabria la quantità di acqua prelevata ad uso potabile è veramente tantissima.
L’ultimo rapporto Istat parla di 603 metri cubi al giorno procapite; circa la metà di questa viene dispersa per le numerose perdite idriche lungo le condotte, soprattutto quelle relative alle reti comunali.
Eppure la Calabria, regione ricca d’acqua, è tra le poche a risultare quasi completamente autonoma rispetto all’approvvigionamento idrico. Soltanto per uno 0,4% del fabbisogno complessivo dipendiamo dalla vicina Basilicata.
E questo è tanto vera che fa posizionare la Calabria tra le prime regione in termini di quantità di acqua erogata pro capite.
Ma il dato allarmante, come accennavamo nell’introduzione, sta proprio nell’enorme differenza tra l’acqua immessa in rete e la quantità realmente erogata pro capite.
Se è pur vero che nei volumi di acqua erogata per usi autorizzati sono compresi anche gli usi pubblici, quali la pulizia delle strade, l’acqua nelle scuole e negli ospedali, l’innaffiamento di verde pubblico e i fontanili, il dato però che appare allarmante è che in Calabria circa il 59% dell’acqua immessa in rete non arriva ad essere erogata per gli usi autorizzati.
Questo dato, più allarmante al Sud e nelle Isole, risulta però una criticità estendibile all’intero territorio nazionale.
Il vero problema sta tutto nelle perdite delle reti idriche.
Oggi l’intero processo di distribuzione dell’acqua è caratterizzato da copiose perdita lungo il percorso che dai serbatoi giunge agli utenti finali. Spesso le fonti di approvvigionamento d’acqua sono lontane da dove essa è necessaria. Questo richiede il prelievo dell’acqua alla fonte e il trasporto fino al punto di consegna o di utilizzo con migliaia di chilometri di tubazioni e grandi invasi e opere di captazione e adduzione.
È stata una scelta politica ben precisa quella di puntare su queste grandi opere a discapito di una politica gestionale più calibrata sulle esigenze dei centri abitati. Ancora oggi con il meccanismo degli Ambiti Territoriali Ottimali unici e su base regionale e con gli accorpamenti in vaste macro-aree interregionali si sta puntando alla creazione di pochissime multiutility (4 o 5 in tutta Italia) che si spartiranno tutto il sistema idrico nazionale.
Si tratta sempre e comunque di garantire lauti profitti al privato a discapito delle comunità locali.
Pochi e scarsi sul territorio, invece, sono stati gli interventi straordinari di manutenzione della rete idrica.
A dimostrazione di quanto affermato basta analizzare i dati Istat del succitato rapporto. In Calabria nel quadriennio 2012-2015 le perdite son aumentate del 5,7% ed il dato è pressoché allarmante per il resto del territorio nazionale ad eccezione delle sole regioni Piemonte e Valle D’Aosta.
L’area del Mezzogiorno è quella che presenta una maggiore dispersione nelle reti di distribuzione. La città metropolitana di Cagliari presenta le maggiori criticità dell’infrastruttura con una perdita idrica del 54,5 per cento, ma perdite superiori alla media nazionale si rilevano anche nelle città metropolitane di Bari, Palermo, Catania, Messina, Napoli e Reggio Calabria.
Se spostiamo il focus sui comuni capoluogo di provincia il dato appare ancora più chiaro.
Nel solo 2016, il volume totale di acqua potabile immessa nella rete di
distribuzione nei comuni capoluogo di provincia è stato di 2,62 miliardi
di metri cubi pari a circa 394 litri per abitante al giorno.
A causa però delle perdite idriche nella rete di distribuzione, il
volume di acqua che gli enti gestori hanno effettivamente erogato agli
utenti per usi autorizzati è pari a circa 1,6 miliardi di metri cubi,
circa 240 litri per abitante residente.
Significative sono poi le differenze tra i comuni capoluogo in termini di volumi pro capite erogati.
Si va dai 138 litri giornalieri per abitante residente di Oristano ai 388 litri di Cosenza.
Queste differenze nei consumi idrici a scala municipale dipendono da un lato da aspetti socio-economici legati alla vocazione attrattiva del territorio e quindi alla popolazione insistente e alle attività economiche presenti su scala urbana, ma dall’altro dalle differenti condizioni della rete di distribuzione.
La mancata manutenzione delle condotte di distribuzione genera, ancora una volta, differenze di accesso ad un servizio fondamentale come quello dell’acqua e ancora una volta a farne maggiormente le spese sono i comuni capoluogo di provincia del Mezzogiorno che fanno registrare, nell’insieme, le più alte perdite idriche con percentuali totali, pari in media al 45,7 per cento.
Situazione ancora più gravosa per i grandi comuni dell’Italia meridionale, dove, in media, quasi la metà dei volumi immessi in rete (49,8 per cento di perdite) non arriva a destinazione e si disperde nell’ambiente.
Anche i dati sui razionamenti disegnano un Mezzogiorno colpito dal meccanismo della riduzione della fornitura di acqua. I comuni capoluogo di provincia interessati nel 2017 da misure di razionamento nella distribuzione dell’acqua per uso civile sono 11 e sono tutti ubicati nell’area del Mezzogiorno, ad eccezione di Latina.
Nel 2017 Cosenza e Trapani sono risultati i comuni, che hanno maggiormente sofferto il disagio della riduzione del servizio di distribuzione dell’acqua su tutto il territorio comunale con, rispettivamente, 245 e 180 giorni. Le situazioni di maggiore difficoltà si sono verificate in alcune zone della città di Catanzaro, Palermo e Sassari, dove la distribuzione dell’acqua potabile è stata ridotta per alcune ore della giornata (specialmente nelle ore notturne o nelle prime ore mattutine) in tutti i giorni dell’anno.
Anche in alcune aree delle città di Caltanissetta e Agrigento si sono verificate molte giornate di riduzione o sospensione del servizio (347 e 288). Critica anche la situazione di Reggio di Calabria (107), Avellino (31) e Latina (24).
Questi dati, come sappiamo non sono per nulla migliorati negli anni
successivi a quelli di rilevamento dell’Istat e ci restituiscono un
quadro allarmante circa le reali condizioni di salute delle reti di
distribuzione idrica nazionale; un dato il cui grado di allarme risulta
omogeneo su tutto il territorio nazionale ma con situazioni di ulteriore
gravità quando il focus si sposta sul Mezzogiorno.
Ci chiediamo come mai, dopo decenni di ubriacatura liberista e di
pensiero unico atto a sdoganare l’ineluttabilità dell’intervento privato
anche in un settore così delicato, non si tirino le dovute somme e si
decreti il fallimento delle privatizzazioni.
D’altronde otto anni fa, fu lo stesso popolo italiano a decretarne il
tracollo con la straordinaria vittoria referendaria che avrebbe dovuto
allontanare lo spettro del profitto dall’acqua.
Oggi, dunque, appare chiaro come l’unica vera “grande opera” veramente
utile sia quella di rimettere mano radicalmente alla rete di
distribuzione con un adeguato investimento nazionale che possa abbattere
considerevolmente i livelli delle perdite e, nel contempo, chiudere
definitivamente con la stagione dei privati nel ciclo integrato
dell’acqua approvando la proposta di legge d’iniziativa popolare
proposta dal Forum Italiano dei movimenti per l’Acqua ancora ferma nelle
varie commissioni parlamentari.
Come abbiamo più volte detto, l’acqua e i beni comuni sono a titolarità diffusa, non sono compatibili con una logica di profitto. Esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona, e sono fondati sul principio della salvaguardia intergenerazionale.
Inoltre, possono rappresentare un nuovo orizzonte di senso in grado di connettere terreni e conflitti diversi, di parlare potenzialmente a tutti ben al di là dei recinti angusti della politica di palazzo.
L’acqua e i beni comuni possono scompaginare, materialmente e simbolicamente, i logori confini della politica e ricostruire alle radici una diversa cultura collettiva.
Diviene quindi fondamentale riuscire a costruire nuove forme di gestione partecipativa così da permettere a sua volta la creazione di legami sociali e di cittadinanza che sono fra le principali condizioni di un’efficace gestione collettiva dei beni stessi, perché esercitare la partecipazione e la democrazia nel vivo delle lotte è la base fondamentale per avviare il processo di democratizzazione nella preservazione e nella gestione dell’acqua.
Obiettivo prioritario diviene quindi ripubblicizzare il pubblico per renderlo comune, democraticamente partecipato, trasparente. Ripubblicizzare l’acqua e i beni comuni costringe a ripensare la democrazia e ad inventare insieme pezzi di un’altra politica.
Occorre rivendicare la demercificazione, l’autogoverno e la gestione partecipativa di questi beni essenziali, materiali o immateriali, e dei servizi ad essi funzionalmente connessi, secondo regole e strumenti decisi dalla collettività di riferimento, ponendosi l’obiettivo di diventare parte stessa di una comunità e non individui di una società che competono nel mercato.
Gennaro Montuoro
Coordinamento Calabrese Acqua Pubblica
Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua
fonte: CotroneInforma n°139/2020