“(..) una violenta decarbonizzazione dei portafogli mondiali rischia di destabilizzare il sistema finanziario internazionale. Quindi sì agli investimenti green, ma con regole chiare su cosa significhi essere “verde” e senza creare scossoni troppo forti nell’abbandono degli asset legati ai combustibili fossili”.
Non poteva essere più chiaro il quotidiano della Confindustria (Il Sole 24ore, 21 settembre): c’è il verde del dollaro e il verde dell’ambiente, e, tra un applauso e l’altro a Greta, nessuno può avanzare dubbi sul fatto che debba essere il primo a prevalere.
D’altronde, se i grandi capitali finanziari possono rimanere insensibili alle mobilitazioni di Friday For Future o agli studi dell’IPPC (il gruppo di scienziati dell’Onu sul cambiamento climatico), non possono certo sottovalutare quanto prodotto in casa propria: secondo Moody’s Analytics, il costo dell’innalzamento della temperatura di due gradi centigradi raggiungerebbe i 69 trilioni di dollari entro il 2100, pari a 27 volte il debito pubblico italiano.
Ecco allora la svolta green che attraversa l’elite del pianeta: oltre trenta tra banche centrali e autorità di regolamentazione hanno unito le proprie forze nel nuovo “Network for Greening and Financial System”, che può contare su asset gestiti pari a 100mila miliardi di dollari, pronte a rilanciare investimenti finanziari sul “verde” per compensare i drastici cali della profittabilità che settori, come le società petrolifere e quelle assicurative, hanno iniziato ad accusare.
Non si tratta naturalmente di salvare il pianeta, ma di salvare il capitalismo facendo finta di salvare il pianeta; negando l’alterità insopprimibile tra ciò che è necessario, ovvero “stabilizzare il clima al massimo che è ancora possibile, mobilitando tutti i mezzi che si conoscono, indipendentemente dal costo” e ciò che per l’attuale modello è compatibile, ovvero “cercare di salvare il clima nella misura in cui questo non costi niente, o non troppo, e nella misura in cui questo consenta alle imprese di ricavare profitti”.
Per questo Greta può essere -per ora- applaudita (in attesa di dedicarle un profondo disprezzo, in quanto giovane, donna e “fuori norma”), ma nessuna elite mondiale prenderà in considerazione la regola prima che utilizzava Einstein nei suoi studi “Non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo” .
In nessun campo la radicalità -ovvero l’andare alla radice del problema- diviene necessaria, come sul terreno della contraddizione ecologica.
Andare alla radice farebbe per esempio scoprire come diverse crisi ecologiche si siano puntualmente presentate nella storia dell’umanità, ma nessuna con le caratteristiche dell’attuale shock climatico: se tutte le crisi precedenti erano dettate da una tendenza alla sottoproduzione e alla penuria, questa è la prima dettata, al contrario, dalla sovrapproduzione e dal sovraconsumo, figlia senz’altro dell’attività umana, ma dentro un’epoca storicamente e socialmente determinata, il modello capitalistico e l’economia di mercato.
Andare alla radice farebbe scoprire la necessità di invertire la trasformazione dei concetti di tempo e di spazio innescata dal modello neoliberale: dall’espansione senza limiti dello spazio -pianeta come unico grande mercato- alla riduzione dello stesso, attraverso la riterritorializzazione e l’autogoverno delle produzioni; dalla drastica riduzione del tempo -scelte prese sull’indice di Borsa del giorno successivo- alla sua espansione, misurando le decisioni sulle conseguenze possibili per decine di generazioni future.
C’è il pianeta di Greta che pulsa di vita e c’è il pianeta di Goldman Sachs che produce dividendi. Noi vogliamo vivere in quello di Greta.
di Marco BERSANI (Attac Italia) – Pubblicato su Il Manifesto del 28.9.2019