La Basilicata, una regione antica, bellissima e fragile che vive un vero e proprio paradosso: fino a qualche anno fa nessuno ne conosceva l’esistenza nè la localizzazione. Oggi, invece, la conoscono tutti: c’è Matera 2019, c’è il “coast to coast” cinematografico, ci sono i fantasmagorici capodanni RAI e, soprattutto, c’è un gran viavai di manager di multinazionali che si incontrano nelle zone del petrolio, dell’eolico, del fotovoltaico, del nucleare, dei rifiuti, dell’acqua. Manager che piombano qui, concludono i propri business, si accordano con le èlites affaristico-imprenditoriali-amministrative locali e vanno via.
Come definire questo cambiamento? “Crescita”? Forse le bellezze di questa regione sono state rivalutate, intorno ad esse sono nate attività diffuse che hanno offerto occasioni di lavoro, i tanti paesini si sono rivitalizzati con giovani famiglie e con bambini, alle radici storiche locali si è ridato valore? Insomma i lucani, ora che tutti li conoscono, sono più felici? Nulla di tutto ciò: il passaggio dal buio dell’essere ignorati alle luci della (strumentale) ribalta mediatica ha generato – ecco il paradosso – un netto ed indiscutibile peggioramento delle condizioni di questa regione, che vive ormai una situazione emergenziale a tutto tondo: ambientale, economica, sanitaria, demografica.
Ciò che occorrerebbe, invece, è una maggiore attenzione alle realtà più concrete di questa regione ed in particolare al suo ruolo strategico nel settore energetico ed alle enormi devastazioni prodotte dall’attività estrattiva sui terreni, sull’aria e soprattutto sull’acqua.
Più dell’80% del petrolio italiano si estrae in Basilicata. In 9.995 Kmq. si concentrano 487 pozzi petroliferi, 19 concessioni di coltivazione, 6 permessi di ricerca già accordati, una concessione di stoccaggio, 136 Km. di oleodotto su cinque linee e ben tre centri oli (impianti di prima desolforizzazione del greggio). Il primo è a Pisticci, in Val Basento, una zona SIN dove si smaltiscono enormi quantità di reflui nell’impianto Tecnoparco, attualmente al centro del processo detto “Petrolgate” per reati, tra l’altro, di contraffazione dei codici CER (Codici Europei Rifiuti). Il secondo, il Centro Olio Val d’Agri (COVA), è la più grande piattaforma estrattiva in terraferma d’Europa. Il terzo, a Tempa Rossa, sta per entrare in funzione. Milioni di metri cubi di gas e ben 85.000 barili/giorno – che potrebbero diventare 104.00 – vengono estratti in Val d’Agri ed altri 50.000 (forse 60.000) si estrarranno a Tempa Rossa.
Ma non basta: ben 17 nuove istanze di permesso di estrazione sono state già presentate. Oggi esse sembrerebbero sospese per 18 mesi per effetto della legge 12/ 2019 ma il condizionale è d’obbligo visto che, a due mesi di distanza dall’emanazione, mancano ancora i provvedimenti attuativi del MISE. Se queste nuove istanze venissero concesse, nonostante l’opposizione del Coordinamento Regionale No Triv e di tanti cittadini, più del 60% del territorio lucano sarebbe interessato da attività estrattive.
Tutto questo accade in una regione molto ricca di acqua: il 70% del territorio è occupato dai bacini di cinque fiumi lucani – il Bradano, il Basento, il Cavone, l’Agri ed il Sinni – ed il rimanente 30% dai bacini di fiumi “interregionali”: l’Ofanto ed il Sele a Nord ed il Noce a Sud. A questi si aggiungono molti corsi d’acqua minori e numerose sorgenti. Un miliardo circa di mc. annui utilizzati con un sistema di grandi opere idrauliche: 16 invasi oltre a traverse, captazioni di sorgenti e falde, impianti di potabilizzazione e sollevamento e reti di adduzione e distribuzione.
Grazie a tutto ciò la Basilicata fornisce acqua per uso potabile, irriguo ed industriale anche alla Puglia e ad alcune aree della Campania e della Calabria per un totale di circa 5 milioni di utenti.
Purtroppo questo grande patrimonio, importantissimo localmente ed addirittura prezioso in un contesto mondiale di progressivo depauperamento del bene acqua, invece di essere scrupolosamente protetto con un adeguato Piano Regionale di Tutela delle Acque – a tutt’oggi inesistente – è oggetto di innumerevoli aggressioni causate dall’intero ciclo dell’attività estrattiva.
In fase di ricerca ed estrazione, con trivellazioni profonde migliaia di metri si estraggono, insieme al greggio, anche sostanze radioattive ed inquinate chimicamente che molto spesso contaminano le falde attraversate: negli ultimi anni è stato più volte vietato l’uso di pozzi e sorgenti in molti comuni lucani. Numerose analisi di acque e sedimenti della diga del Pertusillo –che fornisce acqua alla Puglia – hanno evidenziato la presenza di idrocarburi e metalli pesanti e nei pesci sono stati rilevati contaminanti industriali e cianotossine. L’estrazione spreca, inoltre, enormi quantità di acqua spesso sorgiva (circa 8 litri per ogni litro di greggio) che si contamina e diventa rifiuto da smaltire.
Durante la preraffinazione le sostanze inquinanti immesse in atmosfera dai camini dei centri olio si depositano sul terreno e sulle acque superficiali anche a distanze elevate.
In fase di stoccaggio e trasporto il petrolio lucano, corrosivo perché ricco di zolfo, causa forature sia nei serbatoi di stoccaggio dei centri olio che nelle tubature dell’oleodotto per Taranto.
Sono innumerevoli i casi di perdite diffuse nell’oleodotto ed a gennaio del 2017 un’enorme quantità di greggio fuoriuscì dai serbatoi del COVA inquinando terreni e falde. L’episodio fu classificato come “incidente rilevante” ed ENI parlò di 400 tonnellate di greggio sversato ma oggi, dopo ben due anni, le idrovore stanno ancora lavorando a pieno ritmo. A questo danno si rischia poi di aggiungerne un altro in quanto si ipotizza di riversare la miscela acqua-petrolio recuperata, dopo una “depurazione” chimica con sostanze inquinanti, nel fiume Agri, affluente del Pertusillo.
Lo smaltimento delle scorie viene effettuato con tecniche diverse: quelle del COVA (ENI) vengono reiniettate a forte pressione ed in profondità nel pozzo esaurito di Costa Molina 2, non distante dal Pertusillo e con l’inevitabile coinvolgimento delle falde.
A Tempa Rossa (Total) è finora previsto che le “acque di produzione” –acque risultanti dal processo estrattivo ed inquinate chimicamente e radiologicamente- vengano “depurate” e sversate nel torrente Sauro, un affluente del fiume Agri che si collega alla diga di Monte Cotugno (482 milioni di metri cubi) che fornisce acqua a Basilicata, Puglia e Calabria settentrionale. Cronaca di un disastro annunciato.
Al tema dell’inquinamento si aggiunge quello, importantissimo, della gestione del SII, che è effettuata oggi in forma privatistica in quanto affidata ad una s.p.a. a capitale interamente pubblico: Acquedotto Lucano s.p.a.. Sarebbe quindi facile ripubblicizzarla realmente, data l’assenza di capitale privato, ma le amministrazioni di centrosinistra che si sono succedute non hanno mai risposto positivamente alla richiesta del Coordinamento Regionale Acqua Pubblica di Basilicata di ancorarla saldamente in mano pubblica mediante la creazione di un’Azienda Speciale Pubblica ed oggi temiamo che la nuova amministrazione regionale leghista possa aderire alle forti pressioni privatizzatrici delle multinazionali già presenti nelle regioni limitrofe. La nostra unica speranza è, invece, che venga approvata immediatamente e senza stravolgimenti la proposta di legge “Disposizioni in materia di gestione pubblica e partecipativa del ciclo integrale delle acque” in discussione alla Camera, che è l’aggiornamento della Legge di Iniziativa Popolare presentata 12 anni fa dal Movimento per l’Acqua.
Problematica è anche la situazione della proprietà e della gestione delle opere idrauliche che hanno fatto capo, fino alla sua liquidazione, all’EIPLI (Ente Irrigazione Puglia, Lucania ed Irpinia).
Il comma 905 della legge di Stabilità 2018 (dicembre 2017) ha però istituito una nuova società Statale partecipata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze imponendo di trasferirle – dal 30.6.2018 – tutte le funzioni e le risorse umane e strumentali dell’EIPLI. Lo stesso comma ha consentito la partecipazione iniziale a questa società delle sole Basilicata, Campania e Puglia con quote proporzionate alle rispettive disponibilità di risorse idriche, prevedendone, però, il successivo ampliamento mediante l’ingresso di altre società operanti nell’Appennino Meridionale, incluse quelle private fra cui è ampiamente presente ACEA/GDF-SUEZ.
Da tutto quanto detto è facile comprendere la centralità e strategicità della Basilicata nella lotta all’uso delle fonti fossili e nella difesa del clima e dei beni comuni e la necessità che nell’immediato futuro l’attenzione di tutte le parti sane della società si concentri ancora di più su questa regione allo scopo di sostenere l’azione di comitati e cittadini locali nel loro quotidiano confronto con i colossi dell’energia e dell’acqua.
Lidia Ronzano e Carmela La Padula (Coordinamento Regionale Acqua Pubblica di Basilicata)
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 39 di Marzo – Aprile 2019. “Si scrive acqua, si legge democrazia”