Dormiveglia
Il sonno tarda a venire
poi mi raggiungerà senza preavviso.
Fuori deve accadere qualche cosa
per dimostrarmi che il mondo esiste e che
i sedicenti vivi non sono ancora tutti morti.
Gli acculturati i poeti i pazzi
le macchine gli affari le opinioni
quale nauseabonda olla podrida!
E io lì dentro incrostato fino ai capelli!
Stavolta la pietà vince sul riso.1
1. Quello italiano, scrive Michel Foucault, è sempre rimasto uno Stato di “diplomazia” (e non di “polizia”), vale a dire «un insieme di forze plurali tra cui bisogna stabilire un equilibrio: i partiti, i sindacati, le clientele, la Chiesa, il nord, il sud, la mafia ecc. […] forse è questa la ragione per cui la forma di esistenza permanente dello stato italiano è una sorta di guerra, guerriglia o quasi guerra»2. Questo Stato-guazzabuglio si configura in un assetto in cui il difetto di politica, in Italia già denunciato da Niccolò Machiavelli, costituisce il fattore preponderante, l’ingrediente caratterizzante di quel pot-pourri, quel magma indifferenziato, quel putridume cui accennava Montale nel 1977. In Dell’arte della guerra, opera scritta tra il 1519 e il 1520, Machiavelli biasimava che gli Stati italiani si affidassero agli eserciti mercenari, anche perché ciò rappresentava il prevalere degli interessi economici sulla politica, in altre parole del privato sul pubblico. Negli ultimi decenni, a un sistema di partiti autoreferente e in parte corrotto, imperniato sulla spesa pubblica, si sono andate a sostituire la privatizzazione e la commercializzazione delle sfere della vita in cui rispetto ad altri paesi europei, come la Francia e la Germania, il carattere fragile dell’architrave statuale ha opposto meno resistenza. Le oligarchie affaristiche governano al posto dello Stato e lo stesso Stato, così come la forza e la cosa pubblica sono al servizio del denaro: è appena necessario precisare che il caso italiano costituisce lo specchio di un processo europeo, anzi globale. Al vuoto sempre più totale dello spirito pubblico si rifaceva, invece, Guy Debord, nei Commentari alla società dello spettacolo del 1988, all’interno dei quali considerava l’Italia – addirittura assieme alla Francia − la fabbrica dello spettacolare integrato, così come gli Stati Uniti lo erano stati dello spettacolare diffuso e Russia e Germania di quello concentrato. Il processo di commercializzazione-privatizzazione, cioè, in Italia sale interamente alla ribalta, dando una rappresentazione ormai manifesta di se stesso, ovvero dello stato delle cose: «il sole che non tramonta mai sull’impero della passività moderna», chiosava Debord già nel ’673.
2. Sul palcoscenico europeo, così, si è da tempo sviluppato un modello opulento − aggiungeva Marcuse − e molto ben visibile di relazioni economiche, accettato dall’anomia della classe dirigente italiana e orientato lungo l’asse centro-periferia: all’interno di esso lo sviluppo del centro è il risultato del sottosviluppo del polo periferico. Ciò fa sì che la società si accresca su condizioni di spreco, obsolescenza e distruzione, «mentre il substrato della popolazione − diceva Marcuse alla fine degli anni Sessanta, anticipando quegli aspetti che, negli ultimi trent’anni, sono diventati ancor più problematici − continua a vivere nella povertà e nella miseria»4. è evidente che, in questo modo, l’uomo è subordinato a quell’apparato litigioso e nauseabondo di cui, da versanti diversi, parlavano Montale e Foucault, all’interno del quale la civiltà opulenta, pur rivolgendosi costantemente a se stessa, non presta più attenzione a quello che sta facendo. Persino la coscienza e l’inconscio di ciascun individuo sono sottoposti a un controllo sistematico che relega l’essere umano in una condizione di decervellamento5, di totale impreparazione all’esistenza, di conservazione in uno stato di irresponsabilità. Ne deriva una vera e propria sindrome che ratifica ancora una volta l’unione inscindibile di produttività e distruzione e la contraddizione tra la ricchezza sociale e l’uso aggressivo che si fa di essa.
L’aggressione all’individuo si produce, come è ormai noto, attraverso l’ipervalorizzazione e l’imposizione di alcuni beni (il petrolio, che Pasolini aveva definito «novello Vello d’Oro»6, prima di tutti gli altri), scelti dalla classe ideologico-totalitaria che detiene il potere per rafforzare le sue condizioni di isolamento: l’individuo, in questo modo, risulta diviso da quello che produce e, cosa ancor più deprimente, dalla propria stessa vita. Questa diventa merce, posta sulla bilancia insieme al prodotto selezionato e messa alla sua stessa stregua, cioè reificata: questa mia vita risulta, per di più, imprigionata nella ricchezza illusoria e insita nel consumo del prodotto. è seguendo questa deriva inidentitaria che l’intero Mediterraneo e, in particolare, il Meridione dell’Italia sono diventati la conseguenza lampante di un uomo e di una società che, dal centro alla periferia, hanno fatto dell’intera loro estensione il loro ritratto, riproducendo così come sono i meccanismi ciechi del potere. La forma è quella di un colonialismo introvertito che riproduce capillarmente la realtà che prospetta e che dà da vivere, spacciandola come la sola realtà possibile.
3. Sono questi i presupposti teorici che consentono a tale forma deregolamentata di capitalismo di protrarre ulteriormente la sin troppo lunga stagione dell’estrattivismo, quella che ha portato ai più di mille pozzi petroliferi attualmente produttivi in Italia tra terraferma e mare (sono più di settemila quelli perforati a partire dal 1895) e che ha reso la Val d’Agri, in Basilicata, il distretto petrolifero su terraferma più grande d’Europa7. Ma che il Bel Paese sia diventato un paradiso per petrolieri lo si può comprendere dall’estensione del fenomeno che, ormai, riguarda molte aree sul territorio nazionale (a Porto Marghera in Veneto, nella Pianura Padana, in Abruzzo, a Taranto in Puglia, in Calabria, a Gela e a Priolo in Sicilia, a Porto Torres in Sardegna, solo per citarne alcune) e dalla lunga sequela di deregolamentazioni e sanatorie emesse dai Governi italiani negli ultimi anni. Già Stefania Prestigiacomo, che nel 2010 era Ministro per l’Ambiente, aveva firmato un importante decreto (il n. 128 del 29 giugno di quell’anno) che prevedeva una distanza minima tra la costa e le attività petrolifere pari a 5 miglia marine e che interrompeva i procedimenti amministrativi in itinere all’entrata in vigore del decreto. Tuttavia, Mario Monti, di concerto con l’allora Ministro dello Sviluppo Economico, Corrado Passera, firmò il ben noto Decreto sviluppo (decreto legislativo n. 83 del 22 giugno 2012, poi convertito, con modifiche, dalla legge n. 134 del 7 agosto 2012): con l’articolo 35 di tale decreto, si portò la distanza minima a 12 miglia marine ma, al contempo, si decise di riavviare i procedimenti interrotti dal decreto Prestigiacomo, ricadenti entro le 12 miglia. In questo modo, importanti procedimenti, quali quelli relativi ai progetti “Ombrina mare” in Abruzzo e “Vega B” nel Canale di Sicilia, ripresero indisturbati il loro corso. Nel febbraio scorso, il Ministero dello Sviluppo Economico del Governo di Matteo Renzi (presieduto da Federica Guidi) ha completato l’opera, accordando il proprio benestare all’istanza di riperimetrazione di un permesso di ricerca rilasciato nel 2012, riguardante il tratto di mare immediatamente prospiciente il Delta del Po, in aperta violazione di quanto previsto dall’articolo 35 del Decreto sviluppo.
La deriva del Decreto sviluppo anticipa, negli effetti che potrà produrre, gli articoli 37 e 38 del decreto-legge denominato Sblocca Italia (n. 133/2014), della legge di conversione n. 164/2014 e dell’articolo 1, comma 554, della legge di Stabilità: lo Sblocca Italia qualifica le attività di ricerca e di coltivazione degli idrocarburi come strategiche, indifferibili e urgenti, nonché di pubblica utilità; introduce un «titolo concessorio unico» in luogo dei due titoli minerari previsti sin dal 1927; dispone che le attività di ricerca e di coltivazione siano svolte sulla base di un piano nazionale, che stabilisca dove sia possibile cercare ed estrarre idrocarburi; prevede che il vincolo preordinato all’esproprio gravi sulla proprietà privata sin dalla fase della ricerca; cancella l’autorizzazione alla costruzione del pozzo esplorativo; estromette gli Enti locali dalla partecipazione ai singoli procedimenti amministrativi; contempla per le Regioni una intesa, nei fatti, “debole”, come risulta comprovato dal recente “disciplinare tipo” adottato dal Ministro dello sviluppo economico, che prevede il rilascio dell’assenso regionale in sede di Conferenza di servizi (e che conferma, con ciò, l’idea che l’intesa avrebbe natura “tecnica” e non “politica”); affida la valutazione di impatto ambientale delle attività medesime alla competenza esclusiva dello Stato.
Se si somma la risolutezza con cui lo Stato italiano esercita questa forma sostitutiva di potere all’ambiguo testo della legge sui delitti contro l’ambiente (n. 68/15 del 22 maggio 2015), appena approvato dalla Camera dei Deputati (dopo una discussione durata quasi un anno e mezzo) − nel quale, contestualmente, si è scelto di non introdurre, dopo averlo invece fatto in un primo momento, il divieto di utilizzare la distruttiva tecnica di ispezione dei fondali marini denominata Air Gun − la strategia politica (ancor prima che ambientale) attuata dall’autorità centrale italiana risulta ben chiara.
4. A fronte di questa terribile concretezza, fatta di numeri, decreti e bilanci, ma anche di spietata sopravvivenza, si riscontra una ancora troppo diffusa neutralità che, pur essendo priva di argomenti, ha finito per spegnere quasi del tutto l’identità di un uomo che, in seno alla civiltà occidentale (fatta di coercitivi ordini di Stato più che di leggi), non sa più nulla di se stesso: per quanto sia difficile desumere una prassi da tali ordini, nondimeno è sin troppo facile constatare a cosa essi mirino. D’altronde, quando si è ridotti in questo stato di dormiveglia − lo stesso di cui si lamentava Montale e dal quale, come da un guscio, come dalla propria casetta rimpannucciata, è quasi impossibile uscire − la cosa più semplice da fare è contemplare: si tratta di un’operazione che, al pari del contare, si compie quando si è completamente esausti, incapaci di eseguire qualsiasi altra attività. Più che operazione, quella del contemplare è, dunque, viscoso traviamento, aberrazione, pietoso spettacolo irrazionale e puerile dal quale, essendo il risultato di un calcolo universale e fascista, è tremendamente difficile distaccarsi. Quanto ciò fosse difficile lo aveva compreso Pier Paolo Pasolini con il suo Petrolio, romanzo incompiuto che si aggroviglia, come in un sogno, intorno al suo stesso contenuto per diventare rappresentazione del modo in cui la coscienza dell’individuo perde, in seno alla miserabile società del progresso e del benessere, la propria unità, la propria dissociazione «reale, necessaria, storica»8 che cerchi di smuoverla dalla passiva e sbadata disposizione a contemplare, a seguire pigramente il corso della vita e dall’incapacità della sua mano destra di comprendere cosa stia facendo la mano sinistra. Petrolio mutua lo schema di una crisi cosmica: essa, spiega Pasolini, consiste «nel passaggio dal ‘Ciclo’ naturale delle stagioni, al ‘Ciclo’ industriale della produzione e del consumo»9 che, a differenza del primo, è astratto e diacronico e che prevede la fine del petrolio, dell’acqua e dell’aria e, parallelamente e parodicamente, la fine di ogni ideale di vita che dal petrolio sia sconnesso.
Enzo Di Salvatore Alessandro Gaudio
«Il Ponte», a. LXXI, n. 8-9, agosto-settembre 2015, pp. 60-64
1 Eugenio Montale, Dormiveglia, in Idem, Quaderno di quattro anni [1977], a cura di A. Bertoni e G.M. Gallerani, Milano, Mondadori, 2015, p. 303.
2Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al college de France (1977-1978), trad. di P. Napoli, Milano, Feltrinelli, 2005, pp. 228-229. Alcuni degli spunti da cui muove questo paragrafo sono dovuti a riflessioni di Salvatore Cingari che qui si ringrazia.
3 Guy Debord, La società dello spettacolo [1967], trad. di V. Fantinel e M. Silvera, Bari, De Donato, 1968, p. 12.
4 Herbert Marcuse, La liberazione dalla società opulenta, in David Cooper (a cura di), Dialettica della liberazione. Integrazione e rifiuto nella società opulenta [1968], Torino, Einaudi, 1972, p. 182.
5 L’espressione è reperibile in Goffredo Fofi, Elogio della disobbedienza civile, Roma, Nottetempo, 2015, p. 9.
6 Pier Paolo Pasolini, Petrolio [1992], a cura di S. De Laude, Milano, Mondadori, 2005, p. 212.
7 Sulle correlazioni tra petrolio e globalizzazione si veda Naomi Klein, Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile [2014], trad. di M. Bottini et alii, Milano, Rizzoli, 2015. Sulla situazione in Italia: Pietro Dommarco, Trivelle d’Italia, Milano, Altreconomia Edizioni, 2012; Maurizio Bolognetti, Le mani nel petrolio, Roma, Reality Book, 2013 e, in particolare, Massimo V. Civita – Albina Colella, L’impatto ambientale del petrolio in mare e in terra, Giulianova, Galaad, 2015.
8 Pier Paolo Pasolini, Petrolio cit., p. 33.
9 Ivi, p. 414.