Il dramma di una politica focalizzata sui risultati immediati, sugli interessi privati e sull’occultamento dell’informazione ha fatto sì che l’Alto Ionio calabrese, ancor più rispetto a gran parte del Meridione, si trovi in una condizione quasi irreversibile di debolezza. In ragione di ciò, questo territorio è costretto a sottostare a un evidente regresso civile che al mostruoso, all’informe, alla distruzione affianca un tentativo grossolano di intrattenimento
turistico, trascurando la vera bellezza della vita in comune che dovrebbe essere il solo imperativo della politica. Chi amministra questi luoghi non ha a cuore la modernità: brama, semmai, una contro-modernità (che poi non è altro che mero “sviluppismo”) apparecchiata per cittadini che, spesso insicuri e timorosi verso l’Altro, non hanno mai saputo abitare la propria polis. Cittadini, quelli dell’Alto Ionio, che non sanno neanche di avere piena facoltà di pretendere che il loro territorio venga gestito secondo un’idea naturale di pubblico diritto, come d’altronde viene preteso in altre zone d’Italia da popolazioni più coese, ostinate e reattive intellettualmente di fronte all’arroganza del potere.
Il quadro della questione è articolato, ma esemplare. Esso prevede la costruzione, ormai certa, di un’orribile e costosissima strada a quattro corsie che, tra Sibari e Roseto Capo Spulico (lungo quello che, nel gergo dei ministeri, è conosciuto come il terzo macrolotto della Ss106), distruggerà un contesto naturalistico e paesaggistico di prim’ordine e circa cinquecento ettari di produzioni agricole. Al degrado ambientale legato alla mega-costruzione insensata di una terza inutile arteria stradale parallela alla vecchia statale e a una superstrada ultimata una ventina di anni fa corrisponde il degrado umano e sociale di intere comunità private da tempo dei mezzi di trasporto essenziali (ferroviari, ma non solo): le stazioni (ultima proprio quella di Sibari) chiudono una dopo l’altra, le strade di comunicazione locali, quelle veramente necessarie per la crescita di una comunità, sono trascurate, abbandonate, dissestate, franate.
Meno di due anni fa e, di nuovo, da qualche settimana si è paventata l’incredibile iniziativa di un’azienda privata che, nel cuore della Piana di Sibari, vorrebbe costruire un impianto per il trattamento dei rifiuti: 400mila tonnellate di fanghi di ogni tipo e di scarti di macelleria provenienti dalla Campania, dalla Puglia e dalla Basilicata, oltre che dalla Calabria, nel cuore di un distretto agroalimentare di qualità (uno dei pochi davvero produttivi di tutta l’area) che occupa tra i 4 e i 5 mila lavoratori. Nell’indifferenza generale si aspetta soltanto che i permessi amministrativi vadano avanti.
C’è, poi, una concessione di ricerca ed estrazione di idrocarburi che interesserà 410 kmq, toccando, tra gli altri, i comuni di Oriolo, Rocca Imperiale, Montegiordano, Canna e Nocara; a mare, nel Golfo di Taranto, le istanze in via di approvazione sono diverse ed estesissime. In aggiunta a ciò, se si dà un’occhiata al documento che regola la Strategia energetica nazionale per il 2017 si apprende della conversione da carbone a biomassa della centrale Enel di Rossano (vicinissima ai boschi della Sila greca e del Pollino) che andrà ad affiancare l’attività di un’altra centrale a biomassa (recentemente venduta da Enel al Fondo F2i, una gigantesca società per la gestione del risparmio), situata nella valle del Mercure nel cuore del Parco nazionale del Pollino.
Vi è poi una vecchia storia legata alla gestione dei rifiuti industriali della Pertusola Sud di Crotone. Al netto delle inchieste concluse e di quelle ancora in corso, sono ancora molti gli interrogativi legati allo smaltimento di centinaia di migliaia di tonnellate di ferriti di zinco, interrate chissà dove e ancora “invisibili”. Dove sono finite le centomila tonnellate di ferriti sfuggite ai procedimenti giudiziari? Gli oltre tremila camion di scorie che, con ogni evidenza, hanno solcato le strade dell’Alto Ionio e riempito magari viadotti e ponti sono sfuggiti alla nostra attenzione narcotizzata? Sono forse invisibili tremila camion? Certo, invisibili come le esigenze e i diritti (quelli alla salute, sopra tutti gli altri) di cittadini disperati.
Non è lontano un sito di stoccaggio e bonifica di combustibile nucleare: l’Itrec (ovvero l’Impianto di trattamento e rifabbricazione elementi di combustibile dell’Enea), infatti, ha custodito per quasi 50 anni una sessantina di barre di uranio arrivate negli anni Settanta dal reattore nucleare sperimentale statunitense di Elk River, in Minnesota. Non sarà forse lo stesso uranio che ha già contaminato le falde acquifere con cromo esavalente, trielina e idrocarburi fra Rotondella, Policoro e Nova Siri? Ci troviamo nella vicinissima Basilicata, regione già estesamente interessata da estrazioni petrolifere a tappeto. A fronte di questa terribile concretezza, sebbene sparuti gruppi di cittadini tentino qua e là di replicare, si riscontra ancora una troppo diffusa neutralità che, pur essendo priva di argomenti e di giustificazioni, ha finito per spegnere quasi del tutto l’identità di un uomo al quale, in seno alla civiltà occidentale (fatta di coercitivi ordini di Stato più che di leggi), viene negato il pur minimo diritto di autodeterminazione.
Le mille contraddizioni di un territorio vessato da più versanti si trovano di fronte una società tiepida a cui manca ogni elemento di coesione: si arriva a ritenere, anzi, che quelle contraddizioni siano il frutto esemplare di questa società; e, cioè, che esse dispongano dello stile e delle pratiche del malaffare, tanto è caratteristica l’impronta nera che lasciano sulla realtà di tutti i giorni. Realtà in cui è quotidiana l’umiliazione dell’intelligenza come la menomazione della dignità.
Da molti versanti, è ormai emersa la necessità di declinare l’economia, il progresso e la responsabilità politica non più secondo azioni parziali, apparenti e che non tengono conto delle diverse e complesse esigenze degli individui e delle comunità. Uscire dalla passività e recuperare il senso della totalità che lega diversi aspetti della vita civile dell’Alto Ionio? Quando e, soprattutto, come?
Sarebbe necessaria una pratica politica che non si limitasse soltanto a salvaguardare l’ambiente, ma che si aprisse a una considerazione più ampia del diritto alla salute delle popolazioni interessate che, contemporaneamente, si sono viste privare di diversi presidi ospedalieri (esemplare la situazione di stallo e di disinteresse che vige intorno a quello di Trebisacce) e che, incredibilmente, non possono disporre ancora di un registro completo e aggiornato delle malattie tumorali: per esempio, di quelle poste in relazione con amianto, ferriti ed elettromagnetismo. È ormai urgente l’adozione da parte di tutti gli organismi amministrativi di un’idea di ecologia integrale che sia etica prima ancora che politica e che sia umana, attenta alla vita delle persone e contro le strutture consolidate e spesso mafiose di potere. Contro un Alto Ionio e un Mezzogiorno intesi come campo-dormitorio dell’Italia, se non proprio come pattumiera, si esige che il disegno qui abbozzato venga immediatamente abbandonato e che venga restituita al popolo la sovranità sui beni comuni e sulla propria vita. Nel considerare questa incredibile situazione (e nel tentare di migliorarla) il punto di partenza non può essere, in alcun luogo, l’idea che la questione Alto Ionio resti locale, aspettando inutilmente che venga risolta dall’alto, come nel passato affidandosi a un meridionalismo strapaesano e avvilito.
Il punto di partenza è un Sud che si costituisca entro un progetto che possa essere derivato dalla considerazione (pratico-politica, prima ancora che morale) che un irreparabile processo di decomposizione generale sta interessando l’intera collettività nazionale, arrivando a coinvolgere la vita economica, sociale, civile, culturale di tutta l’Italia, secondo un prospetto di cui è facile trovare il modello nel fallimento dell’Alto Ionio. Della sua fisicità, delle sue pietre e dei suoi muri, sin sopra i ponti che si stanno sgretolando; non diversamente dagli uomini, sempre meno inclini, quaggiù, a far fronte all’ipocrisia, all’egoismo, alla mediocrità che erano appannaggio di una classe politica e, appena un attimo dopo, di una certa condizione sociale.
Alessandro Gaudio
«Left», n. 49, 7-13 dicembre 2018, pp. 34-37