Il sistema universitario vive in uno stato di permanente crisi economica e conseguenziale carenza di risorse. Dalla riforma Gelmini del 2008, che tra le altre cose ha definanziato in maniera ingente tutti gli atenei della penisola, ha integrato all’interno del sistema universitario e delle logiche ad esso connesse un forte processo di privatizzazione e ha creato la figura del ricercatore ineluttabilmente precario, fino ad oggi non c’è stato nessun cambiamento. Nessun governo succedutosi, qualsiasi colore politico abbia vestito, ha pensato minimamente di cambiare rotta. Il quadro è chiaro e il problema strutturale che si viene a innescare porta a un vorticoso circolo virtuoso: lo smantellamento del diritto allo studio infatti prevede: meno docenti a causa del blocco del turnover, meno studenti, meno fondi, meno corsi (e contrazione dell’offerta formativa), meno ricerca (soprattutto quella di base), più sacrifici familiari per portare a termine il percorso di studi a causa dell’aumento esponenziale della tassazione (+95% negli ultimi 10 anni), più concorrenze e competitività tra gli atenei. Questi ultimi due concetti sono sempre poco presi in considerazione quando si analizza l’involuzione del sistema universitario. Infatti è la chiara volontà politica di stratificazione su base nazionale che legittima il dogma dell’eccellenza, l’univoca scelta che i governi hanno messo in atto per classificare le università in base al giudizio di pochi eletti, tecnici dell’Anvur (Associazione Nazionale per la Valutazione e la Ricerca) e politicanti del Miur. Le continue riforme regressive sono state decise da gruppi di esperti economisti, rettori soprattutto milanesi, e il tutto avallato appunto dall’Anvur. organo istituito nel 2010 che negli anni ha completamente marginalizzato l’operato del CUN (Consiglio universitario nazionale). Questi organi non fanno che valutare e punire gli atenei ritenuti “improduttivi”, quindi non meritevoli, solo sulla base di criteri di giudizio basati su rigidi indicatori numerici. Una competizione generata quindi da un pianificatore centrale che di fatto ha creato università di serie A e università di serie B, con maggiori stanziamenti di fondi pubblici e quote premiali ad atenei del Nord a discapito di quelli del Sud. Un ulteriore emblematico esempio è l’uso di un nuovo esercizio tecnico come la VQR (Valutazione della qualità della ricerca) che ha solo avuto il compito di orientare la disparità dei fondi da tagliare e per fare ciò si è basato esclusivamente sulla valenza della ricerca, giudicata in base ad analisi bibliometriche e sede di pubblicazione degli articoli e mai per la componente creativa e critica del ricercatore, il suo sforzo per l’interdisciplinarietà o la dedizione nell’analizzare problemi rilevanti per la società.
Questo piccolo ma sostanziale resoconto fa evincere il totale stravolgimento del concetto stesso di università, che da forma più che a un luogo di cultura e sapere critico a un meccanismo che si poggia su basi ideologiche di matrice aziendale.
Le direttive del “governo del cambiamento” Lega-5 Stelle non vogliono di certo colmare le palesi lacune che hanno sostanziato il declinante processo politico universitario dell’ultima decade. L’art. 78 della Legge di Stabilità 2018 introduce due deleterie disposizioni: la prima è quella che predispone che il fabbisogno degli atenei non incrementa più automaticamente del 3% ogni anno com’era previsto nell’art. 1 della legge in vigore dal 2006 che regolava il bilancio annuale e pluriennale dello Stato, ma in misura pari al tasso di crescita del Pil reale. La seconda prevede lo scorporo delle spese per ricerca e investimenti dal calcolo complessivo che permetterà agli atenei “ricchi” di spendere per “investimenti” e “ricerca” il tesoretto accantonato senza rispettare i vincoli del fabbisogno. L’ultima novità riguarda l’ennesima roboante uscita del Ministro dell’Interno Matteo Salvini, che qualche settimana fa ha dichiarato esplicitamente il suo intento di voler abolire il valore legale del voto di laurea. Niente di nuovo a dir la verità, ci aveva provato già Matteo Renzi nel 2011. Il significato politico e l’obiettivo di questa proposta sono comunque sempre gli stessi: per valutare uno studente al termine del suo percorso di studi non si dovrà tener conto del voto del titolo di studio conseguito, ma alla qualità, o ancor meglio alla reputazione, e quindi al posto in classifica dell’università da cui esso proviene. Così facendo si darebbe ancor più risalto al ranking delle università: la struttura eccellente e la scalata al successo verso le università con miglior reputazione e meglio premiate diverrebbe il nodo cruciale per riuscire ad ottenere un posto dignitoso nell’impiego pubblico.
Rivolgiamo un ultimo sguardo critico nei confronti degli studenti delle tre università calabresi che due giorni fa hanno ringraziato il presidente della regione Mario Oliverio all’Università della Calabria per aver contribuito a risanare, attraverso fondi Pon e Pac, le mancanze dello scellerato (non) impiego di risorse per il diritto allo studio. Noi non vogliamo discutere l’agito, in sé molto nobile, di ricoprire il vuoto degli idonei non beneficiari di borse di studio, ma crediamo che se non riusciamo ad intaccare il sistema alla radice, se non riusciamo ad entrare in conflitto con le dinamiche sopracitate, se non faremo del nostro meglio affinché l’università non diventi mero contenitore di sapere mercificato, saremo costretti a prostrarci a presidenti e consiglieri regionali per aver riempito quel buco di denaro volutamente creato a causa dei reiterati tagli all’istruzione pubblica. E per questa ragion di cose di conseguenza saremo comunque complici dello scempio creato dai vari politicanti e da esperti tecnici della cosa pubblica, strenui credenti dell’ideologia neoliberista.
Progetto Azadì 07/12/18