Un testo che pone alcune domande e riflessioni interessanti sull’uso e l’abuso della parola “mafia” in un sistema di poteri trasversali fondati sul clientelismo, la corruzione e la collusione ai più alti livelli dello Stato, dove la parola “mafia” viene usata mediaticamente per introiettare nella popolazione la paura che giustifica l’onnipresente emergenza mafia, di fatto finita vent’anni fa ma sempre presente nell’agenda politica per legittimare impunità da un lato, sospensione dello stato di diritto, carceri e regimi speciali e abuso di custodia cautelare dall’altro. Uno Stato che non vuole sconfiggere realmente l’idea della mafia, così come tutte le altre emergenze, perché ogni emergenza ha una sua utilità. Altrimenti cadrebbero tutti gli alibi costruiti in tanti anni di politiche emergenzialiste.
Associazione Yairaiha Onlus
Etichettare con lo stigma mafioso ogni atto delinquenziale, riconducibile o meno alle organizzazioni criminali, che operano sul territorio italiano, è servito nel corso degli anni a rendere indefinito e astratto un fenomeno altrimenti reale e tangibile (qual ‘ è l’associazione di gruppi di persone che ha lo scopo di accrescere il proprio potere politico e socio- economico mediante la sopraffazione e la corruzione), ottenendo il duplice effetto di infondere nella popolazione la credenza che sia impossibile sottrarsi al potere criminale e di accomunare questa deviazione sociale con il territorio che la subisce (classico esempio è la comparazione siciliano= mafioso).
Questo concetto credo sia possibile chiarire meglio ricordando l’errore di fondo che si compie tutte le volte in cui, identificando nello Stato quell’organismo oscuro e ostile tratteggiato spesso dagli organi di informazione – lo si addita per richiamare le responsabilità delle istituzioni, del governo o dei partiti politici del nostro paese, con la conseguenza che questi ultimi guadagnano l’anonimato e pertanto l’impunità rispetto a loro eventuali errori.
Nell’immaginario collettivo Lo Stato e la Mafia sono cosi diventate due entità onnipresenti e onniscienti, tra loro complementari, che penetrano nei gangli mediatico-più intimi della società e la infettano.
Proprio in questa incoerenza si palesa, a mio vedere, il paradossale risultato conseguito dalle politiche mediatico-giudiziarie di questi ultimi venti anni: hanno portato una generalizzazione del fenomeno mafioso che, anziché osteggiarlo lo ha reso invece sempre imponente e invasivo, e a inculcare nei cittadini l’idea che lo Stato sia qualcosa di diverso da loro stessi, contiguo invece alla Mafia.
Procedendo di questo passo, tale dicotomia (Stato-Mafia), rischia progressivamente di essere trasmutata nel suo esatto opposto (Stato mafioso); i più evidenti segnali al riguardo sono quelli venuti dall’indagine giudiziaria palermitana denominata, guarda caso, “Trattativa Stato Mafia” (nella quale sono indagati alcuni funzionari delle istituzioni italiane) e da quella mirabilmente denominata “Mafia Capitale”, che vede imputate qualche dozzina di persone, ma che ha consegnato al mondo, immeritatamente, l’immagine della città di Roma come “capitale della mafia”.
In questo senso, non si potrebbe dare torto a quanti affermano che la mafia non esiste: infatti, se si è tutti mafiosi, alla fine mafioso non lo è nessuno.
Ma questa è solo una digressione..
La sintesi di questo mio sragionare è che a rendere il cittadino ancora più debole di fronte alle pretese del crimine, organizzato o meno che sia, concorra proprio il continuo enfatizzare il fenomeno mafioso: se questo è ovunque ed è responsabile di ogni cosa accada intorno a lui, appare del tutto inutile opporvisi e dunque tanto vale conviverci.
Sono questi i motivi per cui alcuni detenuti della redazione di Ristretti Orizzonti, durante un confronto con il dott. Piscitello, vice capo del DAP, posero la domanda <<Lo Stato vuole sconfiggere la Mafia?>> e la risposta fu <<Lo ha già fatto militarmente, ora deve farlo culturalmente.>>.
Io penso che lo Stato italiano, vale a dire le sue istituzioni, di fronte all’attacco stragista di un’organizzazione criminale esercitando il diritto-dovere di proteggersi e di conseguenza di stroncare ogni velleità egemonica della stessa, ha reagito varando delle leggi emergenziali che hanno colpito duramente la malavita (anche in modo indiscriminato, se è vero che nell’arco di un decennio, per fare solo un esempio, le accuse e le condanne per appartenenza mafiosa si sono centuplicate) e comunque annientato quella componente della realtà criminosa siciliana denominata Cosa Nostra, responsabile di quella deriva strategico -terroristica .
Dal varo di queste leggi sono trascorsi venticinque anni ma, nonostante la cessazione di quello stato emergenziale, che ha partorito fra l’altro il regime speciale di cui all’articolo 41bis (con la conseguente predisposizione di carceri speciali) e la modifica dell’articolo 4bis dell’Ordinamento Penitenziario, rimangono tutt’ora in vigore; allo stesso modo, il reato di associazione mafiosa continua ad essere applicato con la stessa frequenza di allora, secondo me anche dove sarebbe sufficiente contestare l’associazione per delinquere ordinaria, che sembra invece essere pressoché scomparsa.
Questa tendenza a tenere alto l’allarme sociale nel Paese, evocando ripetutamente il pericolo mafioso, credo si giustifichi, in parte, con la volontà di seguitare a mantenere in piedi quegli apparati investigativi emergenziali parecchio dispendiosi e a concentrare sistematicamente il potere giudiziario nelle mani di quella politica che sull’emergenza mafiosa ha costruito la propria forza e fortuna… Ecco perché, rivolgendomi al dottor Piscitello, avrei cosi formulato la domanda: I Poteri (Politico, Giuridico, Finanziario e Mediatico) che manipolano la vita socio-economica del nostro Paese, sono disposti a rinunciare all’alibi della Mafia, intesa nel senso prima riferito, di modo che le Istituzioni deputate possano effettivamente concentrare attenzione e risorse su quelle organizzazioni criminali che hanno la capacità di condizionare la vita del territorio dentro il quale operano?
Da questa rinuncia, secondo il mio punto di vista, dipende tanto la possibilità delle Istituzioni dello Stato di restituire la verità storica sulla mafia, riconducendola a quello che è realmente : una struttura concreta, ben definita e riconoscibile, piuttosto che un fenomeno trascendente dal quale la società italiana è irrimediabilmente soggiogato. Quanto alla rivincita culturale auspicata dal dottor Piscitello, che potrebbe incominciare nel momento stesso in cui nella popolazione maturerebbe la consapevolezza di potersi affrancare dal crimine organizzato: il che avverrebbe se solo si smettesse di accusarla di esserne connivente o di intimidirla grazie alla cattiva informazione che le prospetta continuamente di vivere sotto la sua regia.
Ora, è indubbio che lo Stato, che nella sua accezione repubblicana e democratica è l’insieme di tutti i cittadini, voglia eliminare tutte quelle manifestazioni (crimine, corruzione e via dicendo) che snaturano e corrompono la sua vita sociale: ma le sue Istituzioni vogliono adempiere a questa volontà?
Se si, per quale ragione continuano invece ad alimentare i presupposti (come ad esempio la politica clientelare e la disuguaglianza sociale che, in un momento di crisi economica come quella attuale, costringono il Sud all’agonia) sui quali questa piaga sociale prolifera?
….Ai posteri la risposta.
In questo presente, nel rispetto delle argomentazioni sin qui svolte, devo invece, mio malgrado, dare ragione al dottor Ardita, quando afferma che <<i mafiosi sono irrecuperabili>>, seppur nei termini e per i motivi che qui preciso:
a mantenere alta la percentuale di recidiva nelle persone appartenenti al crimine organizzato e non solo credo concorrano essenzialmente due fattori, tra loro strettamente collegati: 1) la convinzione in queste persone che non esista per loro alcuna chance di poter sopravvivere al di fuori dal contesto malavitoso dentro al quale hanno da sempre operato; 2) La politica repressivo giustizialista (assecondata da diversi organi e soggetti istituzionali, tra i quali il dottor Ardita) che, a sua volta, pone queste persone di fronte all’assenza di alternative rispetto a quella di continuare a delinquere.
A queste persone, infatti, durante l’espiazione della condanna da parte dell’Istituzione Penitenziaria non viene offerto alcun sostegno utile a consapevolizzarle di avere comunque la possibilità di scegliere un altro modo di vivere. Sicché, nel momento in cui finiscono di espiare la loro pena, trovano ad attenderle, da un lato, la compagine criminale che si presenta loro con le braccia belle tese in segno di accoglienza e, dall’altro, le Istituzioni dello Stato che invece, le additano come soggetti senza speranza continuando a rifiutargli un’alternativa, costringendole a scegliere la vita di sempre. E allora si, queste persone sono effettivamente irrecuperabili, perché a volerli tali partecipa anzitutto il pregiudizio e l’abbandono di quanti dovrebbero accompagnarli in quel processo tortuoso che conduce verso il cambiamento.
Chiaramente, non si nega l’eventualità che, anche di fronte ad un diverso atteggiamento delle Istituzioni, una parte di queste persone potrebbe comunque non cogliere l’occasione di cambiare il proprio modo di interagire con la società, lasciandolo magari solo a un’esigua minoranza, unita alla circostanza che in tutte quelle altre persone germinerebbe senz’altro il dubbio che un’occasione di riscatto esiste, non sarebbe in ogni caso augurabile?
Quanto alla risposta, si fa affidamento sull’onestà intellettuale di quanti avranno modo di leggere questo scritto.
Salvatore Torre
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