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Istituzioni psichiatriche e controllo dei soggetti “folli”

Domani sera al Palazzo Panariti, dalle ore 18:00 in poi, è in programma un nuovo appuntamento assembleare del Collettivo Autogestito Casarossa40 all’interno del percorso LA SALUTE NON È IN VENDITA, momento di riflessione e pratiche sul diritto alla salute e sull’autodeterminazione individuale e dal basso.

L’assemblea focalizzerà l’attenzione sulle istituzioni psichiatriche e le pratiche di controllo sociale che il sistema usa per ostacolare l’autodeterminazione degli individui, per arginare qualsiasi critica sociale e normalizzare quei comportamenti ritenuti “pericolosi” poiché non conformi al mantenimento dello status quo, intervenendo nel complesso ambito del “disagio”.

Quella della reclusione e del “trattamento psichiatrico” dei “folli rei e dei rei folli” è una pratica che affonda le sue radici nella storia e, senza voler andare molto indietro nel tempo, basta pensare all’uso “terapeutico” dell’elettroshock, tecnica notoriamente ideata, sperimentata e introdotta da Ugo Cerletti e Lucio Bini nel 1938, tanto da essere celebrato dalla propaganda del regime fascista come invenzione «italianissima», oppure all’uso della corrente elettrica durante la Prima guerra mondiale nei confronti di molti soldati appartenenti agli eserciti austriaco, tedesco, britannico, francese e italiano, per il trattamento delle nevrosi di guerra, oltre che per smascherare presunti «simulatori», ossia di soldati che cercavano scampo alla morte in trincea «facendo i matti».

Oggi, più che in passato, con una crisi economica e sociale divenuta strutturale, assistiamo alla crescita di un’ulteriore forma di crisi, quella personale, le cui cause vanno ricercate nella società in cui viviamo e nello stile di vita che ci viene imposto e non esclusivamente nei disturbi biochimici della mente.

La logica del “trattamento psichiatrico” invece sminuisce le nostre sofferenze, riducendo le reazioni dell’individuo al carico di stress cui si trova sottoposto a sintomi di malattia e di conseguenza medicalizzando gli eventi naturali della vita. La risposta infatti è quasi sempre la stessa: diagnosi, etichetta e cura farmacologica (psicofarmaci) escludendo qualsiasi ipotesi di ragionamento che provi ad andare alla radice del problema, che affronti le cause e non l’effetto.

Gli psicofarmaci, oltre ad agire solo sui sintomi e non sulle cause della sofferenza della persona, alterano il metabolismo e le percezioni, rallentano i percorsi cognitivi ed ideativi contrastando la possibilità di fare scelte autonome, generano fenomeni di dipendenza ed assuefazione del tutto pari, se non superiori, a quelli delle sostanze illegali classificate come droghe pesanti, dalle quali si distinguono non per le loro proprietà chimiche o effetti ma per il fatto di essere prescritti da un medico e commercializzate in farmacia.

L’istituzione psichiatrica continua a compiere la sua funzione di esclusione e controllo sociale, ed ha enormemente ampliato il suo bacino d’utenza aumentando di anno in anno il numero delle “malattie mentali” da curare, ossia dei comportamenti “devianti” da uniformare.

Tra questi rientra il consumo di sostanze psicoattive, che oggi diviene sintomo di un disagio da trattare con cure psichiatriche, trasformando un fenomeno culturale e sociale in una questione sanitaria.

Negli ultimi anni a causa del decreto Fini-Giovanardi ed alle nuove proposte di legge in materia psichiatrica, si è rafforzato il legame proibizionismo-psichiatria ed i consumatori di sostanze illegali sono diventati merce per le multinazionali farmaceutiche e per l’industria del recupero e della riabilitazione sulla base di una doppia diagnosi che li vede “malati mentali” in quanto drogati e “drogati” a causa della loro “malattia mentale”.

Nel 2011 la degradante situazione che vivevano gli internati dei sei ospedali psichiatrici giudiziari (O.P.G), è fuoriuscita da quelle mortificanti strutture “terapeutiche”, rompendo quell’agghiacciante silenzio imposto da gran parte della psichiatria e della magistratura, complice una società “civile” per lo più indifferente e ancora pronta a legittimare le innumerevoli atrocità che tuttora spesso compiono le strutture psichiatriche con i propri servizi manicomiali gestiti autonomamente dai D.S.M (dipartimenti di salute mentale) o spesso da compiacenti organizzazioni del cosiddetto privato sociale (tra cui comunità, reparti ospedalieri, centri diurni e ambulatoriali).

L’impatto mediatico ottenuto dalle riprese effettuate all’interno dei vari O.P.G ha certamente favorito l’approvazione della legge 81/2014, la quale sancisce in data 31.3.2015 la chiusura dei sei manicomi giudiziari e obbliga ogni Regione a predisporre sul proprio territorio nuove strutture, le R.E.M.S (residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza). In verità soltanto lo scorso due maggio si è posto fine (quanto meno formalmente) all’esperienza degradante degli OPG in Italia con la chiusura dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto ed il trasferimento degli ultimi due internati nella Rems di Barete (AQ).

Ma basta chiudere gli OPG per sopprimere la logica manicomiale e le pratiche coercitive?

Certamente no!

Sostituire la targa esterna del manicomio (vedi ex O.P.G di Castiglione delle Stiviere ora R.E.M.S), rimbiancare le pareti o le mura di cinta, sostituire le inferiate con vetri antisfondamento e capillari sistemi di sorveglianza, sostituire le porte blindate con alte dosi di psicofarmaci e l’uso dei letti di contenzione, diminuire il numero delle persone internate, sostituire la cosiddetta “ergoterapia” (il lavoro imposto nei vecchi manicomi) con le “attività occupazionali terapeutiche”, sostituire le divise della polizia penitenziaria con le divise della sicurezza privata, sono tutte misure utili a mistificare la conservazione dello status quo.

In questo senso le REMS risultano probabilmente strutture sanitarie migliori ma pur sempre strutture detentive che il Governo, con il nuovo Disegno di Legge di modifica al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario, approvato al Senato e ora in discussione alla Camera, vuole utilizzare come ricovero anche dei detenuti, ripristinando, di fatto, le vecchie norme sui cosiddetti manicomi giudiziari. Se non si pone rimedio, le Rems rischiano di diventare a tutti gli effetti i nuovi Opg.

Altro che superamento degli OPG! Altro che reinserimento sociale!

Fin quando non si avrà la volontà di cancellare dal codice penale la cosiddetta “pericolosità sociale”, i giudici sulla base “dell’incapacità di intendere e volere” definita da un perito psichiatra all’interno di un processo penale, applicheranno una “misura di sicurezza detentiva”, ovverosia un internamento nelle R.E.M.S o “non detentiva” (libertà vigilata) con la presa in carico troppo spesso vitalizia e asfissiante dei servizi psichiatrici territoriali.

Non si tratta di essere “contro i farmaci” o “contro gli psichiatri” per un mero pregiudizio antimedico ma ciò che va contrastata è la logica manicomiale che crea stigma ed isolamento dal mondo esterno; impedire che i tentacoli, spesso asfissianti, della psichiatria continuino ad allargarsi in ogni dove, violentando la sfera spirituale, umana, sociale, del disagio, della sofferenza, del proprio essere e della propria vita.

Lamezia Terme, 04.05.2016

Collettivo Autogestito CASAROSSA40

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