Di associazione yairaiha onlus
Fin dalla sua nascita, nel 2006, l’associazione Yairaiha onlus ha affrontato il tema dell’ergastolo e le problematiche connesse ai circuiti ex EIV, oggi strumentalmente denominati AS ma, sostanzialmente, sempre luoghi di sospensione dei diritti costituzionali, dove i diritti variano a seconda del luogo di detenzione, della maggiore o minore umanità delle direzioni e della magistratura di sorveglianza, del loro essere o meno garantisti e dalla loro capacità di contenere entro i limiti di legge il potere discrezionale che esercitano.
La discrezionalità dei singoli direttori e magistrati fa sì che non tutti i detenuti d’Italia siano eguali.
C’è chi può mangiare il pesce e chi solo pomodori pelati; chi può avere un P.C. in cella e chi nemmeno è autorizzato all’acquisto; chi può fare telefonate settimanali e chi bisettimanali; chi può fare 6 ore di colloquio e chi quattro, chi potrà beneficiare del permesso di necessità e chi, a parità di condizioni, no, chi potrà prendere la borsa di studio e chi no, chi potrà avere un semplice cappello o meno e così via fino ad arrivare alla negazione di un abbraccio con la propria moglie altrimenti si rischia un rapporto disciplinare.
Quella che portiamo è la sintesi delle numerose testimonianze e denuncie raccolte in questi anni. Centinaia di uomini ombra che abbiamo incontrato oltre dieci anni fa in regime di Elevato Indice di Vigilanza, in attesa delle relazioni di sintesi per poter richiedere la declassificazione ed ancora oggi, a distanza di oltre dieci anni, attendono la chimera dell’”osservazione scientifica” senza aver ben compreso ancora chi la farà ne su quali basi, vista la scarsissima presenza di educatori e di magistrati di sorveglianza all’interno delle sezioni Alta sicurezza e le ancor più scarse opportunità di confronto con la società. In realtà le Autorità che dovrebbero garantire i diritti non riescono a capire le disparità di trattamento tra detenuti che, a parità di condizioni detentive, hanno la fortuna o sfortuna di dipendere da una direzione penitenziaria o da un magistrato di sorveglianza piuttosto che da un altro.
Non può capire Salvatore Benigno, detenuto nel carcere di Parma che, attraverso lo studio, sta cercando di crescere interiormente e culturalmente per dimostrare innanzitutto a se stesso che è un uomo diverso, perché si è visto negare dal direttore del carcere un premio di studio proposto dall’università della stessa città che frequenta con profitto e dedizione, nonostante la relazione della guardia di finanza che attestava la condizione di estrema indigenza dei familiari. In questo caso, il parere sfavorevole del direttore si è basato non sul condotta del detenuto, ne sul diritto/dovere a favorire le attività culturali, sociali, lavorative bensì sul titolo del reato del detenuto come a volerlo etichettare “cattivo per sempre”, incapace di raggiungere lo scopo della pena dettata dall’art. 27 della costituzione;
e ancora, non può capire Massimo Ridente, detenuto a Voghera, declassificato tecnicamente da due anni ma ancora in AS1 ed ostativo a qualsiasi beneficio;
non può capire Ciro Sorrentino, detenuto a Catanzaro perché, a parità di condizioni detentive, titolo del reato e condanna, a suo fratello, detenuto a Voghera venne riconosciuto il permesso di necessità per poter dare l’ultimo saluto al padre morente mentre a lui, per la stessa circostanza, la magistratura di sorveglianza di Catanzaro lo nega;
come non può capire Vincenzo Rucci, oggi detenuto a Spoleto ma precedentemente a Catanzaro e ancor prima a Rossano, che ha portato avanti un lungo sciopero della fame per protestare contro la discrezionalità della magistratura di sorveglianza che pretendeva la sua collaborazione ai sensi del 58 ter nonostante fosse stata presentata l’istanza per l’inesigibilità;
e ancora Claudio Conte, oltre 30 anni di carcere, ogni collegamento con l’organizzazione di appartenenza rescisso di più, la stessa organizzazione, stando alla relazione della DNA non esiste più, lo scorso aprile si è visto rigettare la richiesta per poter discutere la sua tesi di laurea all’università di Catanzaro che, paradossalmente, ha come titolo “profili di incostituzionalità dell’ergastolo ai sensi dell’art. 4 bis O.P.” (se ne raccomanda la lettura);
e Filippo Sciara, che da vent’anni sconta un doppio ergastolo, il suo e la condanna della moglie, affetta da tumore, e per la quale gli vengono concesse solo 4 ore di permesso all’anno per visitarla;
oppure ancora Alessandro Greco il quale si è visto rigettare la richiesta di sospensione della pena dal Magistrato di Sorveglianza di Catanzaro, richiesta motivata da grave patologia cardiaca, perché non collabora e risulta ancora collegato al clan di appartenenza nonostante l’organizzazione sia stata decimata più di 20 anni fa e l’art. 7 gli sia stato revocato con la sentenza definitiva.
Tantissimi sarebbero ancora gli esempi empirici che attestano l’eccesso di potere discrezionale esercitato dai magistrati di sorveglianza e dai direttori penitenziari che, troppo spesso, basano le proprie decisioni sul titolo del reato senza guardare all’uomo e ai cambiamenti morali ed etici maturati in tanti anni di carcere. Penso che sia superfluo viste e considerate le recenti circolari emanate dal DAP a tutela del diritto di cambiamento che ogni uomo conserva costituzionalmente. In particolare mi riferisco alla circolare con cui si sollecitano le direzioni a voler elaborare semestralmente le relazioni di sintesi e quella in cui si invitano gli organi di PG a voler attualizzare le relazioni sui collegamenti dei detenuti con le organizzazioni criminali perché troppo spesso stereotipati ed retrodatati. Prigionieri del passato per sempre. Quanto al MdS da mandato dovrebbe visitare spesso gli istituti penitenziari per verificare la corretta modalità di esecuzione penale mentre, invece, come risulta dai rapporti annuali di Antigone e dalle visite ispettive effettuate da diversi parlamentari, in pochissimi istituti la magistratura di sorveglianza ha una presenza costante, nella prevalenza ha una presenza saltuaria e comunque sommaria.
Altrimenti non ci troveremmo di fronte a casi eclatanti come quello di Voghera, denunciato nelle scorse settimane, dove un uomo con gravi problemi psichici, dopo lunghi anni in regime di 41 bis, è stato tenuto per circa 6 anni in isolamento totale privo di qualsiasi garanzia e diritto, peggio delle bestie. Solo l’intervento del Garante ha fatto si che la direzione adottasse in fretta e furia un “maldestro” rimedio trasferendolo (guarda caso il giorno prima della visita a sorpresa del dott. Palma) presso il centro clinico di Torino.
Sentiamo sempre dire che la società civile chiede la certezza della pena, ma nessuno si pone il problema di una totale incertezza dell’esecuzione della pena, della totale impossibilità di rendere effettiva la funzione rieducativa della pena. In realtà la mancanza di una misura unica di giustizia e la costante disparità di trattamento risultano essere le vere sbarre e i veri muri della carcerazione. In questo contesto l’Osservatorio carceri si è dimostrato e può concretamente essere una soluzione formidabile capace di evidenziare i punti deboli di un sistema penitenziario ancora troppo ancorato ad obiettivi di difesa sociale piuttosto che al recupero del condannato. Mi chiedo e vi chiedo se non sia arrivato il momento di uniformare i trattamenti in tutti gli istituti, non consentendo all’amministrazioni territoriali un’eccessiva discrezionalità, che limita i percorsi trattamentali, non consentendo un effettivo recupero e reinserimento, capace di essere il primo strumento di difesa sociale dal crimine.
Padova, 20 gennaio 2017
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