FONTE: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/ripartire-dall-alto
Venerdì 22 aprile 2016, alla mediateca Gateway di Bologna, si è svolta un’intensa e articolata giornata seminariale con Mario Tronti. Per la prima volta pubblichiamo la trascrizione della sua relazione, rimasta finora inedita. Era da poco uscito Dello spirito libero (il Saggiatore, 2015), libro di straordinaria ricchezza e radicalità, che offre molteplici spunti di discussione, decisive tesi e ipotesi di ricerca teorico-politica. Il seminario ha focalizzato in particolare tre grandi questioni: la critica del moderno, della democrazia e della tecnica. Qui Tronti affonda la lama politica del suo pensiero, ancora una volta senza lacrime per le rose. Perché, come scrive nel libro, «il pensiero è nemico mortale dell’opinione. L’opinione, infatti, lo odia. Arriva, ma lo devi meritare per averlo, uno stato d’eccezione del discorso, dove sovrano è chi pensa. Poi, dopo il lampo abbagliante, devi di nuovo abituarti alla normalità grigia o oscura».
Per la critica del moderno
Il libro è di frammenti, è molto scomposto nella sua articolazione, quindi ognuno ci trova qual è il suo problema. Credo sia giusto così, perché un libro deve suscitare problemi, non deve tanto risolverli. Deve richiamare i problemi che hanno in corpo e nella testa le persone che leggono, soprattutto le persone impegnate in questa forma anomala di amicizia. Amicizia è un termine ambiguo, è molto esposto alla pappa del cuore. Oggi in particolare vediamo che tutti sono amici di tutti, poi c’è il pianto quotidiano su quella parte di mondo che sembra emarginata, sottoposto a maggiori violenze. Invece, quando si dà una declinazione politica dell’amicizia in quanto autoriconoscersi dentro un orizzonte di contrasto al mondo così com’è, ecco, quello è il vero tipo di amicizia che ci interessa e bisogna coltivare, allargare, approfondire.
All’interno di questa amicizia possono esservi anche sensibilità e pensieri diversi, perché secondo me oggi non basta più questo declinare il contro. C’è una richiesta di capire concretamente cosa e come si fa, è una domanda che mi viene rivolta giustamente e correttamente. Intanto, bisogna individuare di volta in volta il nemico. C’è il nemico generale, che per chi viene dall’esperienza che abbiamo fatto lungamente a partire dall’operaismo è la forma di capitale. Una cosa che oggi è in discussione è: ma è ancora quello il nemico? All’interno di questa forma di amicizia politica questo è chiaro, appena si esce un passo fuori non è più chiaro, si pensa che non ci sia più. Questo discorso corre il rischio di essere catalogato come passatista, quello degli ultimi giapponesi che combattono una guerra che non c’è più.
Affrontiamo ora il tema modernità e capitalismo. Mi sono inventato una cosa che naturalmente non ha convinto nessuno e non convince nessuno, va sempre messo nel conto. Io mi muovo su un terreno molto scivoloso e ambiguo, perché bisogna mettere sotto accusa la modernità, però senza cadere nella polemica e nella critica anti-moderna. Io dico spesso: non anti-moderno, ma critica del moderno. Assumendo il moderno come luogo anche nostro. La dimensione anti-modernistica è sempre stata reazionaria, non solo conservatrice, è il tentativo di ritorno indietro. Quindi, bisogna sempre stare attenti a non dare spazio a questo anti-modernismo. L’invenzione del libro è dividere il moderno stesso tra vecchio e nuovo. E poi, quando comincia la modernità? Questo è un altro tema di riflessione. Cominciamo con l’affermare che c’è un’antichità del moderno. È la prima modernità, con la produzione di questa nuova forma di essere umano. C’erano già dei precedenti, nella Grecia antica, nel paganesimo antico, poi declinati diversamente nel cristianesimo. C’è un moderno che scavalca indietro quello che ci hanno insegnato a scuola, il moderno che cominciava nel Cinquecento, con l’umanesimo e il rinascimento. Comunque, i primi secoli del moderno, quelli che collidono cronologicamente, dal Quattrocento fino alla metà del Seicento, sono quell’antichità del moderno che andrebbe ripresa. Perché il progetto moderno, dell’essere umano autoconsapevole di sé, autonomo nel suo pensiero, nella sua concezione e agire nel mondo, è anche nostro. C’è poi l’occupazione del capitalismo sul moderno. È questo ciò che lascia molti perplessi. Bisogna giocare molto su questa doppia cosa.
In cosa consiste il fallimento del progetto moderno? Questa è l’idea di fondo del concetto di spirito libero: l’essere umano autonomo e libero, che era appunto il progetto del moderno, è stato contraddetto proprio dallo sviluppo capitalistico della modernità. È stato contraddetto dalla forma borghese che ha preso l’antropologia generale. Quella borghese è una forma di falsa libertà e autonomia, che va messa sotto critica proprio in questo senso. In quanto borghesi, non si può essere liberi. Perché essere borghesi è già una forma di servitù. C’è il passaggio dalla servitù degli antichi alla servitù dei moderni, in La Boétie, significa questo. Cosa vuol dire forma borghese dell’uomo? Vuol dire appartenere a questo mondo di rapporti sociali, economici, finanziari, comunicativi. A un mondo che quanto più si fa complesso, tanto più spariscono le contraddizioni fondamentali. Questo è il vero progetto della modernità capitalistica, non l’affermazione dell’uomo libero nello spirito. E più si andava avanti, più la contraddizione fondamentale scompariva. La cosa è andata avanti non solo ideologicamente, ma anche materialisticamente.
Io sostengo una tesi, che è un lascito dell’esperienza operaista: per sconfiggere la classe operaia, il capitalismo ha dovuto superare la sua fase industrialistica. Il passaggio che è stato narrato ed elaborato da tutti come post-industriale, di finanziarizzazione del capitalismo e immaterialità del lavoro, è stato compiuto perché scomparisse quella contraddizione fondamentale. Non è accaduto per leggi economicamente oggettive, ma per una volontà politica di superare la minaccia operaia. L’eliminazione della minaccia operaia dalla seconda metà del Novecento in poi, è stata un progetto portato avanti dalle classi dominanti, e ha avuto grande successo. Tutto il resto sta lì dentro.
In fondo, anche la chiusura dell’esperimento di costruzione del socialismo sta lì dentro, è molto organico a questo passaggio. Finché c’era, quella forma di socialismo accennava ancora a una contraddizione frontale. Operai e capitale avevano come controparte, a livello geopolitico, il rapporto di opposizione tra capitalismo e socialismo. Le due cose cadono insieme. La fine della contraddizione fondamentale operaia dentro il capitalismo e il crollo del socialismo sono due episodi che si intrecciano perfettamente. Questo ha provocato la vittoria loro e la sconfitta nostra. È stato un passaggio di una potenza storica eccezionale. Abbiamo visto la debolezza delle nostre armi, la fragilità del nostro armamentario non solo ideologico, anche teorico e pratico. Lì nasce il problema che c’è nel libro: vedere perché ciò era già implicito in quella forma di costruzione del socialismo, che non poteva che portare al suo fallimento, è un discorso che andrebbe elaborato se ci fossero delle generazioni di militanti teorici che si occupano di questi problemi, ripercorrendo tutta la fase di costruzione del socialismo in Unione Sovietica. Non se ne sa niente, tutta quell’esperienza è stata messa tra parentesi. Lì ci sono invece da capire molte cose, io non ho tempo, però se fossi giovane mi metterei a scrivere una biografia di Stalin, del passaggio tra Lenin e Stalin.
C’è il problema di come nominare questa forma sociale che abbiamo di fronte. Io dico spesso contrasto a questo mondo, che si regge su vari piani. Un problema è: possiamo nominarlo ancora come capitalismo? Oppure è necessaria una definizione diversa? Io penso che siamo ancora dentro questa forma, che viene negata non direttamente ma indirettamente, ambiguamente. Tutti cercano di definire le cose con etichette di successo, che poi si ripetono giornalisticamente, come la società liquida, che non mi pare proprio una definizione scientifica.
Io ho una tesi, che ricavo da alcune suggestioni schmittiane: il rapporto tra classe operaia e capitale è un rapporto tra terra e mare. Il capitale è mare, e quando dicono società liquida hanno in mente questo. La classe operaia è terra, gli operai vengono dal mondo contadino, sono i contadini che sono entrati in fabbrica. Dal punto di vista geopolitico c’è una grossa emergenza che si può riconoscere nell’Eurasia. Paul Valéry l’ha detto, l’Europa è un piccolo promontorio dell’Asia. Questa è tutta terra: se partite dall’Europa e andate verso la Cina attraverso la Russia, è tutta terra. Se andate dall’altra parte cadete in acqua, nell’Atlantico. Lì c’è l’altro mondo, quello è il mondo vero del capitale. Se io posso individuare un nemico, è il mondo anglosassone. Quella cosa tra Stati Uniti e Gran Bretagna, oggi pure l’Australia. Poi si ripete anche dentro le Americhe: c’è un Sudamerica che è tutta terra, non a caso sono luoghi di insorgenza.
L’altra suggestione è questa: la classe operaia è storia lunga. Proprio perché gli operai vengono dal mondo contadino e dalla terra, hanno dietro di sé secoli e millenni di storia. Il capitale vince con le scoperte geografiche, quando cominciano a mandare le caravelle per l’Atlantico, lì comincia la loro egemonia. Ma noi abbiamo più storia del nostro nemico. Siamo più legittimati dalla storia lunga, anche se poi la storia breve ci ha tagliato le gambe. Questo è il paradosso. Ecco perché nel libro c’è sempre la questione della lunga durata della storia. Bisogna comunque durare. Quella critica volta sempre al socialismo realizzato, che non è riuscito a durare, che bisognava far durare.
Ci sono frasi del libro che nessuno cita, sembrano delle boutade e invece sono il frutto di una lunga elaborazione. Sono le cose che fanno saltare sulla sedia gli amici progressisti e della sinistra, come il passaggio che dice: quando c’è stata la crisi del socialismo e dell’Unione Sovietica, ci voleva Bismarck e invece c’è stato Eltsin. È la disgrazia che è capitata al socialismo e al movimento operaio di avere un Gorbačëv, un liquidatore di tutta l’esperienza; lì bisognava tenere. Io faccio sempre l’esempio contrario, la grande lezione che ci dà la Chiesa cattolica: sta lì da duemila anni, ne ha passate di tutti i colori e stanno tranquilli, altro che i gulag. Bisogna stare lì e non spostarsi. Il problema delle istituzioni è anche questo: ci vogliono istituzioni che tengano la durata, perché sulla durata poi si decide tutto il resto.
Questa idea della storia lunga si collega molto al tema della memoria. Il libro è una sorta di apologia della memoria. Poi non viene letto nel modo giusto. C’è quella scoperta di Warburg, che io ritengo essenziale, una delle cose che più mi ha dato spunti in questi ultimi anni, cioè la ricostruzione anche soggettiva della memoria. È anche una memoria culturale, che bisogna tenere ferma. La storia delle lotte di classe è una storia lunga, andrebbe ricostruita passo per passo. Quel famoso punto di vista che abbiamo elaborato a partire da «Classe operaia» dietro aveva una lunga storia di classe e il suo sbocco nelle lotte operaie, il grande salto di autoconsapevolezza e autocoscienza. Però non bisogna mai dimenticare che dietro c’era tutto quello. Allora, per rafforzare la presenza di questo punto di vista oggi nel mondo, difficile da tenere, convincere, presentare anche, bisogna porsi la questione se c’è qualcuno che si sente erede di quella storia che parte dalla rivolta degli schiavi di Spartaco (alcuni dei rivoluzionari del movimento operaio si chiamavano non a caso spartachisti), passa per le guerre dei contadini in Germania con Thomas Müntzer, poi il maledetto giugno del 1848, i comunardi, i bolscevichi. C’è tutto un filo di storia, che arriva all’irruzione della classe operaia, gli eredi di questa tradizione che rovesciano l’idea di classe subalterna. La classe operaia è la classe che non riconosce più la propria subalternità e si pone potenzialmente non solo come classe dirigente ma come classe dominante, e fa fare un salto straordinario a quella storia. Quindi, questa memoria va coltivata, raccontata, narrata. Perché viene taciuta, messa ai margini. Penso che avrebbe anche una suggestione formativa per le nuove generazioni. È un compito che ci dobbiamo porre, come interpreti di questa storia.
Lì si pone un grande problema. Questa soggettività, arrivata al culmine come classe dominante, che tenta la spallata, conquista il potere, si fa non solo partito ma anche Stato, era senza dubbio una soggettività rivoluzionaria. Qual è oggi la soggettività rivoluzionaria in campo? Bel problema. Io non ho francamente risposte in positivo, né le cerco surrettiziamente, ideologicamente, perché non serve far finta che ci sia già una soggettività rivoluzionaria solo da animare per farla emergere. Questa moltitudine è un fantasma che si aggira non so dove, in Europa sicuramente no. Bisogna fare, soprattutto voi che partecipate attivamente a queste esperienze, un’autocritica dei movimenti. Mi guardo in giro e mi dico: con quello che sta succedendo, soprattutto in Europa e qui da noi, quanti motivi di rivolta ci sarebbero. È impressionante il silenzio dei movimenti oggi. Ogni tanto esce fuori una fiammata, ad esempio per una riforma scolastica, ma sempre per ragioni futili, almeno dal nostro punto di vista. Poi si spegne ancora prima di essersi accesa. Anche queste nuove forme di lavoro «immateriale» che dovrebbero produrre un’aggregazione neo-rivoluzionaria, non si vedono. Secondo me, voi avete davanti tempi molto lunghi. Non c’è una forzatura immediata da compiere. Se fosse così sarebbe più semplice, entreremmo tutti in campo con facilità. Bisogna elaborare tutta la fase, capire come si può sviluppare.
Sicuramente non viviamo in un mondo tranquillo, stabilizzato. La stabilizzazione è stata tentata, è stata in parte raggiunta, ma poi intervengono sempre contraddizioni interne al campo del nemico che rimettono in gioco tutti gli equilibri. Lì bisogna intervenire per capire quali sono le contraddizioni, quali sono quelle che possono esplodere di più, a breve, medio e lungo termine, fare una mappa delle contraddizioni. Perché si può intervenire soltanto sulle contraddizioni. Il conflitto non si può organizzare a tavolino, bisogna vedere dove sta il punto e lì devi intervenire anche nella contingenza, cercando di sviluppare quella contraddizione fino a farla esplodere. Naturalmente c’è una grande difficoltà. Oggi le minoranze esistono ma non sono nemmeno organizzate. C’è una maggioranza sovrastante, che domina il senso comune. Il tentativo Dello spirito libero è di allargare il campo, uscire dalla stretta. Sto cercando una via di fuga da un complesso molto forte e rigido di difficoltà. In quanto rivoluzionari noi siamo intrappolati nel sistema; dobbiamo cercare come uscirne. Questa è la prima cosa. Allora, allargandolo, il discorso può avere delle conseguenze positive.
Nel suo volume Elogio della militanza Gigi Roggero ha usato un’espressione che faccio mia: dice testa nuova e cuore antico. È una cosa da tenere. Vuol dire che i pensieri devono essere nuovi, anche il vecchio marxismo fa acqua: non siamo di quelli che liquidano il vecchio Marx, ma non sta tutto lì dentro. Negli anni Sessanta, quando abbiamo fatto l’esperienza operaista, abbiamo pensato che dentro Marx ci fosse tutto quello di cui avevamo bisogno, l’apparato teorico, analitico, prospettico. Abbiamo cercato di spostarlo all’interno, ritrovando il Marx critico dell’economia politica. Oggi noi dobbiamo constatare che anche quel vestito è troppo stretto, va ampliato. Quindi, pensieri nuovi ci vogliono, anche con nuove interlocuzioni. Però, che cos’è cuore antico? È un sentire antico. Il pensare nuovo e il sentire antico. Quello che a me fa più paura è il sentire nuovo, perché è subalterno, è il nuovismo, è l’idea che tutto il nuovo è positivo. È tipico della maggioranza della sinistra, che si chiama non a caso progressista, vuol dire appunto che tutto ciò che avviene di nuovo è positivo e va assunto; e questa forma di subalternità al nuovo è parte anche della sinistra più radicale.
Io mi sono liberato dal paradigma progressista. Ho dovuto faticare per uscirne, ci sono riuscito praticando il pensiero grande conservatore. Perché loro facevano la stessa cosa che voglio fare io, la critica di questo mondo forte, violenta, decisiva. Quando i teorici della restaurazione fanno critica della rivoluzione francese, bene, io me li prendo tutti, perché la critica della rivoluzione francese è fondamentale per uscire dal paradigma progressista. La rivoluzione francese, l’illuminismo, il razionalismo, sono tutti nostri nemici: è il loro orizzonte, è il pensiero loro, non lo puoi usare diversamente, perché lo usano loro.
Per la critica della mentalità democratica
Critica del moderno e critica della democrazia vanno a braccetto, stanno una dentro l’altra. La democrazia è un prodotto della modernità. Come per il concetto di politica, anche per il concetto di democrazia io non applico mai l’aggettivo moderna. È inutile che parliamo della democrazia dei greci e dell’agorà, sono cose che non c’entrano niente con noi. Questi di cui parliamo sono prodotti del moderno e quindi vanno sottoposti allo stesso tipo di critica. Io tengo molto allo zur kritik marxiano, per la critica. Il discorso per la critica della democrazia che faccio io è ancora molto insoddisfacente, nel senso che non mi pare di essere ancora arrivato dentro. È anche quello che convince di meno, c’è una resistenza oggettiva perché oggi la mentalità democratica è dogmatica, è senso comune intellettuale. Magari a chi vive nel basso della società non gliene importa niente, ma se si sale a livello intellettuale medio si trova lo scandalo: come si può criticare la democrazia? Qui c’è la reminiscenza delle esperienze totalitarie.
A me è capitato di dire che il movimento operaio ha avuto due disgrazie: il fascismo e l’antifascismo. Noi non ci siamo resi conto il danno che nella teoria e nella pratica del movimento operaio ha provocato la mentalità antifascista. Io l’ho verificato nella pratica, frequentando la classe politica della sinistra, anche quella interna al Partito comunista, cioè quel ceto politico che si era formato nella lotta antifascista, nella Resistenza e dopo nella difesa della democrazia. Sono rimasti con l’ossessione che dietro l’angolo c’è sempre la soluzione autoritaria. È una cosa che non c’è più stata dopo il ’45, almeno qui in Europa. Quando la Terza Internazionale ha fatto la svolta, mettendo da parte il conflitto anticapitalista e dando priorità all’antifascismo, era una cosa giusta, perché in ogni fase bisogna sempre scegliere il nemico principale, quello da abbattere prima. Loro hanno capito che prima bisognava abbattere il nazi-fascismo, e poi riprendere il discorso dell’anticapitalismo. È accaduto però che avevano talmente acquisito una mentalità anti-totalitaria, perciò democratica, che poi non l’hanno più abbandonata. Il tema democratico l’avevano incorporato tutto, erano solo quello. Non riguardava semplicemente le divisioni interne, teneva insieme persone che nel partito si battevano su altri piani, la destra e la sinistra, Amendola e Ingrao, ma su questo punto la pensavano esattamente allo stesso modo. Quindi la costituzione democratica, la difesa della legalità. E si sono dimenticati che c’era la lotta di classe. A questo ha contribuito anche una parte degli anni Sessanta. Non so se avete scorto nel libro una cosa che porto avanti da parecchio, anche qui con grande incomprensione: la critica del Sessantotto. Era una lotta anti-autoritaria, contro l’autorità del padre, dello Stato, quindi oggettivamente democratica. Tutte queste cose hanno funzionato in un senso di forte stabilizzazione.
Più che una critica della democrazia io faccio una critica dei sistemi democratici, delle democrazie contemporanee, ridotte al rito elettorale. Oggi qual è il problema della crisi della democrazia, nominata anche da chi non è anti-democratico? I due termini, il démos e il krátos, cioè il popolo e il potere, sono del tutto neutralizzati. In realtà non c’è più né démos né krátos. Non c’è più popolo perché è ridotto a massa generica, manovrata attraverso la cattura del consenso. E non c’è più nemmeno potere. C’è una polemica quotidiana per cui ogni tanto spuntano fuori i poteri forti, non si è mai capito cosa sono. Magari ci fossero i poteri forti, almeno sapremmo contro chi combattere. Magari ci fosse un potere visibile, questo invece è un potere invisibile.
Il capitalismo è un sistema veramente intelligente. Il movimento operaio nel suo sforzo teorico – in questo dobbiamo ringraziare Marx perché da lì è partito – era riuscito a costruire un’intelligenza quasi pari a quella del capitale. Marx è salito ai livelli dei grandi economisti classici, è salito ai livelli di Hegel, è salito a quell’altezza, contrapponendosi al punto di vista capitalistico. Infatti con la scomparsa del movimento operaio è rimasta l’intelligenza del capitale, un’intelligenza oggettiva, e non c’è mai una cabina di comando, non c’è mai il grande vecchio che dirige le cose. Se ci fosse sarebbe più chiaro, invece ci sono delle leggi, Marx parlava delle leggi di movimento: sono queste il vero potere forte, le leggi di movimento dell’economia, del mercato, della finanza, oggi si aggiungono le leggi oggettive della comunicazione. Queste leggi oggettive manovrano e agiscono politicamente. Quindi, noi abbiamo un’intelligenza oggettiva, altrettanto potente di quella che c’era prima, e manca invece l’intelligenza soggettiva, questa è la tragedia che stiamo vivendo. Siccome io penso che la politica sia fondamentalmente un rapporto di forza, oggi è del tutto squilibrato per questa ragione: da una parte c’è l’intelligenza, dall’altra c’è la miseria intellettuale, teorica, pratica.
Il problema della critica della democrazia mette in campo quella che per me è stata una scoperta recente, degli ultimi due decenni. Ho colto un buco antropologico, in Marx stesso e poi nel marxismo. Marx non ha fatto quello che invece genialmente avevano fatto gli economisti classici. Adam Smith, per arrivare alla sua teoria economica classica, era partito dalla teoria dei sentimenti morali. Prima di diventare un economista, Smith era stato un moralista. Aveva prima costruito una morale, cioè aveva una visione antropologica, sapeva che cos’era l’uomo. Non l’uomo in generale, ma l’uomo che stava nascendo allora, dal Settecento in poi. Aveva capito che stava venendo fuori un’altra figura di essere umano, appunto l’homo œconomicus, su cui poi ha costruito tutta la sua economia politica, sulla cui scia gli sono venuti dietro tutti. Marx ha sbagliato quando, facendo la critica a Smith, ha detto che aveva parlato dell’homo œconomicus in quanto uomo in generale, quindi aveva costruito un’ideologia: no, quella non era un’ideologia, era proprio una presa d’atto realistica della situazione. L’homo œconomicus non è la forma eterna dell’essere umano, ma è la forma moderna dell’essere umano; è la forma in cui è venuto fuori dentro le strutture del capitalismo e dentro la forma umana borghese, che ha supportato le strutture del capitalismo. Io insisto sulla critica del borghese, dovremmo riprenderla. Nel libro dico che l’operaio massa non c’è più, ma c’è il borghese massa. La figura dell’homo œconomicus si è talmente generalizzata che ha preso l’intera umanità contemporanea. Siamo tutti borghesi. E noi pochi che ci opponiamo, dobbiamo partire da questa consapevolezza. L’antropologia e la ricerca antropologica moderna sono state molto forti, realistiche, noi la configuriamo attorno a questa figura dell’homo œconomicus.
Quello che io sento molto forte, che coltivo e applico, è un’antropologia pessimistica. Perché il progressismo democratico non funziona dal punto di vista dell’alternatività, dell’antagonismo, perché è tutto dentro la forma del sistema attuale? Perché ha l’illusione che ci sia l’uomo buono in un sistema cattivo. Più andate verso sinistra, più vedete crescere l’ottimismo sull’uomo. Quindi bisogna dare la parola ai cittadini, far parlare i cittadini, farli partecipare. Ma voi li conoscete questi cittadini, li avete visti in faccia, ma siete impazziti? Quando dicono che bisogna dare il voto ai sedicenni, io porterei al contrario la soglia a 25 anni, lasciamo che acquisiscano la consapevolezza del mondo. Questo discorso antropologico andrebbe ben coltivato.
A un certo punto, nella pratica politica, ho cominciato a predicare una cosa. Noi viviamo in un assetto sia istituzionale che ideologico, che si può definire liberaldemocratico. L’evoluzione istituzionale delle forme politiche recenti, moderne, è passata dal vecchio Stato liberale al nuovo Stato democratico. È stato visto come un grande progresso. In realtà lo Stato democratico non ha superato lo Stato liberale, lo ha incorporato in sé. La situazione di oggi è la fusione di liberalismo e democrazia. La vera mentalità democratica è liberaldemocratica. Quelli che coltivano la mentalità democratica sono gli stessi che vorrebbero una società più libera, che vorrebbero dare più libertà alle forze spontanee del mercato. È cioè una mentalità liberale e anche un po’ liberistica. C’era un’opzione politica da parte della sinistra – parola che faccio sempre più fatica a nominare, perché non dice più niente, bisognerebbe inventare qualche altra cosa, non mi riconosco in una cosa che si chiama sinistra. Comunque, un’operazione che si poteva fare era inserire un cuneo nel liberaldemocraticismo separando libertà e democrazia.
Nel libro c’è una critica alla democrazia, ma una forte ripresa del tema della libertà. La democrazia è organica a quella struttura oggettiva e sistema intelligente, perché presuppone una massificazione e un’omologazione. Nella soluzione liberaldemocratica quello che era l’individuo liberale diventa un individuo massa, è questa la figura. Noi viviamo in un mondo in cui tutti la pensano allo stesso modo. Io lo chiamo senso comune intellettuale di massa. È un senso comune che scende da questa fascia intermedia disastrosa di intellettualità, oggi cresciuta molto, il cosiddetto ceto medio riflessivo, quello che fa veramente opinione, e arriva alla massa più bassa del popolo. Quella è una concezione che deriva dal processo di massificazione. Rivendicazione della libertà è rivendicazione di una sfera che non può essere né aggredita né occupata dal di fuori. Molto spesso si dice che questo sistema oggettivo di potere è esclusivo, esclude. No, è inclusivo: la forza di questo potere è l’inclusione. È una potenza enorme, loro prendono tutto, non c’è niente che rimanga fuori, vogliono tutto dentro. È il tema dell’immanenza: la liberaldemocrazia è un sistema oggettivo di potere immanente, sta tutto dentro. Sbaglia Toni Negri, il fuori non c’è più, tutto viene inglobato.
Allora, ciò che nel libro ha creato maggiori perplessità, anche tra gli amici più cari, è il tema della spriritualità, dello spirito libero. Sembra un cedimento a una dimensione religiosa. Metto in conto la mia vocazione a un temperamento eremitico. Io sono un eremita lottatore, o un lottatore eremitico. Ho fatto sempre questo mestiere, ma senza mai precipitare al di là, nella dimensione religiosa di culto. Il tema della spiritualità è il tema della libertà. La cosa che può mettere in campo una resistenza è la spiritualità come interiorità. Io sento, sulla mia persona, che noi tutti i giorni siamo attaccati dall’esterno, appena giri per strada, appena accendi la televisione, è come un vento che cerca di penetrarti dentro. Allora devi avere delle difese. Questa forte interiorità, irriducibile e inattaccabile, è una potenza di difesa enorme, che consiglio a tutti: coltivate quello che avete dentro, perché è l’unica cosa che può resistere a questa aggressione dall’esterno. Loro tentato di includere anche noi, ci vogliono prendere. Quando io dico non mi prenderete mai, marco questa cosa qui: voi dentro di me non avete spazio, non ci arriverete.
Qualcuno ha letto questo libro come un manuale di resistenza, è il motivo per cui c’è questo tipo di letteratura, citazioni, esergo. Sono tutti motivi di formazione interiore per cercare di non farsi catturare. È molto importante, spirito libero vuol dire legare interiorità e libertà. Certo, c’è un limite che bisogna riconoscere: non è qualcosa di collettivo. È una ricerca che vale per ognuno di noi, ma non per noi tutti insieme per fare qualcosa. Non è detto che organizzando una nuova minoranza che abbia questa struttura non possa ripartire qualcosa, proporre cose alternative, chiamare a un nuovo tipo di conflitto e di lotta strati più consistenti che possano mettere in pericolo il nemico.
Per la critica della tecnica
È importante il tema della critica della tecnica, nel libro non è sviluppata. Il rapporto tecnica-scienza si è modificato ultimamente. Una volta la tecnica era al servizio della scienza, anche nella prima modernità che noi rivendichiamo la tecnica era in funzione delle scoperte scientifiche. Il tema oggi si è completamente rovesciato: la scienza è al servizio della tecnica, è la tecnica che comanda sulla scienza. La tecnica è un altro di quei meccanismi oggettivi che questo sistema è capace di utilizzare alla grande, è un’arma contundente fortissima. Anche qui vi è uno scivolamento da parte della mentalità della sinistra attuale. È vero che c’è una sorta di onnipotenza per cui si può fare tutto, tutto è lecito, ciò è tipico del politicamente corretto, vietato vietare. Non solo tutto si può fare, ma si deve fare tutto quello che è possibile. La manipolazione genetica della vita è un tratto fondamentale della contemporaneità. L’ho vissuto in parlamento nel dibattito assurdo sulle unioni civili, sono tutti schierati su queste cose. No, non tutti devono fare tutto. Qualsiasi desiderio diventa un diritto che rivendico e che mi deve essere dato. Se io voglio avere un figlio lo devo avere comunque, anche manipolando tutto il resto, artificializzando tutte le soluzioni naturali dell’uomo. C’è un pezzo di destra che si oppone, mentre la sinistra è tutta a schierata a favore. Paradossalmente più vai verso sinistra, più dicono che bisogna andare avanti su questa strada, non bisogna porre nessun limite. La coscienza del limite va invece posta.
La progressione tecnologica è un altro grande tema antropologico che a volte si incontra con discorsi che vengono dalla Chiesa e dalla dimensione religiosa. Questa accelerazione delle scoperte tecnologiche, sempre più forte e micidiale, mette in crisi i tempi umani della persona. Oggi vediamo che le persone non ce la fanno più a inseguire le scoperte tecnologiche, vengono una dopo l’altra, per cui il telefonino dopo un mese lo devi buttare perché ce n’è un altro con più funzioni. Ci sono i grandi personaggi che vanno per la maggiore, dalla Silicon Valley in poi, Zuckerberg e gli altri santoni miliardari. Ecco l’importanza della categoria paolina del katéchon, che dice di trattenere l’avvento dell’anticristo. L’avvento dell’anticristo oggi è proprio l’avvento illimitato della tecnica. Se l’ha detta Paolo e io la uso, che problema c’è? Per la mentalità laica sembra che citare il grande intellettuale Paolo di Tarso significhi essere ormai perduti. Dovremmo riprendere la dialettica tra eschaton e katéchon. Oggi l’escatologia, una volta che viene secolarizzata, rischia di funzionare molto all’interno dei meccanismi di crescita del sistema. Serve, perché indica un obiettivo dopo l’altro, una progressione. Il movimento operaio era molto adatto a questa cosa, al sol dell’avvenire. Lì si è un po’ esagerato, proprio per quello che dicevamo, il movimento operaio ha la storia lunga e il capitale la storia corta, il lavoro è terra e il capitale è acqua, queste cose ci dicono che non bisogna lasciare andare quello che c’è nel suo divenire oggettivo: lo devi contrastare. Arrestare il progresso non si può, però decelerarlo, trattenerlo, è un compito di governo. Bisogna far marciare il progresso più lentamente in modo che l’essere umano possa assorbirlo, per controllarlo. Ma se l’accelerazione è talmente eccessiva che la persona non può nemmeno seguirla va per conto suo, non la trattiene più nessuno, e trascina dietro di sé la stessa persona. Tutti vengono trascinati in questa deriva, che va verso il basso.
Quel grande reazionario che io amo molto, Jünger, ha teorizzato molto il ritiro nella foresta, una forma di ribellione simile a quella che noi abbiamo oggi, molto individualistica, singolarizzata. Però è la stessa condizione in cui ci si trova adesso. Un’altra coppia che andrebbe affrontata è quella sinistra-destra, è difficile da toccare perché tutti saltano sulla sedia. Oggi tutti dicono che non c’è più la distinzione tra sinistra e destra, lo dicono le persone peggiori, quelle di destra, però hanno quasi ragione. A parte che sono irriconoscibili le due posizioni.
Un’altra coppia è aristocrazia contro borghesia. Io vado dicendo una cosa che non contraddice le nostre care vecchie idee giovanili legate all’esperienza dell’operaismo: bisogna ripartire dall’alto, perché dal basso non c’è più strada verso l’alto. Bisogna ricostruire classi dirigenti, bisogna ricostruire élite. Io sono molto legato al tema delle élite. Che cos’è aristocrazia? È il governo dei migliori. Non è il governo dei pochi, quella è l’oligarchia. Allora cerchiamo di creare i migliori. Per un certo periodo è necessario. Qual è il guasto del borghese massa? Questa mentalità borghese, che è penetrata in tutti, è la forma corrente. In questa fase di pulsione anti-politica diffusa, di disorientamento politico di massa, con l’idea della sinistra di far eleggere dal popolo ogni carica, io dico sempre che direttamente dai cittadini non farei eleggere nessuno, perché verranno sicuramente eletti i peggiori.
Un compito che ci si dovrebbe porre è ricostruire questa forma di élite aristocratica. Il nemico è il borghese. Perché la mentalità aristocratica è anti-borghese, e noi dobbiamo utilizzare anche l’anti-borghesità dell’aristocrazia, così come dobbiamo utilizzare la critica grande conservatrice al progresso. Ecco perché dico una cosa che scandalizza sempre: ci sono due grandi rivoluzioni nel Novecento, la rivoluzione operaia e la rivoluzione conservatrice. Se in Germania avesse vinto la rivoluzione conservatrice, non avrebbe vinto il nazismo. Se avessero dato retta a quei grandi rivoluzionari conservatori, non ci sarebbe stato Hitler. Hitler è stato il frutto della democrazia weimariana, dell’eccesso di liberaldemocraticismo della repubblica di Weimar, che ha creato una confusione tale per cui poi è venuta fuori la soluzione totalitaria. È questo il punto da sottolineare.
Allora, anche lì c’è un problema serio da rimettere in campo: riprendere tutte le forme critiche della mentalità del borghese medio, che è l’ostacolo da superare. Non so se è possibile farlo, io lo vedo possibile soltanto se ci fosse una sostituzione di classi dirigenti. Non bisogna essere contro il popolo, noi dobbiamo ricostruire il popolo. Il popolo non è una cosa che viene da sola, il popolo è una costruzione. Se non ci fosse stata la nazione, lo Stato-nazione, non ci sarebbe stato popolo nei singoli Stati-nazione. Non è che c’era prima il popolo e poi lo Stato-nazione, no, è il contrario: prima c’è stato dall’alto Stato-nazione, poi su quella base si è costruito il popolo. Oggi bisognerebbe costruire popolo europeo, però prima bisognava costruire una struttura istituzionale politico-statuale a livello europeo. Cioè ripetere quello che era stato fatto a livello dei singoli Stati-nazione, farlo a livello sovranazionale. Bisognava cioè avere un sovra-Stato per costruire un popolo europeo: sarebbe stata una strategia tra l’altro affascinante, mobilitante, trascinando nuove generazioni. Invece, in questa maledetta sinistra c’è stata una deriva. Del resto, questa nuova costruzione non si fa con l’erasmus, mandando in giro i ragazzi a fare turismo intellettuale, non c’è nemmeno scambio di culture, ognuno va lì per scappare di casa. Queste idee bisognerebbe rimetterle in circolazione.
Bisognerebbe trovare una forma di raccordo. C’è una élite invisibile, nascosta nelle pieghe di questo mondo, bisognerebbe farla emergere, farla vedere, darle la parola. Però bisogna farlo in modo nuovo, non minoritario, non estremista. Noi che abbiamo fatto questo lungo cammino dalla grande esperienza operaista fino a oggi, abbiamo acquisito una forma di saggezza politica che io non ritrovo altrove. Lo verifico quotidianamente, anche nelle istituzioni, senti che gli altri stanno indietro, non c’è nessuno all’altezza. In qualsiasi città in cui vado trovo dei gruppi come il vostro, però non sono tra loro collegati. Bisogna inventarsi qualcosa, anche utilizzando le nuove forme di comunicazione. Oggi con questo maledetto web tutti chiacchierano, tutti mettono bocca, tutti hanno la soluzione dei problemi. Bisogna conquistare un’autonomia, il modo per dire una verità autentica.
Un’ultima cosa, sull’autenticità. La prima parte del libro è molto difficile, ha scoraggiato tanti ad andare avanti, è quella sulla lettura del libro di Luporini, sul giovane Hegel, sul destino. Però è una parte importante, perché lì c’è il grande tema dell’autentico, dell’autenticità. È il contrario di quello che c’è in giro, che è tutto non autentico, artificiale, virtuale. Lo spirito libero dovrebbe essere anche un richiamo all’autenticità del punto di vista. Noi dovremmo riprendere quella cosa che abbiamo scoperto una volta per tutte da giovani: il punto di vista parziale. Rimane come stella polare da allora fino a oggi, perché qualcosa di più parziale dell’ultimo libro non c’è. Non mi si può accusare che allora c’era il punto di vista della parzialità e adesso non c’è più. Al contrario c’è ed è molto più approfondito, è aggravato anche. Questo punto di vista della parzialità che giudica la totalità in termini critici, bisogna che abbia parola, che abbia voce, che si esprima. Farlo con un minimo di raccordo anche dal basso potrebbe essere una prima mossa pratico-politica. Più ancora che nelle grandi città, soprattutto nelle città di medie dimensioni trovi questo strato di libertà intellettuale. Bisogna trovare l’uso politico di questi strumenti della comunicazione.