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TRONTIANA: La fatica del concetto per un “pensare estremo e un agire accorto”

La realtà delle cose non è semplificabile in facili formulette da imparare a memoria. Certo, 30 giorni ha novembre, con aprile, giugno e settembre, di 28 ce n’è uno… ma ogni tanto diventa 29. Non si tratta neanche di aderire ad un’ideologia o ad un programma buono una volte per tutte.

In altro luogo mi sembra di aver detto: un pensare estremo e un agire accorto. Sono formule che spesso sono trattenute per la loro icasticità linguistica, ma poi poco specificamente pensate. Come fossero brillanti trovate letterarie. No, sono il frutto finale di un percorso di duro interno lavoro, di quella «fatica del concetto», che qualcuno ci ha raccomandato di coltivare. […] Leggo molti libri di autori contemporanei e nella maggior parte dei casi trovo un discorso che si esprime in un linguaggio che mi viene da dire inutilmente complicato. Magari c’è anche del pensiero, ma non si riesce a dirlo in modo da farsi capire. Quando accade questo è perché, secondo me, il pensiero stesso dell’autore è ancora confuso, non è ancora arrivato a chiarirsi, non è maturo. Bisognerebbe avere la pazienza di aspettare, lavorare ancora, come l’artigiano con il proprio prodotto.[1]

La teoria come la prassi vengono dal dentro, dalla riflessione più volte ruminata sullo stato presente delle cose, generale o particolare che sia. Non si agisce senza pensare prima e non si pensa se l’agire non ne costituisce l’approdo. Cos’è questo mio agire, come attuarlo, dove mi porterà? Il rapporto teoria/prassi è dato in una continua lotta intestina con stati di sovrapposizione e ribaltamenti improvvisi. Se è assodato per il Tronti di Non si può accettare, collettanea di articoli messi a stampa nel 2009, che si può continuare a pensare la rivoluzione nella consapevolezza di non poterla attualmente realizzare, è vero anche che non per questo ci si debba adagiare sul modello vincente adattando il pensiero alternativo ad un semplice riformismo tendente a migliorare le cose. Nello stesso tempo, se è possibile e necessario pensare l’estremo questo non significa che lo si possa semplicemente trasporre nell’azione. L’estremismo come malattia “infantile ma anche senile del comunismo” produce solo velleitarismo e minoritarismo “a volte inoffensivo, altre volte dannoso”. “Non si può gridare all’abbattimento del sistema, senza avere la forza, e dimostrare di averla, non dico per portare a termine, ma almeno per iniziare l’opera. Mi è anche qui capitato di dire: non si può essere antagonisti, in pochi, o si è in grado di portarsi dietro i molti, o bisogna anche qui preparare il terreno per rendere credibile nella pratica la prospettiva che ritieni giusta per sola teoria”.[2]

La necessità del pensiero estremo, dunque, non implica estremismo dell’agire, fragore di urla e innalzamento di gonfaloni variopinti ma si realizza nell’utilizzo di tutte le cartucce disponibili al pensiero per spaesare le facili formule del nemico come pure gli edifici senza fondamento dell’amico. È importante sottolineare nel pensiero trontiano quella cura della complessità del concetto che sembra una difesa dell’antinomia contro le facili sinonimie, un po’ alla stregua del pensiero dogmatico-teologico che nelle sintesi conciliari dei primi secoli cristiani tiene insieme il divino e l’umano, il mortale con l’immortale, il fallace con l’infallibile[3]. Queste antinomie sono iscritte nelle complesse relazioni sociali, tra progresso e conservazione, che, oggi, sembrano portare nel campo progressista l’idea del piccolo contadino armato di aratro che si oppone alla sperimentazione biogenetica contro un sistema che invece si conserva e autoriproduce modificando geneticamente gli organismi fino a postulare la trasformazione stessa dell’umano trasmutante nel suo post. Quale il progresso? Quale la conservazione?

“Di qui, la mia passione, assolutamente non compresa, di coltivare insieme il pensiero grande rivoluzionario e il pensiero grande conservatore. Ferruccio Masini usava l’espressione «pensare per estremi», perché conosceva bene Nietzsche e frequentava il nichilismo del Novecento. A volte – non sempre, e bisogna essere attenti e valutare caso

per caso – contro ciò che c’è e contro chi comanda qui e ora, vale più ciò che c’è stato rispetto a ciò che sta per essere”[4].

Questa è una rappresentazione sintetica capace di esplicitare i riferimenti culturali e ideologici di Mario Tronti nella sua evoluzione intellettuale. Marx per il pensare estremo ed il realismo politico – e spesso consevatore – per l’agire accorto. Un mix, certamente di alto profilo, che non ha tenuto conto delle etichette posticce. Dal Marx e dal Lenin delle origini operaiste a Machiavelli e fino ai gesuiti spagnoli, alla teologia politica e alla dottrina giuridica del nazional-socialista Carl Schmitt. Letture che hanno favorito la costruzione del pensiero politico trontiano, soprattutto nella sua fase più matura:

“Il pensare estremo l’ho imparato da Marx. Ma non solo. Anche da tutte quelle forme di pensiero incomponibili con lo stato presente, inassorbibili dall’opinione corrente, irriducibili al senso comune di massa, alternative al buon senso intellettuale. […] Io ho frequentato il filone realistico del pensiero politico moderno e la tradizione del grande pensiero conservatore. È questo che mi ha concesso di non farmi incantare dalle sirene sessantottine. E mi tiene opportunamente lontano da ogni radicalismo libertario, da ogni partecipazionismo democratico, da ogni laicismo secolarizzante”. [5]

Non si può pensare in assoluto! Il pensiero, per Tronti, è sempre pensiero immerso in una contingenza. Bisogna conoscere ed approfondire bene quelle leggi della realtà che si basano, soggettivamente ma anche oggettivamente, su cicli economici e anche su cicli politici che informano di sé il qui ed ora. Non si può prescindere da questo se non si vuole confezionare un compitino avulso dalla storia. Se il riformismo ha avuto il pregio di tener conto della congiuntura, ha avuto anche il difetto di considerala non come un risvolto temporaneo ma come un dato acquisito, un traguardo della storia. Il pensiero antagonista, al contrario, non ha visto quasi per niente la congiuntura formulando teorie eterne ed immutabili per cui “i padroni sono sempre quelli e vanno combattuti sempre allo stesso modo”.[6] Per non cadere in questi due estremismi è necessario costruire un punto di vista di parte che tenga conto quindi, in primis, del come schierarsi (gli ultimi, i lavoratori, gli emarginati, gli invisibili del sistema) e quindi del blocco di interessi con i suoi specifici bisogni, aspettative e interessi. Partire dal dato materiale e attuale, quindi non in astratto, analizzando i reali rapporti di forza in campo e i cogenti meccanismi del mondo del lavoro e della produzione e riproduzione sociale. Nello stesso tempo, per non morire di contingenza, c’è la necessità dello sforzo di costruire una visione di parte sul tutto, Welt-und-Lebensanschauung, “concezione del mondo e della vita, naturalmente, storicamente, alternativa a questo mondo e a questa vita”.[7] Nel mentre si lotta per i propri interessi di parte, dunque, c’è bisogno della costruzione di una teleologia della propria storia, una sorta di storia sacra, che sia ben impiantata nel passato ma che preveda un senso per il futuro. Una storia capace di proiettarsi nel tempo a venire e che preveda la sua, anche momentanea e sempre variante, istituzione e organizzazione, tale da poter oltrepassare la congiuntura, viverla senza rimanerne invischiati, analizzarla per proiettarne i possibili risvolti futuri.

“Questo è il motivo per cui i cosiddetti movimenti, che si propongono di aderire immediatamente alla superficie delle soggettività sociali, non hanno durata. Le forme di movimento sono tutte sempre congiunturali. Colgono il momento, ma con il momento spesso passano e si perdono. La trappola dell’ora è mortale per le forze che si propongono di cambiare il corso delle cose. […] I primi cristiani ad esempio fecero esattamente così. Passarono dalle catacombe alle chiese, iscrissero la loro religione entro i confini dati dalla struttura imperiale romana, portarono un messaggio di salvezza dentro un ordine del potere. E vinsero perché durarono. E durarono perché, come si dice nel Vangelo di Giovanni, essi erano «nel mondo», ma non «del» mondo. E, su questa base, si fecero istituzione Chiesa”.[8]

Lo abbiamo visto troppe volte anche di recente, dai forconi al francese mouvement des gilets jaunes fino all’ultimo movimento dei trattori.

Il rapporto tra pensiero e storia è fondamentale per Tronti. La storia: il passato, il presente con la sua quotidianità, i suoi meccanismi e le sue contraddizioni ed il futuro sono le coordinate da tenere sempre presenti per articolare un pensiero che voglia essere grande. La storia moderna è stata storia del concetto e del mito del progresso: un concetto messianico coniato dalla borghesia nell’età dei lumi e portata avanti con costanza fino all’estremismo del positivismo. Un concetto fatto proprio anche da Marx e dal pensiero progressista. La borghesia, e quindi il capitalismo, ha intessuto la sua ideologia e l’ha resa visione di parte ed egemonica per il mondo intero. Gli ingredienti sono stati “occidentalizzazione, modernizzazione, borghesizzazione, democratizzazione”[9]. Un progetto ancora oggi in essere e che si è fatto strada negli ultimi decenni con l’idea della guerra preventiva per l’occupazione militare degli Stati canaglia e l’instaurazione di una pace fiorente dall’imposizione della democrazia di stampo occidentale. Questo il progetto lineare dell’Occidente collettivo oggi frenato dall’irruzione nel panorama mondiale, lenta ma costante, di altre istanze ed altri progetti. Iniziando dall’Iraq per arrivare all’Afghanistan, passando dalla Libia, la costruzione del programma globalista ha cominciato a naufragare in Siria e poi ancora con il rafforzarsi del progetto di cooperazione dei BRICS e fino allo scoppio della guerra Nato-Russia in Ucraina. La visione unipolare e fluida del capitalismo occidentale viene a scontrarsi con la visione multipolare e identitaria del blocco sino-russo-indiano. Una elité di tecnocrati della globalizzazione rappresentanti la parte minoritaria e ricca del globo contro una elité di burocrati neo-statalisti ed identitari (per semplificare al massimo il discorso che meriterebbe appositi approfondimenti) rappresentanti la parte maggioritaria ed impoverita del mondo. Questa l’attualità storica da analizzare oggi trontianamente senza filtri né ideologismi, per costruire quella visione totale, ma di parte, che aggredisca contemporaneamente i meccanismi della quotidianità e quelli sistemici.

“Tra il tuo pensiero e il tuo mondo, in mezzo, c’è il tuo tempo. Con questa contingenza devi fare i conti. Spesso è

un terreno nemico. Devi attraversarlo, senza farti né eliminare né imprigionare. Se ne esci libero e vivo, è un miracolo. Il miracolo dell’esistenza sovrana”.[10] 

Una visione di parte che non può non prendere partito nella contingenza. Restare a guardare senza schierarsi è fin troppo semplice e gratificante, ti permette di non sbagliare mai e di poter ancora una volta dire: “lo avevo detto io!”. Magra consolazione per gli analisti da scrivania incapaci di pensare per agire ed agire per cambiare il mondo circostante, o almeno provarci. E qui ritorna il realismo di Tronti. Il destino proposto dal nemico di parte non è ineluttabile ma vive di una specifica volontà. Per disarmarla bisogna dotarsi di una volontà alternativa che sia in grado di tratteggiare un destino diverso e comunicarlo, renderlo significativo e addirittura vitale. Per fare questo è necessario creare il proprio armamentario di istanze interno ad alcune idee-forza, organizzarne il consenso e promuovere l’entusiasmo “delle menti e dei cuori”. Per fare questo è necessaria un’avanguardia capace di parlare ai molti e non di un’élite chiusa tra i suoi. La storia del comunismo novecentesco, afferma ancora Tronti, si è chiuso con una sonora sconfitta del socialismo reale. Che cos’è oggi sinistra? La sinistra politica della fine del novecento e dell’inizio di questo nuovo secolo è stata il tentativo di coniugare il capitalismo con la giustizia sociale, non il programma di generare un nuovo “sol dell’avvenire” visto il tramonto del tentativo bolscevico e staliniano. Bisognava dichiarare certamente fallito quel tentativo ma senza ammainare la bandiera della ricerca per scovare il nuovo mondo possibile ed alternativo all’unico mondo liberista e capitalista uscito vincitore alla caduta del muro di Berlino. Questo annichilimento della sinistra continua oggi nonostante l’annichilimento del capitalismo con le sue crisi cicliche oramai sistemiche e la distruzione dell’ambiente e dell’uomo particolarmente visibile attraverso la filigrana dei dati della disoccupazione, della povertà e non ultima della pandemia. Anche in questa contingenza storica favorevole, la cosiddetta sinistra non è stata in grado di costruire quel nuovo punto di vista di parte capace di ripartire dalle istanze degli “invisibili” per la costruzione di un nuovo scenario totale sulla vita e sul mondo.

Questo dicevamo nel nostro articolo apparso su Machina nel 2022 sul tema dell’organizzazione di nuove resistenze: “L’urgenza, dal nostro punto di vista, sta tutta nella capacità di affinare le armi teoriche che da molto tempo il corpo militante ha riposto in un cassetto. Lo definiamo, per semplicità, un lavoro dall’alto senza per questo intendere un processo verticistico e coatto. Nel mentre si attraversano orizzontalmente i territori, c’è bisogno di intraprendere un’arrampicata in verticale affinché all’attuale confusione delle lingue e delle prassi rituali, si sostituisca un linguaggio e una nuova prassi capaci di produrre discontinuità e fratture. In questa fase non occorre fermarsi nelle oasi desertiche ma occorre voltarle le spalle e, nell’attraversamento, trovare compagni di carovana e nuove soggettività”[11].

Un lavorio, una fatica del concetto, come si esprimerebbe Tronti, capace di creare finalmente questo punto di vista di parte che getti nuova luce sulla storia degli invisibili e dia loro nuove speranze sul futuro. Per far ciò è necessario indagare, senza preconcetti o tabù, le poche soggettività che oggi veramente si muovono e provano a restistere alla narrazione sistemica: bisogna attraversarle pur consci dei loro limiti e delle loro contraddizioni. Attraversarle, certo, per superarle e anticiparle così come bisogna attraversare il territorio del nemico per comprenderne la volontà prima che diventi destino.

“Di prima mattina, quando ascolto la rassegna stampa, sono costretto a recitarmi certi versi di Brecht, Stanno in una breve poesia, che porta il titolo Aus der Flucht, che Fortini traduce In fuga. E già il titolo dice tutto. Ecco i versi finali:

«accanto al letto

c’è la piccola radio a sei valvole.

Di prima mattina

giro la manopola e ascolto

i notiziari di vittoria dei miei nemici».

È una condizione che no, non si può accettare”.[12]


NOTE

[1] M.Tronti, Non si può accettare, ed. EDIESSE, Roma 2009, p. 10

[2] Ibidem, p. 16

[3] Henri De Lubac, Henri De Lubac, «Oasis», anno I, n. 2, luglio 2005, pp. 50-59: “L’appoggio datoci dal dogma, a sua volta, ci permette di rinforzare e d’allargare ciò che cominciava a suggerirci una prima riflessione sull’esperienza. L’unità non è, in alcun modo, confusione come la distinzione non è separazione. Ciò che si oppone, non è forse altrettanto congiunto, e dal più vivo dei vincoli, quello d’un mutuo appello? L’unione vera non tende a dissolvere gli uni negli altri esseri che riunisce ma a perfezionarli gli uni con gli altri. Il Tutto non è dunque “l’antipodo, ma il polo stesso della Persona”.

[4] Ibidem p. 16

[5] Ibidem, pp. 16; 26-27

[6] Ibidem, p. 18

[7] Ibidem, p. 19

[8] Ibidem, p. 20-22

[9] Ibidem, p. 25-26

[10] Ibidem, p. 16

[11] https://www.machina-deriveapprodi.com/post/qual-%C3%A8-il-punto

[12] M.Tronti, Non si può accettare, op. cit., p. 35

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