Gli ingranaggi della macchina sovrana ed i suoi modi d’essere
Quando il rappresentante è un uomo, lo stato allora è una Monarchia; quando è un’assemblea di tutti coloro che vogliono riunirsi, allora è una Democrazia o stato popolare, quando è un’assemblea di una parte soltanto, è chiamata allora una Aristocrazia[1].
Questo automa artificiale, questa macchina sovrana che è lo Stato, è costituito da parti, da ingranaggi. È composta non solo dai singoli individui che hanno rinunciato ai loro diritti e libertà naturali per la pace sociale, ma anche da comunità intermedie pubbliche o private. Le prime sono stretta emanazione dello Stato e servono come ingranaggi del potere sovrano. Le seconde, quelle private, sono stabilite dai singoli gruppi di persone che si organizzano per qualche fine. Sono regolari quelle concesse o permesse dal potere sovrano e irregolari tutte le altre. Alcune sono anche illegali perché nate nascostamente e perché perseguono fini ignoti o contro legge se non addirittura fini eversivi. Traducendo nell’oggi questo schema hobbesiano avremo le varie forme di comunità politico-sociali come quelle pubbliche (ministeri, enti, comuni, forze di polizia etc..), quelle private (commercianti, aziende, compagnie teatrali, flotte commerciali, cooperative etc..) o quelle illegali (mafie, circoli eversivi o rivoluzionari, massonerie etc..).
Se il potere sovrano è in una grande assemblea e un certo numero di uomini che fanno parte dell’assemblea, senza autorità, si consultano separatamente per cercare di guidare gli altri, si ha una fazione o cospirazione illegittima, in quanto è un sedurre fraudolentemente l’assemblea per i propri particolari interessi[2].
Non può esistere, dunque, per Hobbes, uno Stato come corpo monolitico che proceda dalla volontà sovrana della testa e fluisca senza ingorghi fino alle gambe ed ai piedi. Tutto è molto instabile e dovuto agli interessi e le volontà diverse ed intestine che si arrovellano tra le sinapsi del cervello fino agli intricati recessi delle viscere. Certo, il Leviatano nasce per donare la pace, ma pur sempre una pace in ebollizione permanente, un intrico di interessi e contro-interessi che nascono dalle passioni umane e che dalla pancia contrastano il lineare e pacifico andare della ragione. Anche in questo caso potremmo rifugiarci nel testo paolino che tratta di questo dissidio interiore alla natura dell’uomo:
Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti, io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti, acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra. Sono uno sventurato! (Rm 7,18-24).
Ribolle l’intimo dell’uomo, come potrebbe non ribollire anche l’automa artificiale che da lui prende forma ed energia? Quanto è vero anche nell’oggi quest’ultimo inciso dell’opera magna di Hobbes. Quanti circoli e circoletti elitari in giro per l’Italia, per l’Europa, per il Mondo. Circoletti che nascono alla luce del sole o che si nascondono per tirare meglio le trame del potere senza che i molti se ne accorgano. I vari G7, G20, WTO, Bilderberg, Trilaterali etc… Le varie massonerie dette “deviate”, le logge P2, le bombe di Stato, le organizzazioni eversive o quelle aventi come obiettivo il colpo di Stato. Potrà mai una rivoluzione pacificare tutto ciò? Il sistema-mondo, il sistema-uomo, questa grande pentola a pressione sempre pronta a scoppiare potrà mai essere “normalizzata” con una semplice valvola di sfogo? Quando durerà questa normalità fino alla prossima ebollizione? E se la valvola si intasasse?
Certo nella storia si sono dati momenti di deflagrazione. Nel 1789 in Francia dopo una lunga ebollizione scoppiò la Rivoluzione francese. Non una scintilla ma una lunga preparazione portò a rovesciare la monarchia, l’aristocrazia ed il clero per portare al potere la classe borghese nascente. Certamente i motivi economici addotti da Marx ne danno una lettura ma cosa dire della lunga preparazione filosofica e metafisica operata dai vari Voltaire, D’Alembert, Diderot, Condorcet con la loro Enciclopedia e tutti gli altri libelli divulgati tra le masse popolari contro le superstizioni, la religione, il fato, la provvidenza divina? Anche qui, seguendo il filo rosso della nostra indagine che indaga il ruolo della metafisica, della cultura negli accadimenti storici, nel variare delle epoche, vedremo che molto probabilmente la filosofia innovata dalle nuove idee illuministe e repubblicane portò molto più scompiglio che le classi borghesi che premevano per avere un posto al sole altrimenti occupato dalle élite al potere rappresentato dalla monarchia organizzata aristocraticamente. Venne allora la rivoluzione dei lumi, quella dell’eguaglianza, della libertà e della fratellanza, ma dopo? Ci fu Napoleone, la Restaurazione e quindi di nuovo la monarchia, l’aristocrazia, il clero.
Anche nel 1917 la pentola arrivò al suo punto di non ritorno che generò lo scoppio della rivoluzione proletaria e contadina. Anche qui preparata dalle idee socialiste utopiste e da quelle scientifiche del Moro di Treviri, che di per sé era più un filosofo che un economista. Certo esisteva il proletariato ma forse più che le condizioni di fabbrica poterono le nuove idee che chiamarono i capitalisti padroni e sfruttatori. Arrivò la rivoluzione contro la borghesia, quella del “Da ciascuno secondo le sue possibilità e a ciascuno secondo i suoi bisogni”, ma dopo? Arrivò Gorbaciov, la perestrojka e la normalizzazione del mercato. Di nuovo la borghesia al potere ed oggi quel nuovo zar, epiteto destinato a Putin e coniato dai pensatori occidentali per descrivere il suo modo autocratico di riorganizzare la Madre Russia.
Ma anche gli intermezzi storici tra l’una e l’altra fase, tra rivoluzione e normalizzazione, non hanno dato esempi di una terza via tra il caos naturale e la sovranità statale. La breve parentesi democratico-repubblicana della Rivoluzione Francese si estese nel Direttorio e nel terrore mentre dalla democrazia diretta dei Soviet maturò la dittatura del Partito e della burocrazia. Necessità storiche, certamente, eventi da leggere nella loro attualità, nel loro contesto storico e non con il senno del poi. Compresi, però, nella loro dinamicità e nei loro approdi ancora di più ci portano a ritornare all’idea da cui siamo partiti. Non esiste un approdo storico, un’età dell’oro del progresso posta in un prossimo futuro sempre di là dal venire, un cosiddetto sol dell’avvenire.
Si potrebbe passare anche qui da un esempio teologico ad uno politico per comprendere meglio. Gli avversari del Dio cristiano ne vedevano un arretramento a mano a mano che le scoperte scientifiche allargavano i loro ambiti e le loro scoperte. Nello stesso tempo non possiamo notare che anche il tempo della pace secolare, della sconfitta delle guerre e delle malattie, si allontana, come l’orizzonte, ogni volta che una nuova luce si accende nel tempio della scienza razionalista. Dai lumi ci erano state promesse libertà, uguaglianza e fratellanza e da allora, con la morte di dio, non abbiamo visto che il crescere della diseguaglianza, il diminuire della libertà e della fratellanza. Siamo appena usciti da due guerre mondiali che se ne prepara una terza, pensando solo all’Europa.
Non sussiste, non si è verificata, dunque, la profezia di quell’escatologia secolare copiata ed incollata da quella religiosa: una teologia politica appunto. Quello che rimane è la pentola a pressione della storia, che a volte progredisce, a volta regredisce e che è composta dall’eterno conflitto tra sovranità e libertà naturale, tra razionalità e passioni. Dal mix di questi ingredienti cotti nel brodo primordiale della storia, scaturiranno le dittature o le democrazie avanzate, i periodi di guerra o di pace. Non sono dati riduzionismi storici, scientifici, filosofici, religiosi. Forse questa è la vera lezione del realismo politico hobbesiano, preceduto dal pensiero di Tucidide e Machiavelli, che avrà numerosi proseliti nella storia del pensiero politico, tra i quali Carl Schmitt e Tronti.
L’utilità dello Stato e la sua ragion d’essere. Le tre forme di comunità politica e l’eccezione evangelica
Abbiamo visto precedentemente come per Hobbes esista una condizione naturale che si configura come un’esistenza libera da ogni legaccio e fondata sulla possibilità di contare sulle sue risorse, sostanze e forze. In questa condizione priva di leggi positive, l’unica possibilità di vivere un’esistenza pacifica è quella di sconfiggere tutti i pretendenti alla propria casa, alle proprie sostanze, alla propria forza lavoro. Lo sconfitto non ha altra possibilità che essere schiavo del più forte. Per evitare una tale condizione, l’uomo preferirebbe cedere parte della sua libertà ad un altro, ad un ente più elevato e più forte capace di imporre la pace. Si potrebbe chiamarlo Levitano, Comunità Politica, Democrazia, Oligarchia, Regno o Stato che la sostanza non cambierebbe affatto. La questione sta nella genesi della sovranità, quale potere sovra-umano capace di imporre la legge, il nomos, sull’anarchia naturale.
Se assumiamo lo Stato come questo grande automa artificiale, questo gigante mostruoso che assomma a sé la rappresentanza delle moltitudini superandole in grandezza e potenza, questo super-uomo formato di corpo e di anima, Hobbes dirà che:
La sovranità è l’anima dello stato, e una volta allontanata dal corpo, le membra non ricevono più il loro movimento da essa. Il fine dell’obbedienza è la protezione e ad essa, ovunque un uomo la veda, o nella propria spada o in quella di un altro, la natura applica la sua obbedienza e il suo sforzo per mantenerla[3].
L’apparato macchinico del Leviatano è mosso da un’energia psichica che coincide con la sovranità. Questo potere sovrano è generato dalla rinuncia che, per tramite di un patto o contratto, la comunità politica fa della sua libertà e di alcuni suoi diritti a favore dello Stato. Questa rinuncia è giustificata dalla speranza di ottenere una condizione vitale migliore e pacificata. In effetti l’individuo è stretto dall’obbedienza a questa sovranità fino a quando l’apparato macchinico del Leviatano effettivamente gli garantisce questa forma pacificata di vita.
L’obbligo dei sudditi verso il sovrano, si intende che dura fino a che dura il potere per il quale esso è in grado di proteggerli e non più a lungo, poiché il diritto che gli uomini hanno per natura di proteggere sé stessi, quando nessun altro può proteggerli, non può essere abbandonato con nessun patto[4].
Tre quindi sono le situazioni politiche possibili. La prima è quella di natura dove non esiste comunità politica (o Stato) e in cui ogni uomo vive nel timore che l’altro uomo possa nuocergli che si traduce in uno stato di guerra permanente.
Che la condizione di mera natura, vale a dire, di libertà assoluta, qual è quella di coloro che non sono né sovrani né sudditi, sia l’anarchia e la condizione di guerra[5].
La seconda è quella della genesi del Leviatano dove l’individuo isolato ed in guerra auspica una pacificazione rinunciando a pezzi della sua libertà e sovranità per conferirla a questo automa-artificiale chiamato Stato. Queste sono le sole due possibilità insite nel realismo politico hobbesiano. Si dà certamente al ragionamento una terza possibilità che è quella che gli individui pur non costituendo lo Stato riescano a instaurare forme di collaborazione uomo con uomo che producano a prescindere una condizione di vita non conflittuale ma pacificata. Secondo il nostro autore però, ed anche leggendo i libri di storia, non pare che questa ultima possibilità, di certo la più auspicabile, si sia mai realizzata nell’avvicendarsi dei secoli.
Il sistema anarchico basato sulla libera federazione degli individui, dunque, sarebbe stato per Hobbes pura utopia, auspicabile ma non realizzabile in alcun modo essendo l’uomo per sua natura decaduto e preda delle passioni. Riprendendo il paragrafo precedente dove si prendeva in esame l’esegesi hobbesiana intorno al primo libro di Samuele potremmo affermare che sia più fondata biblicamente, in realtà, proprio questa terza possibilità. Riprendendo in mano il libro degli Atti degli Apostoli, infatti, ritorneremmo a quei versetti che descrivono la prima comunità cristiana anche come una comunità politico-spirituale fondata sulla comunione dei beni, una sorta di comunismo ante-litteram. Le diverse interpretazioni di tali versetti diedero vita nel tempo a tante comunità-spirituali spesso bollate come eretiche e più spesso scomparse dalla storia molto rapidamente.
Tutti quelli che credevano stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le proprietà ed i beni e li distribuivano a tutti, secondo il bisogno di ciascuno (Atti 2, 44-45).
La nuova comunità inaugurata dai seguaci di Cristo dopo la sua resurrezione di fatto ritornava all’antico recuperando quella che chiamavamo nel precedente paragrafo una sorta di teocrazia diretta. In questo caso al posto dei Giudici e dei profeti c’erano gli Apostoli che fungevano da tramite tra la volontà di Dio ed il suo popolo. Il cuore escatologico che impresse di sé tutta la dottrina della Chiesa nascente, il già e non ancora che si apriva dalla resurrezione alla seconda venuta del Figlio di Dio, si gioca tutto fra questa teocrazia diretta e la scelta del popolo di Israele di dotarsi di un Re al pari di tutte le altre nazioni. Farsi guidare nell’unico spazio storico-spirituale da Dio senza se e senza ma, per fede, per mezzo dei suoi profeti o operare un sezionamento e accettare questo nella sfera dello spirituale e stabilire un vicario della divinità nella sfera materiale? La legge di Dio la domenica alla liturgia e quella umana durante il resto della settimana?
Il primo corso della comunità cristiana fa già vedere una certa tensione tra questi due poli. Tra l’obbedienza che si deve alle istituzioni “stabilite per punire i cattivi” di paolina memoria e il concetto espresso da Pietro e Giovanni davanti agli anziani di Israele che volevano impedire la loro predicazione dell’evangelo: “Giudicate voi se sia giusto dinnanzi a Dio obbedire a voi anziché a Dio”. La stessa tensione la troveremo tra la Chiesa nascente e l’Impero Romano. Da una parte la dottrina cristiana di rimanere sottomessi alle autorità costituite che proviene dall’evangelico “dare a Cesare quel che è di Cesare” e l’impossibilità di obbedire a quelle norme che mettessero in discussione i comandamenti divini. Come conciliare il comandamento di non rendere culto che all’unico Dio con la richiesta della legge imperiale di rendere culto all’Imperatore? L’unica via d’uscita era quella delle persecuzioni di questi cittadini anomali che erano i cristiani, costringerli ad accettare la legge o immolarli alle bestie nel Colosseo.
NOTE:
[1] T. Hobbes, De cive, I, 4
[2] Ibidem, XVII
[3] Ibidem, XIX, Dei diversi generi di Stato
[4] Ibidem, XXII, Dei sistemi, politici e privati
[5] Ibidem, XX, Del dominio paterno e dispotico