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SCUOLA, CULTURA E SOCIETÀ NELLA FASE POST PANDEMICA

A pochi giorni dalla ripresa delle attività scolastiche possiamo fare un bilancio dello scorso anno per comprendere non solo le generali condizioni della scuola, ma anche quanto stiano ancora pesando gli anni di emergenza COVID. La passata tornata di esami di Stato, quella dello scorso giugno, avrebbe dovuto formalmente segnare una sorta di ritorno alla normalità. In qualche modo si è cercato di archiviare la pandemia pur ammettendo tacitamente le conseguenze. Abbiamo già trattato le conseguenze di ordine economico dovute agli shock indotti dall’emergenza Covid[1], ma le ricadute sociali sono ancora difficili da quantificare. La scuola può essere una buona cartina al tornasole per misurare alcune tendenze. Va inoltre considerato che il contraccolpo pandemico ha investito un sistema, quello scolastico, ben lungi dall’essere tenace, duttile o resiliente, tanto per usare un frasario tanto caro ai tempi moderni. Si sono invece evidenziate tutte le criticità tanto del sistema scuola – sia come apparato che come sistema valoriale – quanto del sistema sociale.

Chi lavora nel settore dell’istruzione e della formazione, lamenta da anni una sorta di sostanziale inadeguatezza dell’intero sistema sotto svariati punti di vista. Pur se qui non riusciremo ad analizzare dettagliatamente la complessità delle problematiche in atto, tenteremo di evidenziare le criticità e le contraddizioni più evidenti, cercando nel contempo di capirne le origini. Analizzare un problema non può limitarsi a porre in rilievo l’epifenomeno, è necessario comprendere il perché delle criticità divenute ormai croniche.

In questa fase storica si sovrappongono contraddizioni di varia natura, generate tanto da fattori endogeni quanto da fattori esogeni. La deriva che la scuola ha intrapreso da almeno cinque o sei lustri, ha riguardato in primis l’allineamento del sistema educativo ai parametri europei; man mano che l’UE diveniva una realtà strutturata si delineavano riforme sempre più tese a fornire competenze e abilità in linea con non meglio identificate esigenze lavorative, piuttosto che sviluppare gli strumenti per acquisire conoscenza del mondo. Dai requisiti minimi da raggiungere per la promozione, alle medie dei primi anni ‘90 si è giunti all’accozzaglia di competenze e abilità che dovrebbero, in teoria, forgiare lavoratori con il minimo bagaglio culturale per soddisfare un mansionario lavorativo sempre più flessibile e mutevole. 

Già in questo si evince la contraddizione più grossolana. Ossia in un mondo del lavoro che premia la flessibilità estrema – secondo la quale si può tranquillamente passare dalla catena di montaggio al cantiere, transitando per la cucina di un ristorante, un call center o sui pedali di una bicicletta da  rider – non si capisce quali siano le competenze specifiche necessarie. Il fatto è che da tali mansioni ci passano, indistintamente, dai diplomati ai laureati. Se quindi le esigenze del mercato del lavoro, dettate da un concetto di competitività assai più legato al contenimento dei costi che al valore aggiunto dei prodotti (siano essi merci o servizi).  Comprendiamo quindi che le esigenze del mercato del lavoro sono così mutevoli che, se la scuola deve in primis sfornare lavoratori o futuri professionisti, è assai evidente che questa sarà sempre due o tre passi indietro rispetto ai desiderata del suddetto mercato. Il mantra della scuola che prepara al lavoro fa a cazzotti con la scuola che insegna a stare al mondo e a saperlo interpretare, ma è quello che ormai va per la maggiore. Sul piano della professionalizzazione la scuola è destinata a perdere, da qui l’esigenza di flessibilità e riforme sempre più incomprensibili. 

Va poi fatto notare che molte delle riforme scolastiche erano in parte un modo per far propaganda elettorale a buon mercato, cambiando tutto per non cambiare nulla, ma in parte vi era una risposta alle incalzanti richieste di un neoliberismo che pian piano stava invadendo il dibattito socio-politico. Da qui l’atteggiamento pilatesco di molti ministri nel camuffare le modifiche strutturali della scuola sotto tonnellate di fanfaluche. L’apoteosi si è toccata con la “buona scuola” renziana, i cui effetti sono stati quelli di fornire stagisti a costo zero,  apprendisti a studi professionali e aziende spesso di piccolo cabotaggio. Una sorta di sussidio in “natura” che ha però lasciato sul terreno più di una vita.

Ma nel mentre si tentava di “nutrire” il mercato del lavoro con figure sempre più precarie, calava la scure dell’austerity su tutto il comparto pubblico, scuola inclusa. Tagli orizzontali su tutto quello che poteva essere tagliato senza ovviamente rimuovere gli annosi sprechi reali del sistema, preferendo incidere sui tagli al personale, l’accorpamento degli istituti, il blocco del turnover per gli amministrativi, ecc. Tutto ciò in aperta contraddizione con quanto introdotto dalle riforme precedenti e ovviamente seppellito sotto la retorica dell’ottimizzazione delle risorse e della competitività (senza investimenti sic!).

Morale della favola, sempre più precari e continuità didattica inesistente il che si riflette inevitabilmente sulla qualità dell’insegnamento. Insegnamento che pur essendosi affrancato dalla rigidità dei programmi ministeriali si struttura, come già accennato, su un nugolo di abilità e competenze, sempre più orientate al digitale o sempre più simili ad un pulviscolo di atomi di conoscenza spesso slegati tra loro. In aggiunta a ciò c’è la questione che molto spesso l’insegnamento assume il valore di un ripiego, un porto più o meno stabile contro le angherie e la mutevolezza del mercato del lavoro. Ma se in alcuni casi è un parcheggio per anime erranti, i problemi non sono solo per i docenti ma anche per gli allievi. Se da un lato c’è un accontentarsi di un lavoro che tutto sommato ancora offre qualche vantaggio, dall’altro l’insegnamento se preso come un semplice mestiere non soddisfa né chi lo svolge né tantomeno chi ne fruisce. Da qui si può comprendere, seppur per sommi capi, alcune delle criticità strutturali della scuola.

Dall’altro versante ci sono la società e le nuove generazioni che vivono di effimere certezze o abissali incognite. Famiglie che sembrano semplicemente condividere lo stesso spazio domestico ma che appaiono più unite da un rapporto di coinquilinaggio e interdipendenza più che da legami affettivi. La parte genitoriale deve dedicare il poco tempo residuo ad un rapporto con la progenie che diventa in alcuni casi una sorta di carosello di monologhi, monadi in perenne incomprensione reciproca. Dal canto loro le nuove generazioni si ritrovano in una fase storica complessa e difficile, nella quale si sono completamente disarticolate le permanenze sistemico-culturali che hanno sostenuto la generazione dei genitori e dei nonni. Una sorta di liturgia sociale che poteva apparire limitante: la scuola, la formazione, il lavoro e mettere su casa. Giusta o sbagliata era comunque una certezza, che poteva essere accettata o rifiutata, con la quale misurarsi, o contro la quale scagliarsi. Oggi quel processo non ha alcun senso se non sopravvivere come laconico mantra che non serve neanche più come esempio esistenziale dal momento che sembra essere qualcosa di relegato al passato. 

Piccolo esempio: le sit-com non sono più sullo stile “The Jefferson”, “Una famiglia in blue jeans” o “Happy days”; si è passati a storie di coinquilini, gente che arriva dai quattro angoli del pianeta e che condivide la propria precaria esistenza in perenne equilibrio col prossimo e col mondo. Modelli completamente antitetici nel giro di un paio di generazioni. Le sit-com hanno sempre restituito l’immagine di una specifica tendenza, fornendo nel contempo una traccia, se non proprio un modello, non è quindi un azzardo ricorrervi come esemplificazione del target medio sociale. Ma fuor di metafora, è chiaro che le nuove generazioni devono fare i conti fin da subito con il concetto di precarietà, ammantato di parole più “cool” come flessibilità o dinamicità e dimenticarsi dei trattamenti contrattuali dei loro genitori o forse dei loro nonni, in quanto espressione di un passato che va superato. Troppo statico e tradizionalista, troppo poco innovativo, quasi soffocante.

Presi tra l’incudine di un passato che non gli appartiene e il martello di un futuro che non riescono ad immaginare, le nuove generazioni restano schiacciate nel presente. Un presente che non è più il prodotto storico del passato e quindi non agisce più da supporto per gli eventi futuri. Si presenta come un qui ed ora nel quale soddisfare tutte le esigenze che si presentano. Il domani è un concetto legato a qualcosa da fare non più a ciò che si vorrebbe essere. In tutto ciò la scuola non ha una sua identità, né come istituzione, né come ambiente formativo, né tantomeno come palestra di vita. Come istituzione è fallita da tempo in quanto è venuta meno al principio di entità istituita con una sua struttura etica, deontologica e normativa. Discutibile senz’altro in quanto istituzione soverchiante e impositiva, ma tant’è che oggi non è più neanche questo. Non è stata surclassata da un’impostazione di scuola più democratica o di tipo libertario, è semplicemente un simulacro sempre più diafano e decadente di una presunta istituzionalità, in balia di tribunali amministrativi e civili. Territorio di caccia per avvocati di ogni risma, minacciata da ricorsi di ogni tipo e sbattuta sui giornali per le più disparate motivazioni: questa non è più un’istituzione monolitica ma un brulicante teatrino.

La scuola come ambiente formativo scricchiola e sbanda, strattonata da un lato dal mercato del lavoro e dall’altra da indirizzi cangianti e caduchi figli della propaganda del governo di turno. Le ore di lezione sono sistematicamente interrotte da attività “formative” di ogni genere, che vanno a rimpolpare un mercato di progetti e progettini che tengono in vita associazioni di ogni stampo e aziendine di ogni tipo, quando non sono vere e proprie attività di propaganda delle forze armate che prospettano carriere remunerative al servizio del Paese.

Come palestra di vita, negli ultimi trent’anni la scuola non allena più a nulla. Tutto è ovattato; un’immensa comfort zone nella quale si trattano i discenti come porcellane fragili da un lato e come numeri e dati statistici dall’altro, senza per questo che le statistiche scolastiche servano a proporre cambiamenti significativi. Al più, attraverso le prove invalsi, si stilano le classifiche dei somari a livello nazionale ed europeo.

Note:

[1] Alcuni aspetti di tali effetti sono stati affrontati recentemente dalla redazione di Malanova all’interno del saggio Inflazione: ovvero quando la razionalità del mercato elimina i più deboli pubblicato in due separati interventi. Per chi volesse approfondire, questi sono i link:

INFLAZIONE: OVVERO QUANDO LA RAZIONALITÀ DEL MERCATO ELIMINA I PIÙ DEBOLI (I)

INFLAZIONE: OVVERO QUANDO LA RAZIONALITÀ DEL MERCATO ELIMINA I PIÙ DEBOLI (II)

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