Militanza e capitale all’epoca delle post ideologie
1. Come spesso è accaduto in passato anche oggi ci troviamo di fronte a un processo violento di pura forza capitalistica: non è soltanto un atto di espropriazione di materie prime, terre, foreste e acqua, ma un vero e proprio meccanismo di accumulation by dispossession, per dirla con David Harvey (cfr. D. Harvey, La guerra perpetua, analisi del nuovo imperialismo, Milano, Il Saggiatore, 2006), un saccheggio che si spinge su tutto il valorizzabile, finanche su sementi e organismi viventi. Per quanto la traduzione italiana − accumulazione per espropriazione − del paradigma di Harvey non renda alla perfezione la modalità con la quale si svolge questa forma di accumulazione, il concetto di dispossession rimanda senz’altro a quelli di spoliazione e spossessamento (come, ad esempio, quello che la Dieta renana impose nel 1842 con la legge contro i furti di legna e aspramente criticata da Marx nella «Rheinische Zeitung») come atto violento con il quale il capitale esercita la sua egemonia di classe. Un atto talmente violento che riesce a depauperare irrimediabilmente un territorio e a rompere i legami sociali e gli interessi collettivi di una comunità facendo sì che emergano gli elementi necessari, seppur non sufficienti, per caratterizzare fronti di resistenza e conflittualità. Si tratta di un processo di deterritorializzazione, dell’espianto di una struttura di rapporti sociali che innesta le dinamiche proprie del capitalismo (riterritorializzazione per dirla con Deleuze e Guattari). La favola del progresso fa il paio con la competizione fra territori alla quale è stata estirpata tutta l’eticità del gareggiare per migliorare se stessi, lasciando un significato vago di concorrenzialità attraverso cui far passare ogni tipo di intervento sul territorio come unica possibilità per non essere tagliati fuori dai giochi. Ma di quali giochi si tratti è difficile stabilirlo, visti gli esiti finora ottenuti con mega cantieri e grossi appalti.
Così appaiono del tutto evidenti i nessi tra le cosiddette grandi opere e le tanto volute opere compensative: interventi funzionali (seppure su scale differenti) alla proprietarizzazione di un territorio mediante l’uso della violenza spossessante. Un’offensiva sistematica accompagnata da un progressivo depotenziamento e assorbimento capitalistico della funzione di democrazia deliberativa assolta in passato (e oggi sempre meno) dai consigli comunali che garantiva un equilibrio tra interessi particolari e collettivi in una chiave interpretativa sempre tesa a un non meglio definito “sviluppo” e sempre più allacciata alla sacralità della proprietà privata.
Non è altro che l’esito di quel meccanismo di spossessamento violento cui si accennava all’inizio che, da una parte, spoglia le identità comunitarie e, dall’altra, dovrebbe creare i presupposti per scenari rivoluzionari che oggi fatichiamo a cogliere e a comprendere.
Forse sono altri i parametri che dovrebbero essere adottati per interpretare la fase storica nella quale stiamo annaspando. Sicuramente l’elaborazione teorica e le analisi di certa parte dell’intellettualità di sinistra non sono riuscite, negli ultimi trent’anni almeno, a scalfire la superficie del problema, in un continuo ondeggiare tra la costruzione del consenso a mezzo di narrazioni e quella di un nemico creato ad hoc verso cui indirizzare battaglie di scopo, perse le quali c’era solo da trovare un plausibile responsabile per il fallimento, ma sempre e comunque altro da sé.
Senza voler enfatizzare alcunché o sminuire la portata delle molteplici esperienze provenienti dai territori, resta il nodo irrisolto delle identità comunitarie e territoriali che, da volàno insurrezionale, spesso diventano freno alla capacità di travalicare gli aspetti contingenti e di estendere la conflittualità su un piano più generale e più compiutamente antisistema e anticapitalista. Per fare ciò, il piano dell’agire militante deve rompere il rapporto dicotomico tra crescita economica ed emancipazione sociale, spiazzando la contrapposizione tra modernità e antimodernità, per individuare nello sviluppo capitalistico le sue criticità immanenti e la possibilità della rottura rivoluzionaria. Cosa che oggi sembra evaporata fin nelle sue istanze più elementari, a causa di un progressivo e inesorabile processo di sussunzione fin dentro le roccaforti dei movimenti.
Le lotte contro lo sfruttamento e lo spossessamento capitalistico ci indicano la centralità della riappropriazione della ricchezza sociale prodotta e dell’autonomia del lavoro vivo e non la conservazione di uno stato ancestrale, naturistico e neo-identitario o il ritorno ad esso. Posizioni neo-contadiniste o primitiviste indicano (nonostante la genuinità di chi le adotta) una miopia nei confronti dell’incedere tecnico, pur proponendosi come rifiuto dello status quo. Chi non si abbandona ai retropensieri o alle fughe dalla realtà rischia di restare schiavo di una narrazione forse ancora peggiore. Il ripiegamento sulla responsabilizzazione individuale rispetto alla crisi in atto presta il fianco alla narrazione imperante che, non potendo colpevolizzare il modo di riproduzione capitalista, addossa la responsabilità a chi, per mancanza di mezzi, guida un vecchio macinino inquinante o a chi si scalda a legna.
Spesso osserviamo che il ruolo dei militanti resta ambiguo e contraddittorio: se la pratica antagonista si bunkerizza in gruppi, comitati e controgruppi, non si fa altro che riprodurre il meccanismo dell’identificazione territoriale in sostituzione dell’altra identificazione necessaria, quella di classe, senza la quale, alla lunga, si produce autoreferenzialità, impotenza politica e autoesaltazione comunitaria, con il paradosso di mettere al centro del proprio agire il gruppo di appartenenza e non la composizione di classe.
Com’è possibile risolvere l’equazione dell’identità comunitaria agendo sul diritto all’esistenza, sulle ambivalenze della resistenza e sulla rivoluzione? Facendo leva su quelle esperienze nelle quali si sta tentando di esprimere il diritto collettivo ad autodeterminarsi contro la violenza espropriatrice del capitale?
Diventa importante il tipo di soggettività che si va formando, sì, nelle lotte territoriali, ma specificatamente all’interno del complesso rapporto che intercorre tra la capacità di anticipare una tendenza e la produzione di una rottura che deve necessariamente essere sistemica e strutturale. Non una semplice incrinatura strategica per ottenere qualche vantaggio sul piano materiale. Un processo di completa disarticolazione del sistema, all’interno del quale non forgiare nuovi linguaggi, meta-dottrine o modi originali per incassare sconfitte dai nemici storici. Semmai, la maturazione di una contro-soggettività che non sia il risultato della linearità del processo, ma si ponga come rottura con il nemico di classe (e contro noi stessi). Senza una costruzione consapevole del piano organizzativo, non afferreremo mai le occasioni di attivazione dei processi di rottura. Questo è possibile solo se la necessaria rigidità del punto di vista di classe viene articolata e combinata con la flessibilità della tattica, per agire quello che c’è su un territorio senza però rinunciare a un suo cambiamento. Si pone quindi come altrettanto necessaria la capacità di prevedere l’evoluzione di un territorio, quali possano essere le mosse attraverso le quali i grossi interessi speculativi ambiscono a massimizzare i loro profitti devastando l’integrità territoriale, declinabile nella sua compagine sociale, economica, politica ed ecologica.
2. Le cose stanno andando diversamente. Il mantra della nostra contemporaneità si basa sulla falsa ipotesi che se il modello capitalista è l’unico possibile, allora non c’è altro da fare che renderlo “più umano” e “più etico” riformandolo laddove necessario, ma nulla di più. Persino i partiti continueranno, con una certa mal dissimulata vergogna, la storia delle grandi organizzazioni social-comuniste. Cambieranno nome più volte (facendo progressivamente scomparire termini incresciosi − la C di comunista − e simboli ormai impresentabili − la falce e il martello − seguendo le orme del Democratic Party a stelle e strisce), uniformandosi alla litania collettiva, ponendo il libero mercato come unico campo d’azione, magari da “imbrigliare” con molta cautela attraverso qualche espediente legislativo. Persino la Cina “comunista” nel 2001 entrerà nel WTO, dando l’avvio a un capitalismo statale ibridato e autoritario surclassando lo storico modello occidentale-statunitense.
Nessuna possibilità di critica allora. La politica, una volta venute meno le ideologie massimaliste – o i grandi metaracconti – e l’equilibrio mondiale dei grandi blocchi, si è palesata per quello che è, il vassallo del potere, ora strettamente detenuto dalla tecnica finanziaria e influenzato dalla schizofrenica volontà dei mercati. Non c’è nulla da rivoluzionare, c’è solo la necessità di gestire il flusso della storia attraverso le ricette globali del capitale che ha provato, almeno in Europa, a coniugare la libertà speculativa dei mercati con la garanzia dei capitali investiti e con gli strumenti dell’austerity come il pareggio di bilancio. Tutto è aziendalizzato. Tutto schematizzato in un’immensa “partita doppia” di dare e avere. Fiscal compact, pareggio di bilancio e patto di stabilità hanno progressivamente impoverito le casse degli enti pubblici e massacrato i servizi, in nome della libera concorrenza e del rinnovamento delle amministrazioni. Una macelleria sociale portata avanti dalla logica del puro tecnicismo economico-finanziario.
Nel mondo normalizzato del dopo guerra fredda, segnato dall’idea di una postmodernità che nega la necessità di visioni utopiche, tacciate di ideologismo, il conflitto di classe, agito da soggettività antagoniste, lascia il posto a una vertenzialità diffusa. Una pseudo-conflittualità basata su rivendicazioni spesso sterili e, anche se multiforme, priva di una reale soggettività autonoma, senza un programma e un approdo, liberamente fluttuante tra una lotta contro questo o quello, senza una visione capace di cogliere le profonde contraddizioni del sistema e collegare le varie stagioni di lotta all’interno di una visione organica. Bisogna sostenere tutti, le aziende in primis che dovranno tornare a produrre così da fornire nuovo lavoro. È un grosso problema ristabilire un rapporto tra operaio e capitalista se entrambi sembrano stare dalla stessa parte per resistere ai capricci dei mercati. È altrettanto difficile riconoscersi e identificarsi come soggetto sfruttato all’interno del sistema di riproduzione capitalista se passa l’esigenza di essere “imprenditori di se stessi”, un modo politicamente corretto di definire la forza lavoro con partita iva, trattata peggio degli operai a contratto. Siamo tutti sulla stessa barca, certo, ma c’è chi sta ai remi e chi prende il sole. Non importa se del comparto produttivo fanno parte quei soggetti che hanno continuato a guadagnare abbondantemente all’interno di ogni crisi. Non importa che alcuni spicchi di popolazione (poco più dell’1%) godano o abbiano accesso a circa il 90% delle risorse e delle ricchezze mondiali. Siamo tutti sulla stessa barca.
I movimenti di protesta, più o meno spontanei e più o meno organizzati a tavolino (sardine, forconi e gilet arancioni appartengono al secondo gruppo), si scagliano contro l’oligarchia politica solo per rivendicare onestà e pulizia, pongono delle domande, segnalano sofferenze, quasi mai però organizzano le risposte; le aspettano invece dai governi, dalla classe dominante, da un ceto politico che, sperano, sia finalmente nuovo e rinnovato. Si tratta del tentativo di formare una domanda fittizia alla quale un soggetto politico possa fornire una risposta. La protesta non diventa altro-da-sé, non si trasforma in critica immanente dell’economia politica, in quanto ha perso la capacità di individuare il luogo delle contraddizioni, di stare dentro le ambivalenze del capitale per costruire rapporti di forza capaci di rompere lo schema produttivo e riproduttivo del capitalismo. Così accade per i movimenti di lotta su specifiche questioni, come ad esempio le crisi aziendali, la precarizzazione del lavoro, le riforme di settore; oppure su temi più generali, come la difesa dell’ambiente, l’antirazzismo o le questioni di genere. Queste forme di movimento possono prodursi spontaneamente o meno, intercettando una parte dei settori popolari sulla base di una protesta che riguarda un tema specifico (cfr. D. Giacchetti, Avanguardie, 6 luglio 2020, reperibile al seguente URL: https://commonware.org/formazione/avanguardie). Uno dei più recenti esempi è costituito dai gilet gialli in Francia o dalla sommossa antirazzista negli Stati Uniti. Anche il “movimento” italiano, in preda a una crisi depressiva acuta, si muove sul terreno delle piccole vertenzialità e sul gioco di un’effimera lotta all’egemonia tra aree politiche, in fase di evaporazione, riesumando esperienze e pratiche dal passato, incapaci di esplorare appieno le contraddizioni del moderno proletariato, nonché di individuare le nuove possibili linee di tendenza del modo di produzione capitalistico. O, peggio, tentando maldestramente operazioni di import e reimpianto di ricette rivoluzionarie da altri territori, spesso senza neanche porsi una domanda circa il contesto che le ha generate.
Queste visioni di cambiamento fanno il paio con altre, ancora più miopi, le quali non solo si fermano alla superficie, ma inneggiano a un non meglio definito cambiamento, rivendicando semplicemente efficienza amministrativa, amministratori non corrotti e politici meno attaccati alla poltrona. Il tacito assenso al sistema esistente appare chiaro ed è francamente disarmante. Il proliferare di liste “pulite” e “oneste” a livello locale o di un movimento dalle “mani pulite” a livello nazionale, è emblematico di un modus operandi, quello degli outsider, che, con appositi eventi mediatici (i vaffa-day, per esempio), danno il benservito ai vecchi burocrati. Tutto questo ha preso il posto dei vecchi e tradizionali partiti. È nata così la stagione delle liste civiche o dei “movimenti” che promettono di governare meglio e a favore delle esigenze dei più. Nessuna critica sistemica, nessuna nuova idea sociale, nulla da rivoluzionare, solo tutto da migliorare.
Anche a livello locale, molti cascami di movimento imboccano la via elettorale soprattutto perché vedono esaurirsi un ciclo di lotte durato decenni che non è riuscito a esprimersi con soggettività ampie e radicate. Si sono quindi fatte strada alcune pratiche di ripiego: «visto che il potere è sordo, prendiamo noi il potere», «invece di mediare con i corrotti, andiamo noi al potere». Un surrogato di contropotere che è figlio della frustrazione e non dell’eccedenza. Una rinuncia de facto al cambiamento di paradigma attraverso le forzature conflittuali: grandi assembramenti per mostrare i muscoli all’interno del movimento antagonista in una smania egemonica da cani randagi e grandi cortei variopinti che hanno portato in piazza tutto e il contrario di tutto, in una moltitudine destrutturata che somiglia sempre più a una sommatoria di vertenze. Di stagione in stagione, tra autunni sempre più tiepidi e minestre riscaldate, la frustrazione ha insidiato le analisi fino al collasso finale e alla fuga verso le urne. Il tutto nella medesima triste convinzione che basti cambiare il pilota per far funzionare al meglio la macchina e indirizzarla verso i lidi sperati, senza approfondire il discorso sui meccanismi e le regole interne che costringono la macchina sugli stessi binari, a prescindere dal macchinista. Si apre la stagione delle “giunte di movimento” che spesso cedono sotto il peso di comuni che versano in uno stato comatoso o in dissesto. Fornendo, per altro, un assist ai politicanti di lungo corso, che attendono al varco giunte digiune di burocrazia e inconsapevoli degli equilibri interni all’amministrazione, buone intenzioni che non possono ambire ad altro che a un colossale fallimento.
3. Mentre l’analisi capitalistica avanza ed è conscia dei propri obiettivi, non si dà una contro-analisi cosciente e diffusa nel corpo antagonista. Ondeggiamo nell’indecisione tra un movimentismo stantio e la “svolta partitica”, tra il rifiuto dell’organizzazione formale e lo spontaneismo informale (come se ci fossero reali alternative all’organizzazione), tra la melensa retorica sorniona dell’a-partitismo radicale e acritico e la disperazione cosmica che conduce a formare liste civiche anche per presentarsi alle elezioni condominiali.
Questo spinge alla proliferazione di contenitori/sigle − quasi sempre corpuscolari − più o meno organizzati, ma che quasi mai riescono a farsi coscienza collettiva. Si promuovono, con molta enfasi, “nuovi” percorsi politici per poi capire che, fin dall’inizio, si mirava al partitino o alla listarella elettorale, lasciando intendere che il partito in sé sia soltanto espressione della questua impietosa del consenso elettorale e non organizzazione operante all’interno del conflitto di classe.
Anche ciò che produce il movimento è figlio della stessa logica: percorsi che provano a unire a freddo il ceto politico militante facendo ricorso alla piazza e spesso a un’estetica del conflitto priva quasi sempre di soggetti di classe. Si organizzano manifestazioni “nazionali” che interessano poche migliaia di persone in giro per la Penisola. In un contesto del genere la mobilitazione fornisce lo spunto più appetibile per la policromia narrativa, per solleticare l’immaginario e per costruirci attorno aspettative che non saranno mantenute. Ed è quasi una conseguenza logica, visti i tempi e la progressiva sudditanza alle leggi della comunicazione, che si debba accumulare quantitativamente in chiave di resa mediatica dell’evento. Dal sottobosco spontaneista escono creature strane che propongono un discorso condivisibile, quello del boicottaggio e del sabotaggio dei protagonisti dell’aggressione capitalista, all’interno di azioni che ben poco disturbano e sabotano quei soggetti, ma che finiscono per danneggiarne altri. Il problema che gli “altri” sono, da un lato, chi ha scommesso sulla tenuta egemonica di movimento, dall’altro, una massa brulicante di soggetti dalle letture stridenti e contrastanti che azzerano le loro differenze dietro a uno striscione comune. Nel conteggio manca l’alterità più autorevole, quella cui dovrebbe essere destinata tutta la retorica “mobilitazionista”, ossia la sempre più strana, e apparentemente incomprensibile, società civile che dovrebbe, nella mente di qualcuno, ritrovare forza e sicurezza per scendere in piazza e divenire parte attiva nelle mobilitazioni. Abbiamo a che fare con un’enorme giustapposizione di individualità che non crea organicità, ma si limita ad aggregare momentaneamente, a fornire numeri utili ad accumulare attenzione che ognuno tenta di spendere come meglio crede.
Così facendo, di vertenza in vertenza e di sconfitta in sconfitta, si tenta di raggrumare attorno a quelle realtà militanti residue, o resistenti alle intemperie della post ideologia, un percorso politico che possa infiammare la prateria, ma che di fondo serve unicamente ad autoconservarsi. Un meccanismo che contrappone i diversi tentativi di percorsi unitari nazionali ponendoli l’uno contro l’altro nel tentativo grottesco di esercitare un’egemonia su un soggetto del conflitto che rimane solo nelle fantasie dei militanti. Percorsi che vorrebbero promuovere la partecipazione che oggi, ancor più durante la pandemia, resta un miraggio e che diviene immediatamente pantomima sterile o protesta spontanea e disarticolata: la via di mezzo si perde tra le pieghe del web sciogliendosi in varie correnti traboccanti di rivendicazioni e ipotesi per un mondo migliore.
La nostra critica − che è sempre autocritica − va al cuore di questa situazione. Bisognerebbe fare una volta per tutte i conti con la nostra morte, la nostra inconsistenza. Solo così, autorappresentandoci come minimali e coscienti della nostra impercettibilità sociale, potremmo avviare una nuova fase senza pensare nemmeno per un attimo a dimostrazioni di piazza o elettorali. Per fare ciò dovremmo ammettere di essere meno che inconsistenti, piuttosto sussunti dalla stessa logica che vorremmo abbattere. La logica della massimizzazione dell’evento ha surclassato il lento lavoro nei territori, un lavoro sottotraccia che dovrebbe riconnettere parti sfilacciate di tessuto sociale, ma che non ha la stessa evidenza mediatica di un gesto esteticamente eclatante qual è un presidio, un sit-in. Se il fine è quello di ottenere la massima visibilità con il minimo sforzo, allora questo processo corre sugli stessi binari del sistema che ci soverchia, solo che si limita a rincorrerlo, arrivando sempre dopo, molto dopo.
Se si crede che la rete sia il solo campo di battaglia che surroga la materialità della miseria, allora c’è qualcosa che non va. Basta solo pensare, molto banalmente, all’impossibilità di accesso al web per consistenti porzioni di società, per età o per mancanza di mezzi; anche quando fosse accessibile, rimarrebbe uno strumento che risuona delle abitudini o delle opinioni di chi lo usa che lo indurrebbe a frequentare solo determinate aree di informazione. La materialità delle necessità non può trovare l’unica risposta nel web. Ammettere la comodità del web in opposizione alla necessità di investire tempo ed energie nella vita reale sarebbe già un passo avanti.
Toccherebbe mettere un punto e andare a capo per riprendere le fila del discorso e sbrogliare una matassa fin troppo ingarbugliata. Eppure non mancherebbero analisi e fini pensatori. Questo il punto. Sciogliere tutto l’esistente all’interno di una sana e benefica critica a tutto tondo del nostro passato, recente o meno che sia. Rintracciare quei fili nascosti dalla polvere di una memoria che si fa sempre più celebrativa e sempre meno sapere collettivo. Con le spalle al futuro, uscire dal piano della pura rivendicazione e capire come fare per poter aggirare l’ostacolo della questua al potere: rivendicare qualcosa senza un vero peso sociale, senza essere autentico contropotere − qualitativo ancor prima che quantitativo − si riduce alla sciarada del gesto plastico, dell’azione individuale.
Non possiamo farci trovare impreparati trastullandoci dove il capitale permette di pascolare liberamente; non possiamo vivere di piccole vertenzialità in una situazione di sostanziale difesa del poco che è rimasto. Da qui la nostra critica profonda alla deriva sindacale dell’antagonismo, al ripiego vertenziale, dove i lavoratori diventano massa di manovra per interessi altrui.
Mentre chiediamo il contratto nazionale dei riders, non ci accorgiamo che le grandi multinazionali stanno già automatizzando i processi produttivi tramite l’implementazione di sistemi di controllo sempre più complessi e sofisticati, capaci di far espletare alle macchine mansioni che fino a poco tempo fa era impossibile chiedere loro. Mentre pretendiamo migliori condizioni per i lavoratori dei call center, non ci accorgiamo che molte aziende hanno già sviluppato software capaci di rispondere alle esigenze degli utenti, quasi come un operatore umano e forse anche meglio visto che non deve fare pause o andare al bagno. Mentre scioperiamo davanti ai magazzini di Amazon, trascuriamo il fatto che presto molti di quei lavori saranno superflui grazie a capannoni totalmente automatizzati.
Cosa significa oggi la proprietà privata di fronte all’Internet of Things, alla robotizzazione, alle reti neurali e all’intelligenza artificiale in genere? Che cosa significa oggi la riappropriazione e la socializzazione dei mezzi di produzione? Come riappropriarsi e distribuire la massa di ricchezza e di prodotti in circolazione? Quale orario di lavoro a parità di salario vista l’impennata della produttività umana? È possibile ripensare al rifiuto del lavoro? Quale produzione rispetto alla crisi climatica e al disastro ecologico in corso?
È certo che i lavoratori sarebbero contenti di avere qualche giorno in più di ferie, qualche centinaio di euro in più di salario e qualche ora in meno da lavorare. Ma su quale piano poniamo l’equa distribuzione, la cosiddetta “redistribuzione”? Su quello dello sfruttamento? Su quello tra le classi in lotta? La redistribuzione è necessaria per uscire dal capitalismo o per migliorarlo?
Ma se sostenessimo che, al livello attuale di sviluppo, potremmo lavorare tutti poche ore al giorno e avere salari più che dignitosi, delegando il lavoro schiavo agli automi e liberando la nostra creatività e il nostro tempo per fare poesia, sport o quello che desideriamo? E se osassimo di più asserendo che oggi, checché ne dica la nostra Costituzione, la civiltà occidentale non è più “fondata sul lavoro”? Che il lavorare per sopravvivere − il lavoro salariato − è qualcosa di cui potremmo fare a meno e che l’uomo stesso, se potesse scegliere, tenderebbe a limitare al minimo? Se immaginassimo i modi per produrre beni e distribuire la ricchezza in modo ecologicamente compatibile individuando come e cosa produrre? In una sola parola, se fossimo consapevoli della necessità di liberarsi dal lavoro e di liberare il lavoro perché è nel lavoro (ma anche nei consumi e nella riproduzione) che si valorizza il capitale?
Per fare questo, occorrerebbe non farsi prendere dall’ansia da prestazione che si cela dietro la necessità della comparsata mediatica, utile solo per esporre una potenza militante ormai sfiatata o del tutto inesistente, espressa nelle piazze o nelle urne elettorali. Bisognerebbe rompere gli schieramenti, fermarsi per comprendere meglio, cercando e “con-ricercando” le istanze di classe, fino a rendere intelligibile un orizzonte chiaro e condiviso capace di intersecare i veri bisogni delle persone con una costruzione sociale e politica che abbia obiettivi chiari e concreti.
Qual è la nostra proposta? Far lavorare qualche ora in meno i riders e dargli qualche diritto in più? Certamente sì. Ma se nel frattempo non ci limitassimo a questo spazio concesso dal capitale e provassimo a sconfinare per conquistare la completa liberazione dal lavoro da schiavo, in modo che un pianista non debba più morire di crepacuore per mantenere la sua famiglia, ma possa continuare a deliziarci con le sue note?
4. Abbiamo già dovuto prendere atto del modo in cui, in seno a moltissime pratiche militanti, individualismo e deriva narcisistica hanno fatto sì che al soggetto si sia progressivamente sostituito un suo simulacro per il quale la sterile urgenza di controbattere ha preso il posto della piena coscienza di opporsi o, quanto meno, di impegnarsi, anche solo in un dibattito che fosse fecondo.
Dentro questa deriva, la militanza ha lasciato il posto all’attivismo per il quale spesso la dinamica sociale dell’agire collettivo viene sostituita dall’agire individuale, non più come elemento necessario per una proiezione socialmente coalizzante ma quasi come un modo di essere del tutto naturale e primigenio. Quello che si osserva è il decadere progressivo della necessità di una contro-soggettivazione come processo collettivo necessario per ricostruire uno spirito di possibilità con un orizzonte di rottura sistemica.
Questo spaesato attivismo, oggi troppo diffuso, è con ogni evidenza frutto dell’incapacità di far fronte alla sempre più forte e sistematica pressione capitalistica. Tale pressione sta dando luogo, con sempre più chiarezza con l’inizio della crisi sindemica, alla progressiva e inesorabile sostituzione di una realtà naturale e sociale, nella quale l’uomo è parte del sistema che intende difendere, con una sequela di iperoggetti (Tav, Ponte sullo Stretto, mega impianti, grandi infrastrutture, ecc.) che, da un lato, sottraggono i luoghi alle loro identità e, dall’altro, li condannano a non poter essere immaginati e, dunque, non tanto migliorati, quanto nemmeno vissuti.
La natura ambivalente e spaesante degli iperoggetti, al cui disumano peso netto ecologico e sociale si aggiunge la totale incapacità di cogliere quella tara che modificherà completamente la natura dei territori sui quali il peso complessivo insisterà, ha mutato profondamente il rapporto tra l’oggetto e le pratiche del conflitto, queste ultime sempre più schiacciate su un vertenzialismo che non produce nessuna possibilità di indagare il residuo irrisolto, cioè quanto all’interno del conflitto (anche potenziale) rimane fuori dai processi di sussunzione del capitale.
L’uomo, privato finanche di interlocuzioni vere e proprie, non può più fantasticare, confinato com’è in uno spazio annullato che ha desertificato i suoi processi di pensiero. L’affanno nel reagire all’avanzare inesorabile del modo di produzione capitalista e alla sua capacità di sussunzione, ossia all’estrema flessibilità con la quale riesce a inglobare e annichilire anche le istanze più radicalmente contrapposte, ha portato l’agire conflittuale dal reale al narrativo, in una disposizione che considera la narrazione come atto consolatorio dell’assolversi dal non essere più in grado di pensare (persino utopisticamente, perché no?) a prospettive diverse. Si ripiega, quindi, sul narrare se stessi come agenti di un cambiamento, se solo fosse consentito dalle circostanze. Nessun dubbio sulle negligenze dell’agire per l’agire o dell’agire per l’esserci, sull’opportunità di sgomitare per comparire dentro la narrazione almeno come comparse.
Nell’ottica di un ripensamento radicale della presenza dell’uomo sulla terra bisognerebbe prendere atto di quel meccanismo narrativo e autonarrativo che ha fatto in modo che al discorso sul soggetto si sostituisse la retorica del soggetto, tralasciando sistematicamente l’importanza della teoria come orizzonte di possibilità dove rischiare l’agire autenticamente conflittuale di una soggettività di classe.
Di questa retorica è vittima tanto chi tenta di contrapporsi a forme costituite di potere capitalistico e al loro ben più esteso retaggio, magari credendo ingenuamente di militare contro di esse, quanto chi, da sempre, ha esplicitamente avversato ogni definizione del soggetto, potendo anzi esercitare una vera e propria pressione di ordine culturale su una soggettività diffusamente stemperata, falsamente impegnata, moralmente neutra.
Questo processo di sostituzione della retorica al discorso produce effetti farseschi sulle dinamiche, già debolissime, di risoggettivazione, per cui oggi assistiamo a veri e propri meccanismi di invenzione del soggetto, nato già con in bocca parole d’ordine mai vicine, neanche lontanamente, a quelle che vengono gridate nelle piazze reali come accaduto, ad esempio, durante le rivolte contro il lockdown dello scorso autunno quando le rivendicazioni più autentiche della gente in piazza divergevano profondamente dalle narrazioni forzate di alcuni militanti. Serve solo un’utile comparsa e mai un attore protagonista in una conflittualità teatralizzata. Il militante agisce per conto di una presunta (ma spesso inesistente) soggettività attraverso una narrazione che, nella migliore delle ipotesi, è solo utile a rafforzare, per modo di dire, il proprio ristretto gruppetto politico. Succede così che quando nuove soggettività, spesso con una natura fortemente ambivalente, fanno capolino, non più sul palcoscenico, ma nelle piazze, trovano il militante completamente disorientato.
Inevitabilmente accade che la teatralità ceda il passo all’estetica del conflitto perché, in assenza di un controsoggetto reale che confligge, il militante, munito di felpa o t-shirt d’ordinanza, non può che porre sulla scena solo il proprio corpo: in verità, la lunga stagione pandemica che stiamo attraversando ha neutralizzato anche questa pratica e non resta altra soluzione se non quella di trasferire il compito dell’autonarrazione a tristi striscioni con il nulla intorno.
Manca l’interpretazione della vita che nasce da una tensione culturale, etica e sociale ormai per lo più desertificata dall’ingombrante mostruosità dell’iperoggetto, supportata dalla visione olografica proposta da una politica esercitata professionalmente, ma priva di progettualità e di senso della prospettiva.
Manca la materialità del rapporto del soggetto con se stesso e con l’oggetto, perché, danneggiato com’è da narcisismo e superfetazione, dal groviglio permanente di discorsi scollati dalla realtà, il soggetto è viziato da fini manipolatori, votato alla mediocrità, alla distorsione o, su un versante che è soltanto apparentemente opposto, all’estetica del conflitto.
Manca, infine, la capacità di anticipazione e di lettura dei processi in atto, capacità necessaria per costruire un’elaborazione teorica e una prassi d’intervento su basi sostanziali, dentro la materialità dei rapporti e la loro evoluzione, e non su basi velleitarie e temporanee. La materialità dei rapporti andrebbe indagata da militanti che, nell’acquisire una maggiore e più potente conoscenza (anche di se stessi), riescano a dare forza alle proprie potenzialità come soggetti, dunque come soggettività collettiva e, infine, come classe.
5. Si sono spesso individuate due esigenze fondamentali della militanza: da una parte, la controformazione, incentrata su un piano collettivo di ricerca e conricerca, intesa come momento metodologico di analisi nella contraddizione, come relazione in atto, inchiesta attiva che consiste nel riprodursi della conflittualità ingenerata dalla relazione asimmetrica tra soggetto e oggetto della ricerca e, nel caso del lavoro, distorta dall’estrazione di plusvalore; dall’altra, la controsoggettivazione, concepita come processo di incarnazione concreta del conflitto.
Sono obiettivi da perseguire attraverso l’osservazione analitica, prima ancora che per mezzo della creatività, ossia della centralità del soggetto nel decidere e scegliere. Nello specifico, è dall’inventività delle lotte che bisogna apprendere, acquisire coscienza della propria vulnerabilità, della propria materialità, della propria inclusione: inventività che riesca ad arrivare prima dell’esperto e della macchina tecnica, tratteggiando autonomamente uno scenario che vada oltre l’immaginario indolente e automatico imposto dal capitale, oltre la gestione tecnicizzata e siliconizzata dell’esistente (cfr. É. Sadin, La siliconizzazione del mondo. L’irresistibile espansione del liberismo digitale [2016], trad. di D. Petruccioli, Torino, Einaudi, 2018). Gestione che invece, dentro ciascuno di noi, compone pazientemente e inesorabilmente la macchina: una supermacchina, in verità, tanto supercorpo quanto super Io, quindi sbagliata, perché statica e artificiale, perché consente di fare un passo e poi di rifarlo, senza permettere di guardare dentro se stessi, senza cercare di capire meglio.
L’inventività del conflitto o, ma è la medesima cosa, quella del comportamento, è essa stessa politica, non tecnica, perché solo in questo caso si traduce in forza viva di trasformazione capace, con il pensiero e l’analisi, di andare oltre l’ineluttabilità della linea di sviluppo indicata dal capitale e dalle istituzioni esistenti. Non ricercare, dunque, un’alternativa più umana al sistema di riproduzione capitalista, ma andare oltre, assumendo una posizione di totale incompatibilità rispetto all’accettazione del conflitto capitale-lavoro.
Inventività da militante che prevede che si metta interamente in gioco la propria vita, in modo da agire quotidianamente la tensione conflittuale. Il militante, è il caso di ribadirlo, non è un volontario, né un attivista adoperato da chiunque o operante per chiunque, come se non avesse un pensiero, ma solo mani e bocca, altoparlante e striscione: è un soggetto divisivo, disincantato, che prende posizione e costringe a schierarsi. Senza costanza e una dura assunzione di responsabilità, il militante, non solo cessa di essere tale, ma è facilmente relegato a un ruolo contemplativo, astratto, quasi astorico, divenendo mera intellighenzia che si muove nello spazio inerte imposto dallo sfruttamento e dalla strumentalizzazione, pervaso dal gran desiderio mortale, già nel 1965 lo diceva Paolo Volponi nella Macchina mondiale, di lasciare tutto com’è e di ammalarsi, poi, per la sorte che gli è capitata, magari lamentandosi come un cane che abbaia fuori dalla chiesa (cfr. Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, a cura di F. Bedani e F. Ioannilli, Roma, DeriveApprodi, 2020).
E invece la sua affermazione presuppone una paziente organizzazione, talvolta anche incerta e contraddittoria ma comunque viva, di soggettivazione e autonomia, superando il limite imposto dalla macchina capitalistica che prevede l’adorazione di se stesso e della macchina e, perciò, l’avvilimento e la perdita della coscienza. Da élite o avanguardia di pensiero bisognerebbe farsi piuttosto soggetto che analizza la prassi della contraddizione per individuare una prassi di rottura con la contraddizione.
Senza lotta non c’è autonomia. Senza trasformazione collettiva della soggettività non c’è autonomia. Senza formazione non c’è autonomia. D’altro canto, autonomia non è aderenza strumentale alla vertenza, capitalizzazione o, ancora peggio, sindacalizzazione della vertenza. Essa non passa dalla rivendicazione dell’ovvio e, in quanto prassi militante in essere, non può giacere nell’individuazione di un modo alternativo di restare nel ciclo di riproduzione capitalista. Alla semplificazione e alle scorciatoie strumentali l’autonomia oppone la complessità, il sapere autenticato dalla pratica nelle contraddizioni, il sapere che si produce nelle lotte, il disagio della civiltà che, con Freud, paventando una comunione più intima dell’Io con l’ambiente, risponde all’avvizzito discorso del capitalista e al suo corteo di permissività (cfr. S. Freud, Il disagio della civiltà [1929], trad. di E. Sagittario, in Id., Il disagio della civiltà e altri saggi, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, pp. 197-280). Senza autonomia l’operaio sociale resta semplice attore dell’innovazione, interamente sussunto, dunque agito nell’impresa e industrializzato nella fabbrica totale, incluso come soggettività media, vale a dire stemperata, dal processo di sussunzione capitalista. Si tratta di un processo continuo di sradicamento della soggettività e di reimpianto della coscienza mediata, assoggettata e normalizzata.
Eppure, anche in questo periodo di forte crisi, l’antagonismo, che non sprofonda nel godimento autocelebrativo e autoassolutorio, quell’antagonismo che non cede alla frustrazione dell’improduttività delle lotte, quindi in grado quantomeno di delineare le mura della prigione nella quale viviamo, continua a esistere. Magari come potenzialità, soltanto come spettro, comunque dotato della capacità di interrompere e rovesciare se stesso e le cose che ha intorno, di superare la continuità capitalistica ornamentale e stregonesca, il suo sonno e la sua smemoratezza.
Il progetto di risoggettivizzazione del singolo e di ricomposizione politica del corpo sociale può nascere in qualsiasi momento (persino oggi, sì), allorché si produca uno scarto nella rappresentazione del sistema capitalistico. Per quanto non sia facile andare al di là della sua capacità di resistenza, davvero basterebbe questo semplice “resto” non contabilizzato, fatto di essere come presenza-a-sé e, nella lotta, come tono che risuona nel rapporto con l’Altro-da-sé, per rinnovare lo statuto del soggetto, rendendolo irriducibile alla sua impronta produttiva, all’immagine frammentata che ne restituisce lo specchio della modernità. Riappropriandosi di quel che resta fuori dalla produzione − quel quid non sussunto (o che ancora non lo è del tutto) che tutto sommato è equivalente al plusvalore dell’economia capitalista −, il soggetto fuori norma entra nel mondo, si fa momento autonomo della ritmica comunitaria e pone fine al tempo di comprendere-niente. Non si tratta semplicemente di essere anti, ma magari di essere altro all’interno di un mondo che ingloba, di una macchina dalla quale non si sfugge. La sola pratica della resistenza, da più versanti paventata, rimarrebbe comunque un tentativo di risposta meramente difensivo rispetto allo stato attuale delle cose. Non è sufficiente anelare; bisogna costruire, attraverso la creatività nelle lotte e nelle pratiche, un’altra possibilità.
Mentre la vertenzialità prova a strappare bocconi di agibilità nel sistema dato, la militanza prova a tessere nuova soggettività, capace di ribaltare le forze in campo e di costruire un altro sistema a sua immagine e somiglianza. Il militante, da inattuale dunque, agisce contro il tempo e non fuori da esso. Nessun idealismo, nessuna vaga utopia: semplicemente non accetta il tempo dato per costruire – attraverso la lotta, la contrapposizione e l’incompatibilità – il proprio tempo autonomo. Da inattuale, entrare nel mondo: non sarebbe sufficiente questo perché si torni a parlare, con cognizione di causa, di militanza?
(Stefano Ammirato, Gianmarco Cantafio, Alessandro Gaudio, Gennaro Montuoro)
* La terza sezione di questo scritto è stata già pubblicata il 19 aprile 2021 nella sezione Scatola nera di «Machina» ed è reperibile al seguente URL: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/punto-e-a-capo; la quinta è apparsa sul «Ponte» (a. LXXVII, n. 1, gennaio-febbraio 2021, pp. 81-83).