Appunti di Teologia Politica (IX)
Una lettura interessante della secolarizzazione di principi religiosi operanti nella quotidianità sociale e nella costruzione dell’etica capitalistico-liberale l’abbiamo nelle pagine del romanzo L’idiota di Fedor Dostoevskij. Nelle pagine di questo romanzo, come si rileva in alcune lettere dello scrittore, Dostoevskij intendeva avventurarsi nella scrittura di una storia che avesse come protagonista un soggetto totalmente puro e buono. Idea abbastanza coraggiosa visto che, normalmente, dalle notizie a stampa alle storie inventate, fanno più presa sul pubblico le notizie truculente con personaggi maledetti che quelle di ordinaria “normalità”. Come si dice: fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce!
L’idea del romanzo è una mia antica e prediletta idea, ma è talmente difficile che per un pezzo non me la sono sentita di affrontarla […]. L’idea principale del romanzo è quella di rappresentare una natura umana pienamente bella. Non c’è nulla di più difficile al mondo e specialmente oggi. Tutti gli scrittori, non soltanto russi, ma anche gli europei, che si sono accinti alla rappresentazione di un carattere bello e allo stesso tempo positivo, hanno sempre dovuto rinunciare […]. Al mondo c’è stato soltanto un personaggio bello e positivo, Cristo, tantoché l’apparizione di questo personaggio smisuratamente, incommensurabilmente bello costituisce naturalmente un miracolo senza fine. Tutto il vangelo di Giovanni è concepito in questo senso: egli trova tutto il miracolo nella sola incarnazione, nella sola apparizione del bello (F. Dostoevskij, Lettera a Sof’ja Aleksandrovna Ivanova, in Lettere sulla creatività, Feltrinelli, Milano 1991).
Si ricordi in tal senso la famosissima espressione/manifesto contenuta nel romanzo: “la bellezza salverà il mondo”, una semplificazione sintetica di Ippolìt, un personaggio secondario, del pensiero del principe Lev Nikolàevič Myškin:
“È vero principe, che lei una volta ha detto che la ‘bellezza’ salverà il mondo? State a sentire, signori – gridò ad alta voce, rivolgendosi a tutti – il principe sostiene che la bellezza salverà il mondo! E io sostengo che questi giocondi pensieri gli vengono in testa perché è innamorato. Signori, il principe è innamorato: me ne sono convinto poco fa, non appena è entrato qui. Non arrossisca, principe, altrimenti avrò compassione di lei. Ma quale bellezza salverà il mondo? Me l’ha riferita Kòlja questa sua frase… Lei è uno zelante cristiano? Kòlja dice che lei si definisce cristiano” (F. Dostoevskij, L’idiota, Parte terza, Feltrinelli, Milano 1998).
Nella letteratura solo Don Chisciotte e il più debole Pickwick di Dickens, secondo Dostoevskij, possono avvicinarsi a questo immaginario di un personaggio totalmente bello e positivo, ma questi ultimi portano con sé anche la caratteristica di essere ridicoli che è il vero espediente narrativo che conquista il lettore generando immedesimazione ed empatia.
A dire la verità, anche l’idiota, il personaggio principale del romanzo, porta con se, oltre alla positività e alla bontà, anche l’elemento della malattia. Il principe Myškin era un epilettico (come del resto lo stesso Dostoevskij) e quindi sospettato di una certa demenza che portava spesso gli uditori a pensare che le sue uscite più radicali ed i suoi atteggiamenti “caritatevoli” erano addebitabili non tanto alla moralità o alla bontà del protagonista ma giustificate a causa di questa malattia della mente considerata inabilitante. Più che buono, un fessacchiotto malaticcio. In un certo senso anche qui, come per Don Chisciotte o per Pickwick, più che la bontà e la bellezza del carattere del principe, a generare commozione, simpatia e immedesimazione è l’infermità, la sua idiozia.
Nel racconto, comunque, la figura del principe idiota è messa a confronto con tante tipologie umane dell’epoca, quasi come una cartina di tornasole per smascherare la falsa coscienza di ognuno, più in cerca della comodità che della verità. Il principe decaduto e malato, con solo un misero fagottino in mano contenente tutta la sua proprietà, è prima mal sopportato dalla lontana parente, la generalessa Epančin, che poi lo riabilita a causa di un’eredità improvvisa ed inaspettata che gli proviene da un’altra lontana parentela. L’idiota è la pietra di paragone attraverso cui giudicare le figure di nobili dongiovanni annoiati, di militari decaduti ed ubriaconi, di giovani rampanti, di figlie dell’alta borghesia a caccia di una buona sistemazione con un marito appartenente ad una famiglia di antica nobiltà che si affacciano nel racconto.
Un primo brano che si colloca all’inizio della storia, utile alla nostra trattazione del meccanismo della secolarizzazione delle idee teologiche, ha come scenario la Svizzera, terra in cui il principe era stato mandato, ancora infante, per essere curato dalla sua demenza. La protagonista è una giovane sfortunata e vessata da un intero paese. Nata da una famiglia povera, senza padre e con a carico una madre malata che aiuterà con tutta se stessa facendo i lavori più umili dopo il fallimento della piccola attività commerciale casalinga. Vessata dagli uomini ed evidentemente anche da Dio, secondo l’etica protestante/capitalistica, vista la sua penosa condizione economica ed umana. Se non ce la fai è colpa tua, se ce la fai è merito del sistema e del fato!
Marie “era debole e magra e aveva circa vent’anni. Da tempo era affetta dalla tisi, eppure continuava ad andare in giro per le case dei vicini e a svolgere ogni giorno dei lavori pesanti, come lavare i pavimenti, fare il bucato, spazzare i cortili, occuparsi del bestiame. Un francese, un commesso viaggiatore di passaggio, l’aveva sedotta e condotta via, ma una settimana dopo l’aveva abbandonata da sola per la strada e se l’era squagliata di nascosto. Era tornata a casa mendicando, tutta infangata, con i vestiti ridotti a brandelli e le scarpe rotte; aveva camminato a piedi per una settimana […]. Com’è crudele la gente nel giudicare fatti come questi, che ottusità dimostra nel condannare! Tutti la guardavano come si guarda un essere abominevole: i vecchi la condannavano e l’insultavano, i giovani perfino ridevano di lei, le donne l’ingiuriavano e la guardavano con il ribrezzo con cui si guarda un qualche ragno schifoso. E sua madre permetteva tutto questo, stava lì a guardare, annuiva col capo e approvava. […] Aveva le gambe malate e doveva bagnarle nell’acqua calda più volte al giorno; era Marie che le lavava le gambe e si occupava di lei; la vecchia accettava in silenzio tutti i suoi servizi senza mai dirle neppure una parola affettuosa. Marie sopportava tutto questo e in seguito, quando la conobbi meglio, capii che lei stessa lo considerava giusto e si riteneva l’essere più indegno della terra. […] Quando poi la madre morì, il sacerdote protestante del villaggio arrivò al punto di svergognare pubblicamente Marie […] allora il sacerdote, che era piuttosto giovane e aveva l’ambizione di diventare un grande predicatore, si rivolse al popolo adunato additando Marie: ‘Ecco chi è la causa della morte di questa donna onorata (e questo non era vero, giacché la vecchia era malata già da due anni), eccola lì davanti a voi, ma non osa guardarvi perché è segnata dal dito di Dio; è scalza e coperta di stracci, terribile esempio per tutti coloro che perdono la virtù! E chi è? E’ la figlia della morta!’, e via di seguito su questo tono. E pensate che una tale vigliaccata piacque quasi a tutti! (F. Dostoevskij, L’idiota, Parte prima, Feltrinelli, Milano 1998).
L’etica protestante sposava bene lo spirito del capitalismo ruggente stigmatizzando una donna scalza e coperta di stracci, tale perché certamente segnata dal dito di Dio a causa della sua mancanza di virtù. Certamente una strana etica evangelica e biblica se, ritornando all’esempio del Cristo fatto da Dostoevskij nella sua lettera, la storia di questo personaggio, l’unico dell’umanità, totalmente buono, bello e positivo, si concluderà sulla croce; una vita che apparentemente si conclude con un completo fallimento. Strana anche alla luce del racconto antico testamentario di Giobbe o della pericope evangelica del povero Lazzaro e del ricco epulone! Sarebbe bastato già questo per distruggere l’equazione povertà=vizio dal punto di vista cristiano ma tant’è che la potenza narrativa e simbolica del capitale nel secolarizzare le idee teologiche riesce anche a ricontestualizzarle senza che neanche i rampanti pastori possano accorgersi delle contraddizioni interne alla narrazione. Allora, se sei povero, certamente, sarai anche vizioso. La ricchezza è la sola prova del nove del beneplacito divino. Quale copertura migliore per la cattiva coscienza del capitalista ottocentesco, novecentesco, ed di ogni secolo! E non basta questo…
“Marie sopportava tutto questo e in seguito, quando la conobbi meglio, capii che lei stessa lo considerava giusto e si riteneva l’essere più indegno della terra.” Non solo il carnefice è giustificato ma persino la vittima si convince che tutto ciò sia giusto. Ritenete che la pensi diversamente il salariato sfruttato e precario quando trova mensilmente nel suo conto corrente quel, seppur misero, importo versato dal benefattore datore di lavoro che glielo dona prendendolo dalle sue proprie sostanze? Credete che non sarà riconoscente dei suoi 1300 euro mensili l’operatore che raccoglie la spazzatura nelle nostre città inconsapevole che nel frattempo il suo lavoro frutta milioni per il suo personale benefattore?
Per meglio comprendere questo convincimento che alberga nell’anima del misero, la giustezza della sua condizione miserabile o quantomeno la sua correità rispetto a questa situazione, ne L’idiota c’è un altro monologo fatto da Ippolìt, un ragazzo giovane e fortemente malato a causa della tisi a cui hanno diagnosticato poche settimane di vita. Figlio di una mamma nubile che aveva altri figli più piccoli e che tirava avanti senza l’aiuto di un marito, vissuto tra malattia e stenti, non riesce proprio a capire chi, avendo tanta vita davanti, non riesce ad arricchirsi quanto un Rothschild. Ovviamente il suo personale fallimento era dovuto solo ed esclusivamente alla malattia mentre gli altri erano da commiserare perché semplicemente incapaci:
“Non capivo, per esempio, come certa gente che disponeva di tanta vita davanti a sé non riuscisse ad arricchire (in verità non lo capisco neppure adesso). Conoscevo un poveraccio di cui in seguito mi raccontarono che era morto di fame, e mi ricordo che questo fatto mi fece addirittura infuriare; se mi fosse stato possibile far resuscitare quel disgraziato, credo che l’avrei fatto condannare a morte per punizione. […] Non potevo sopportare quella gente che mi passava accanto sul marciapiede, sempre di corsa e sempre affaccendata, quei volti dall’aria sempre tetra, inquieta e preoccupata. Perché quella loro eterna scontentezza, la loro eterna inquietudine, le loro smanie e travagli, la loro costante tetra malvagità (giacché essi sono malvagi, malvagi, malvagi!)? Di chi è la colpa se sono infelici e non sanno vivere, pur avendo davanti a sé sessant’anni di vita? Perché quello Zarnìcyn si è ridotto a morire di fame, pur avendo ancora sessant’anni da vivere? Tutti mostrano i loro stracci, le loro mani callose e gridano furiosi: “Noi lavoriamo come muli, ci ammazziamo di fatica, eppure siamo miserabili come cani affamati! Ci sono altri che non lavorano e non fanno la minima fatica, eppure sono ricchi!” (Questo è il loro eterno ritornello!). Proprio come tutti gli altri corre e si affanna dalla mattina alla sera un ometto miserabile “di buona famiglia”, un certo Ivàn Fomìc Sùrikov, un tale che vive nella nostra stessa casa che va sempre in giro con i gomiti di fuori e la metà dei bottoni mancanti, e dal mattino alla sera non fa che correre di qua e di là a far commissioni e sbrigare affari per conto di qualcuno. Se vi mettete a chiacchierare con lui, ecco cosa vi dirà: “Sono povero, miserabile e nudo come un verme, mi è morta la moglie perché non c’erano soldi per le medicine, d’inverno il bambino ha preso freddo, la mia figlia più grande fa la mantenuta…”. Non fa che lamentarsi e piagnucolare eternamente! Oh, io non ho mai provato neppure un filo di pietà per questi imbecilli, né adesso né prima, e lo dico con orgoglio! Perché non è un Rothshild? Di chi è la colpa se non ha i milioni di Rothschild, se non ha una montagna d’imperiali e di napoleoni d’oro così alta come quelle che s’innalzano tra i baracconi durante il carnevale? Dal momento che è vivo, tutto è in suo potere! Di chi è la colpa se lui non lo capisce? (F. Dostoevskij, L’idiota, Parte terza, Feltrinelli, Milano 1998).
Com’è possibile non essere ricchi come Steve Jobs che mosse i primi passi nel suo garage, come Berlusconi che iniziò come animatore sulle navi da crociera, come Zuckerberg che creò Facebook in una stanza del dormitorio di Harvard? Eppure, il sistema pone ugualmente davanti a tutti gli strumenti idonei per creare la sua propria ricchezza, la sua propria felicità. È incomprensibile per Ippolìt che ci siano persone che piagnucolano povertà quando è evidente che esistano i ricchi. E se esistono vuol dire che è possibile diventarlo e che se non ci riesci – e muori anche di fame – avendone la possibilità, non solo non ti compiango ma ti resuscito e ti condanno a morte per pusillanimità!
Nella secolarizzazione delle idee teologiche qualcosa è andato storto. Un qualche bug dell’algoritmo ha tradotto “beati i poveri” in “beati i ricchi”. Il messia, che secondo i vangeli non aveva una pietra su cui poggiare il capo, è divenuto di colpo un ricco capitalista di successo, magari donnaiolo e simpaticone come un Briatore o un Bezos qualunque. Effettivamente il progetto di scrittura di un personaggio totalmente buono, bello e puro non è ancora riuscito. Lo stesso principe ‘idiota’ Myškin alla fine della storia, dopo aver compreso tutti, perdonato tutti per i loro scherni, rimborsato tutti grazie all’eredità ricevuta, ritorna, come nel gioco del Monopoli, al punto di partenza, presso la sua clinica in Svizzera, per curare la sua ritrovata demenza. Non riescono i romanzi a lieto fine, non bucano lo schermo i personaggi ingenui e buoni. Vince il capitale con la sua etica del ‘lupo mangia lupo’, basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sulla donna, sugli animali e sull’ambiente. L’importante è farcela, essere un vincente e se lo sei non importa quante persone hai distrutto e condannato alla sconfitta. I padroni del mondo lo sanno e vanno avanti tranquilli sulla loro strada, schermati da ogni critica e, forse, da ogni senso di colpa grazie all’introiezione di questa narrazione tossica da parte degli ultimi che si auto-dipingono come perdenti e reietti ‘per giusta causa’, a motivo della loro stessa incapacità.
La redazione di Malanova
I precedenti contributi:
Appunti di Teologia Politica (I) – LA POLITICA COME PENSIERO SCORRETTO
Appunti di Teologia Politica (II) – SPAZZOLARE LA STORIA CONTROPELO
Appunti di Teologia Politica (III) – GLI ALBERI DEL BOSCO ANDARONO PER UNGERSI UN RE
Appunti di Teologia Politica (IV) – SOVRANO È CHI DECIDE SULLO STATO DI ECCEZIONE (I)
Appunti di Teologia Politica (V) – SOVRANO È CHI DECIDE SULLO STATO DI ECCEZIONE (II)
Appunti di Teologia Politica (VI) – LA PIETRA DEL VATICANO: POLITICIZZAZIONE DELLA TEOLOGIA
Appunti di Teologia Politica (VII) – PROFANARE LA RELIGIONE CAPITALISTICA
Appunti di Teologia Politica (VIII) – IL CAPITALISMO COME RELIGIONE