Un estratto dal dialogo di Platone “Alcibiade I” o maggiore, nel quale il filosofo sviluppa attraverso la maieutica socratica i temi del “conosci te stesso” delfico applicati all’antropologia e alla politica. In cosa consiste la felicità collettiva? Quali sono le virtù che deve possedere chi voglia amministrare la cosa pubblica? In questo brano le risposte provenienti direttamente dai filosofi dall’antica Grecia.
SOCRATE: E dimmi: [124]e diciamo di voler diventare il più possibile migliori? Non è vero?
ALCIBIADE: Sì.
So. In quale virtù?
Al. È chiaro: nella virtù che caratterizza gli uomini valenti.
So. Valenti in cosa?
Al. Chiaramente nel trattare gli affari.
So. Quali? Affari relativi ai cavalli?
Al. Per niente affatto.
So. Infatti, andremmo dai maestri di ippica?
Al. Sì.
So. Parli di affari relativi alle navi?
Al. No.
So. Andremmo dagli esperti di nautica?
Al. Sì.
So. Ma quali? Chi tratta questo tipo di affari?
Al. Gli Ateniesi che sono perfetti nella virtù.
[125.a] So. Chiami perfetti in virtù gli assennati o i dissennati?
Al. Gli assennati.
So. Dunque in ciò in cui ciascuno è assennato, in questo è valente?
Al. Sì.
So. In ciò in cui è stolto, incapace?
Al. Come no?
So. Non è dunque il calzolaio assennato nella confezione delle scarpe?
Al. Senz’altro.
So. Dunque in queste cose è valente?
Al. Valente.
So. Ma nella confezione di abiti il calzolaio non è insensato?
Al. Sì. [125.b]
So. Incapace dunque in questo?
Al. Sì.
So. Dunque, secondo questo discorso, la medesima persona è, allo stesso tempo, valente e incapace.
Al. Pare.
So. Dici dunque che gli uomini valenti sono anche incapaci?
Al. Assolutamente no.
So. Ma allora chi chiami valente?
Al. Io chiamo valente chi è capace di comandare nella città.
So. Non certo a cavalli?
Al. No, di certo.
So. Ma ad uomini?
Al. Sì.
So. Forse ad uomini ammalati?
Al. No.
So. Ma ad uomini che navigano?
Al. No, dico.
So. Ma ad uomini che mietono?
Al. No.
[125.c] So. Ma ad uomini che non fanno niente o che fanno qualcosa?
Al. Ad uomini che fanno, dico.
So. Che cosa? Prova a chiarirlo anche a me.
Al. Dunque, ad uomini che creano legami fra di loro e che si servono reciprocamente, come noi che viviamo nelle città.
So. Allora vuoi dire esercitare il comando su uomini che si servono di uomini?
Al. Sì.
So. Dunque su nostromi che si servono di rematori?
Al. Certamente no. […]
So. Ma allora che cosa mai intendi con “essere in grado di comandare su uomini che si servono di uomini”?
Al. Intendo dire governare su uomini che partecipano di una comunità statale e che hanno legami gli uni con gli altri. Sono questi da governare nella città.
So. E quale è quest’arte? Come se ti domandassi di nuovo le cose che ti ho chiesto poc’anzi, qual è l’arte che rende capaci di comandare su coloro che partecipano di una stessa comunità di navigazione?
Al. L’arte del pilota. [125.e] […]
So. Allora? Come chiami la scienza che fa capaci di governare su uomini che partecipano della comunità statale?
Al. Io ‘scienza del buon consiglio’, o Socrate.
So. E che? Forse l’arte dei piloti è priva di buon consiglio?
Al. No, certo.
So. Ma è arte del buon consiglio? [126.a]
Al. A me sembra, almeno al fine di garantire la salvezza dei naviganti.
So. Dici bene. E che? Quello che tu chiami ‘buon consiglio’, che scopo ha?
Al. Quello di amministrare meglio la città e di salvaguardarla.
So. E quale elemento deve esserci o mancare perché la città sia meglio amministrata e meglio ne sia assicurata la salvezza? Come se tu mi chiedessi: «Sopraggiungendo cosa o andando via cosa, il corpo è meglio sostentato e meglio è assicurata la sua salute?», io ti risponderei che ciò si verifica se sopraggiunge la salute e, invece, se ne va la malattia. Non credi anche tu allo stesso modo? [126.b]
Al. Sì.
So. E se tu poi mi chiedessi: «Sopraggiungendo che cosa, gli occhi sono al meglio?», io analogamente ti rispondererei che sono al meglio se è presente la vista e non c’è la cecità. E gli orecchi si trovano in una condizione migliore e sono curati al meglio se non c’è la sordità e c’è l’udito.
Al. Esattamente.
So. E una città allora? In presenza di che cosa ed in assenza di che cosa è al meglio e meglio è curata ed amministrata? [126.c]
Al. A me sembra quando ci sia uno scambievole rapporto di amicizia tra i cittadini ed odio e rivalità siano lontani.
So. Tu chiami dunque amicizia concordia o disaccordo?
Al. Concordia.
So. In virtù di quale arte le città concordano sul numero?
Al. Grazie all’aritmetica.
So. Ma i privati? Grazie alla stessa arte, no?
Al. Sì.
So. E anche ciascuno è d’accordo con se stesso?
Al. Sì.
So. E grazie a quale arte ciascuno concorda con se stesso [126.d] riguardo alla spanna ed al cubito, quale delle due misure è più grande? Non in virtù dell’arte della misurazione?
Al. Come no?
So. E su questo concordano dunque fra loro sia i privati, sia gli stati?
Al. Sì.
So. E che? Riguardo al peso non è lo stesso?
Al. Sì. […]
So. Su, allora! Con quale arte noi potremmo prenderci cura di noi stessi?
Al. Non te lo so dire. [128.e]
So. Ma su questo almeno c’è accordo, che non potremmo prenderci cura di noi stessi con quell’arte con cui potremmo rendere migliore qualsiasi cosa delle cose nostre, ma con quella con cui potremmo rendere migliori noi stessi?
Al. Hai ragione
So. Ma avremmo conosciuto dunque quale arte rende migliore la calzatura, non conoscendo la scarpa?
Al. Impossibile.
So. E se non avessimo conosciuto gli anelli, non avremmo saputo quale arte rende migliori gli anelli?
Al. Vero.
So. E allora? Potremmo sapere quale arte ci rende migliori, non sapendo chi siamo noi? [129.a]
Al. Impossibile.
So. Dunque è facile conoscere se stessi ed era uno stupido chi ha consacrato questo motto nel tempio di Delfi o risulta difficile e non è cosa da tutti?
Al. A me, o Socrate, spesso è sembrata cosa da tutti, spesso invece difficilissima impresa.
So. Ma, o Alcibiade, sia facile o non lo sia, tuttavia la cosa per noi sta in questi termini: conoscendo questo, forse potremmo conoscere la cura di noi stessi, non conoscendolo, non potremo conoscerla.
Al. È in questi termini. [129.b]
So. Forza, allora. In che maniera si potrebbe trovare questo essere ‘se stessi’? Così, infatti, troveremmo probabilmente che cosa siamo noi; rimanendo nell’ignoranza di questo, ne saremmo ancora incapaci.
Al. Dici bene. […]
So. Dunque colui che ci ordina il “conosci te stesso”, ci ordina di conoscere la nostra anima. [131.a]
Al. Evidentemente.
So. Chiunque dunque conosce qualcosa del corpo, conosce le proprie cose, ma non se stesso.
Al. È così.
So. Dunque nessuno dei medici conosce se stesso, in quanto medico, né alcuno dei maestri di ginnastica, in quanto maestro di ginnastica. Al. Naturalmente no.
So. Sono ben lontani dunque dal conoscere se stessi i contadini e gli altri lavoratori. Questi – come pare – non conoscono neppure le cose loro proprie, ma cose ancora più lontane dalle cose loro proprie, in relazione appunto ai [131.b] mestieri che esercitano: conoscono infatti le cose del corpo, con cui questo si cura. Al. Hai ragione. So. Se dunque saggezza è conoscere se stesso, nessuno di questi è saggio in relazione all’arte. Al. Non mi pare. So. Per questo effettivamente queste arti sembrano essere anche volgari e non materia di apprendimento di un uomo che vale.
Al. Assolutamente sì.
So. Dunque, di nuovo, chiunque abbia cura del corpo ha cura di ciò che gli appartiene, ma non di se stesso?
Al. È probabile.
So. Chiunque si prenda cura delle ricchezze, non si prende cura di se stesso e nemmeno delle cose [131.c] che riguardano se stesso, ma di cose ancora più lontane da ciò che riguarda se stesso?
Al. A me pare.
So. Dunque chi fa soldi non si occupa di cose proprie.
Al. Esattamente.
So. Se dunque qualcuno è amante del corpo di Alcibiade, non ama Alcibiade, ma qualcosa delle cose di Alcibiade.
Al. Hai ragione.
So. Ama, invece, te chi ama la tua anima?
Al. Dal ragionamento fatto appare un’evidenza.
So. Chi ama dunque il tuo corpo, quando questo smette di fiorire, se ne va lontano?
Al. Pare. [131.d]
So. Colui che ama l’anima, invece, non se ne va, finché questa proceda verso il meglio?
Al. Naturalmente.
So. Dunque, io sono colui che non se ne va ma rimane mentre il corpo sfiorisce e gli altri se ne sono andati.
Al. Fai bene, o Socrate: possa tu non allontanarti! […]
So. Questo dunque è il motivo, che io solo ero il tuo amante, gli altri, invece, erano amanti delle tue cose: ma le tue cose perdono il fiore della giovinezza, tu, invece, ora incominci a fiorire. [132.a] E ora, se tu non ti lascerai corrompere dal popolo degli Ateniesi e diventerai peggiore, io non ti lascerò. Di questo, soprattutto, io ho paura, che tu mi ti lasci corrompere divenendo un amante del popolo. Infatti, molti e valenti Ateniesi hanno fatto quest’esperienza. Certamente ha un bel volto «il popolo del magnanimo Eretteo». Bisogna dunque che tu lo
osservi quando è senza maschera. Prendi allora le precauzioni che ti dico.
Al. Quali? [132.b]
So. Esercitati, dunque, o fortunato ragazzo, e impara ciò che bisogna imparare prima di entrare nella vita politica; non farlo prima di avere un contravveleno perché tu non abbia a subire niente di grave.
Al. Mi sembra che tu dica bene, o Socrate; ma prova a spiegare in quale modo noi dovremmo curarci di noi stessi.
So. Ebbene, di tanto si è proceduto in avanti – su che cosa siamo, infatti, ci siamo messi d’accordo in modo conveniente – mentre temevamo che, ingannandoci su questo, ci prendessimo cura di qualcosa d’altro ma non di noi.
Al. Le cose son così. [132.c]
So. E, in secondo, luogo, che bisogna prendersi cura dell’anima e mirare a questo.
Al. Evidentemente.
So. E bisogna affidare ad altri la cura dei corpi e delle ricchezze.
Al. Certo. E allora?
So. Dunque come potremmo conoscere in modo evidente questo? Dato che, se conosciamo questo, come è palese, conosceremo anche noi stessi. In nome degli dei, non comprendiamo allora quella giusta iscrizione di Delfi che poco fa abbiamo ricordato?
Al. Che cosa intendi, o Socrate? [132.d]
So. Sospetto che cosa significhi ed intenda consigliare a noi quell’iscrizione e te lo dirò. È probabile infatti che solo nella vista, e non altrove, ci possa essere un esempio per questo.
Al. In che senso dici questo?
So. Pensaci anche tu. Se l’iscrizione delfica, esortando il nostro occhio come se fosse un uomo, avesse detto «guarda te stesso», in che senso dovremmo intenderla, che cosa ci raccomanderebbe? Non forse di guardare a ciò, guardando il quale l’occhio sarebbe nella condizione di vedere se stesso?
Al. È evidente.
So. Abbiamo in mente quella cosa guardando alla quale noi [132.e] vediamo insieme quella cosa e noi stessi?
Al. Chiaramente, o Socrate, noi dovremmo guardare negli specchi e in oggetti simili.
So. Dici bene, ma non c’è dunque anche qualcosa di simile nell’occhio con il quale vediamo?
Al. Assolutamente sì.
So. Hai osservato certamente che l’immagine di una persona che fissa lo sguardo nell’occhio [133.a] di un’altra viene riflessa, come in uno specchio, lo sguardo di colui che sta davanti. Questo specchio lo chiamiamo ‘bambolina’, dato che è come un’immagine di colui che guarda.
Al. Hai ragione.
So. Un occhio che guardasse un altro occhio, e si fissasse in quella che è la sua parte migliore e con la quale guarda, in questo modo
vedrebbe se stesso.
Al. Naturalmente.
So. Se guardasse ad un’altra delle parti dell’uomo o a qualcosa fra le cose che esistono, fatta eccezione per ciò a cui è simile, non vedrà se stesso. [133.b]
Al. Chiaramente.
So. Se dunque un occhio vuole vedere se stesso, bisogna che guardi un occhio e dell’occhio quella parte nella quale capita che ci sia la capacità prima dell’occhio; e questa è la vista?
Al. È così.
So. Dunque, o caro Alcibiade, anche l’anima, se vuole conoscere se stessa, bisogna che guardi l’anima e precisamente quel luogo dell’anima in cui è connaturata la capacità prima dell’anima, cioè la saggezza, e ogni altra cosa a cui questa parte dell’anima si trovi ad essere simile.
Al. Mi pare di sì, o Socrate. [133.c]
So. Possiamo dunque dire che c’è una parte dell’anima più divina di quella nella quale hanno sede il conoscere ed il pensare?
Al. Non possiamo.
So. Questa parte dell’anima dunque è simile al dio e uno, guardando ad essa e conoscendo così l’insieme, intelletto e pensiero, potrebbe conoscere nel modo migliore anche se stesso.
Al. È chiaro.
So. Ma come gli specchi sono più chiari dello specchio che è nell’occhio e più puri e più luminosi, così anche il dio è più puro e anche più luminoso della parte migliore che è nella nostra anima?
Al. È un’evidenza, o Socrate.
So. Guardando il dio, dunque, ci serviremo di lui come di un bellissimo specchio delle cose umane che hanno come scopo la virtù dell’anima e, in questo modo, potremmo vedere e conoscere nel modo migliore noi stessi.
Al. Sì.
So. Abbiamo convenuto che il conoscere se stessi è saggezza.
Al. Certo.
So. Allora non conoscendo noi stessi né essendo saggi potremmo conoscere le cose che ci appartengono, buone e cattive?
Al. E come sarebbe possibile, Socrate? […]
So. Chiunque ignori le cose sue, ignorerà, secondo questo ragionamento, anche quelle degli altri.
Al. Come no?
So. Dunque, se ignorerà quelle degli altri, ignorerà anche quelle della città.
Al. Necessariamente.
So. Un uomo del genere non potrebbe diventare un politico.
Al. No, di certo.
So. E neppure un amministratore. [134.a]
Al. Certo che no.
So. Ed effettivamente neppure saprà ciò che fa.
Al. No, infatti.
So. Ma chi non sa, non commetterà errori?
Al. Assolutamente sì.
So. E sbagliando, non
vivrà male sia in privato, sia in pubblico?
Al. Come no?
So. Vivendo male non sarà infelice?
Al. Certamente.
So. E che cosa mi dici su quelli per i quali agisce?
So. Anche costoro vivranno infelici.
So. Dunque non è possibile che, qualora uno non sia saggio e buono, sia felice. [134.b]
Al. Effettivamente, non è possibile.
So. Allora, gli uomini cattivi sono infelici.
Al. Assolutamente sì.
So. Dunque non chi ha acquistato ricchezza si libera dell’infelicità, ma chi è cresciuto in saggezza.
Al. È evidente.
So. Dunque, o Alcibiade, non di mura, né di triremi, né di cantieri navali hanno bisogno le città se vogliono essere felici, né di un ragguardevole numero di cittadini, se non posseggono la virtù.
Al. Certo che no.
So. Se tu hai intenzione di amministrare gli affari della città in modo retto e [134.c] bene, devi far partecipi i tuoi concittadini della virtù.
Al. Come no?
So. Ma uno potrebbe rendere partecipi altri di ciò che non possiede?
Al. E come?
So. Per prima cosa tu stesso dovrai conquistare la virtù, e anche un altro che intenda personalmente non solo su sé e sulle proprie
cose comandare e prendersene cura, ma anche sulla città e sugli affari della città.
Al. Hai ragione.
So. Allora bisogna che tu non procuri a te, né alla città, libertà assoluta e potere di fare qualunque cosa tu voglia, ma giustizia e saggezza.
Al. Appare evidente. [134.d]
So. Infatti, operando giustamente e saggiamente tu ed anche la città opererete in modo gradito al dio.
Al. È naturale che sia così.
So. E, cosa che dicevamo in precedenza, opererete guardando a ciò che è divino e luminoso.
Al. Evidentemente.
So. Ma effettivamente guardando alla luce divina, esaminerete e conoscerete voi stessi ed i vostri beni.
Al. Sì.
So. Di conseguenza opererete rettamente e bene?
Al. Sì. [134.e]
So. Ma effettivamente, se farete così, intendo garantirvi che sarete felici.
Al. Tu sei un garante sicuro.
So. Invece, se agirete ingiustamente, con l’occhio rivolto a ciò che è privo del divino e tenebroso, come è naturale, opererete in modo conforme a ciò e non conoscerete voi stessi.
Al. Naturalmente.
So. Di fatto, caro Alcibiade, qualora uno abbia la libertà di fare ciò che vuole, ma non abbia l’intelletto, che cosa è verosimile che gli accada, sia esso privato cittadino che città? Per esempio, quando uno che è malato, che non abbia conoscenze mediche e che abbia la libertà di fare ciò che [135.a] vuole e si comporti in modo tirannico tanto che nessuno in niente possa rimproverarlo, che cosa credi
che accadrà? Non credi che, come è naturale, verrà colpito il suo corpo?
Al. Hai ragione.
So. E in una nave, se uno avesse la possibilità di fare ciò che vuole, ma fosse privo dell’intelletto e della capacità propria del comandante, immagini ciò che capiterebbe a lui ed a quelli che viaggiano con lui?
Al. Certamente sì, morirebbero tutti.
So. Dunque, analogamente, nello Stato e in tutti i governi e [135.b] poteri assoluti privi della virtù si ha come conseguenza necessaria il vivere male?
Al. Necessariamente.
So. Dunque bisogna, o Alcibiade carissimo al mio cuore, che tu, se volete essere felici, non procuri né per te, né per la città il potere tirannico, ma la virtù.
Al. Hai ragione.
So. Prima di acquistare la virtù, è meglio per un uomo e non solo per un bambino, essere comandati da una persona più valente piuttosto che comandare.
Al. È naturale.
So. E ciò che è meglio non è anche più bello?
Al. Sì.
So. Ma ciò che è più bello non è anche ciò che è più conveniente? [135.c]
Al. E come no?
So. Non conviene allora all’uomo privo di virtù essere schiavo? Per lui è meglio.
Al. Sì.
So. La mancanza di virtù dunque si addice ad uno schiavo.
Al. Appare evidente.
So. La virtù, invece, si addice ad un uomo libero.
Al. Sì.
So. Dunque bisogna fuggire, o amico, dalla condizione dello schiavo?
Al. Assolutamente sì, o Socrate.
So. Tu ti rendi conto della condizione in cui ti trovi ora? Sei nella condizione di uomo libero o no?
Al. Credo di rendermene conto, anche troppo.
So. Sai dunque come venire fuori da questa tua condizione? Davanti ad un uomo così bello come tu sei non pronunciamone il nome. [135.d]
Al. Io sì.
So. Come?
Al. Se lo vuoi tu, o Socrate.
So. Non ti esprimi in modo corretto, o Alcibiade.
Al. Ma in che modo dovrei esprimermi?
So. Se è il dio a volerlo.
Al. Lo dico certamente allora. E, inoltre, dico questo, che correremo il rischio di modificare le parti, o Socrate, io prendendo la tua, tu la mia. Da oggi in avanti non ci sarà modo, infatti, in cui io non accompagnerò te come pedagogo e tu sarai accompagnato da me. [135.e]
So. O nobile ragazzo, il mio amore dunque non differirà dall’amore della cicogna, se presso di te avendo covato un amore alato, da questo sarà in cambio curata.
Al. Ma è proprio in questi termini e da ora inizierò a prendermi cura della giustizia.
So. Vorrei che tu arrivassi fino in fondo: ma ho paura, invece, non perché non mi fidi della tua natura, ma perché vedo la forza della città, che questa possa avere la meglio su di me e su di te.