Introduzione
Proponiamo una sintesi di un lungo percorso di analisi che si snoda attraverso vari articoli che la redazione ha pubblicato negli ultimi tre anni. L’intento è quello di indicare ciò che, a nostro modesto avviso, sono i contorni di una crisi socio-politica che trae le sue origini all’incirca dal primo lustro degli anni ‘80 e che, con successive accelerazioni, è giunta a determinare le attuali condizioni in cui versa la costellazione dell’antagonismo italiano che per convenzione consolidata definiremo movimento. Si tratta della rilettura critica di una fase storica particolarmente complessa, che ha visto susseguirsi avvenimenti la portata dei quali ha agito e influito sull’agire politico di un intero Paese. L’attuale situazione di disorientamento non è un fatto imputabile a singoli individui o gruppi politici, dal momento che vi è una indiscutibile omogeneità di problematiche cui tutti stiamo cercando di far fronte. Il punto è che purtroppo non tutti hanno la volontà di fare i conti con questa crisi.
Dobbiamo constatare che il movimento, pur con tutte le sue sfumature, non è in grado di interrogare la crisi, né quella della fase storica, e va da sé, né quella del suo stesso agire politico. Appare chiaro, almeno dal nostro punto di vista, che la complessità della nostra contemporaneità è tale da richiedere una capacità analitica che negli anni si è attenuata se non addirittura persa. Si è quindi assistito ad un processo nel quale si sono dismessi gli strumenti di analisi classici, senza riuscire a determinarne di nuovi. Qui non si cercano responsabili, semmai tenteremo una disamina per individuare quelle responsabilità storiche che collettivamente, più o meno consapevolmente, abbiamo deciso di assumere, in misura di una più o meno attiva partecipazione ad un processo di “espianto” degli organi di senso politico di un’intera generazione.
Una privazione autoindotta degli strumenti atti ad orientare, non tanto le scelte in sé, quanto le opportunità di confliggere in maniera decisiva con un sistema che andava dotandosi di anticorpi contro i quali non abbiamo avuto la prontezza di creare delle strategie. Il perché di tale esito potrebbe essere ricercato nel processo di sussunzione che il modo di riproduzione capitalista ha operato negli anni sull’intera società, non risparmiando neanche le opposizioni sociali.
La parola e la cosa
Il concetto di sussunzione è, con alterne sfortune, caduto in disuso come arcaismo lessicale nella spinta “innovatrice” che il movimento ebbe tra gli anni ‘90 e 2000 e poi riportato in auge quando non si avevano altri neologismi da sfoggiare. Il disuso dipese in larga misura dalla ventata di tarda postmodernità che accompagnò l’evaporazione dell’Unione Sovietica e l’imporsi della parola d’ordine “superare il novecento!” Parola d’ordine che in molti ambiti giungeva senza che il novecento fosse stato inteso nella sua portata storica, sociale e politica. Quegli anni furono cruciali dal momento che da un lato si ebbero le avvisaglie di ciò che sarebbe stato il futuro in termini di arretramento del conflitto sociale. Dall’altro la crisi della sinistra extraparlamentare e movimentista, nelle sue plurime sfaccettature, cominciava ad essere evidente. In quella fase molti concetti sono stati, nella migliore delle ipotesi, abbandonati, nella peggiore storpiati o soppiantati da un balbettio neolinguistico. Non fece ovviamente eccezione il concetto di sussunzione.
Crediamo che tale concetto abbia non solo titolarità ad essere utilizzato come utile esplicazione in un processo di comprensione della complessità della nostra fase attuale, ma debba forse essere rimesso in grado di estrinsecare tutta la sua significatività. Il senso del processo di sussunzione, per come lo intenderemo in queste righe, fa riferimento tanto al concetto marxiano di introiezione da parte del modo di riproduzione capitalista di processi che godono di autonomia fondativa, quanto come estensione del concetto espresso da Deleuze e Guattari per quanto concerne il suo significato antropo-culturale. Dobbiamo precisare che il concetto di Deleuze e Guattari cui facciamo riferimento è un costrutto teorico alquanto complesso, nel quale non è palese il termine di sussunzione. Si tratta di una rilettura dei processi legati al “corpo senza organi”, trattato sia nell’anti-Edipo (G. Deleuze, F. Guattari, L’anti-Edipo. Schizofrenia e capitalismo, 1975.) che in Mille piani (G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani: capitalismo e schizofrenia, 1980), riadattandolo alla “dominanza” del capitale sulla riproduzione sociale.
Il concetto di deterritorializzazione e riterritorializzazione (G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani: capitalismo e schizofrenia, 1980) non implica immediatamente e necessariamente la sussunzione capitalistica, ma nella sua complessità tale concetto può trovarvi comodamente dimora. Intendendo il processo di deterritorializzazione e riterritorializzazione come un avvenimento che modifica la matrice di un elemento o di un contesto, ma più estensivamente definibile come sistema, nel senso della ridefinizione delle sue precipue caratteristiche strutturali. Se i due autori lo utilizzano per rendere palese ciò che normalmente avviene nel rapporto ad esempio Terra-Territorio (G. Deleuze, F. Guattari, C. Arcuri, Che cos’è la filosofia,1996), in quanto estensione logica e necessaria del rapporto soggetto-oggetto, qui adotteremo questo meccanismo per tentare di spiegare come si innesca un cambiamento profondo all’interno dell’agire politico antagonista, con successive modificazioni che comportano poi un cambio di paradigma sostanziale dello stesso agire antagonista.
Se partiamo dall’assunto che il modo di riproduzione capitalista sia una tendenza polarizzante in sé che genera complessità, ossia che il principio primo del capitalismo sia l’accumulazione, dal quale deriva immediatamente la complessità necessaria per agire l’accumulazione, che paradossalmente si basa sulla circolazione del capitale, tanto negli infimi anfratti delle più remote periferie dei paesi più poveri, quanto nelle colossali transazioni finanziarie dei paesi a capitalismo avanzato (D. Harvey, L’enigma del capitale, 2010). Affinchè questo possa circolare per arricchire chi fattivamente lo mette in circolo, c’è bisogno che questa modalità venga strutturalmente accettata dalla società come necessaria, anzi come l’unica possibile. Da qui l’esigenza di irreggimentare, inglobare e ridefinire tutte le attività utili al raggiungimento dello scopo primario, ossia la polarizzazione di ogni attività umana all’accumulazione del capitale: la sussunzione. Con tutte le attività vanno intese non solo quelle produttive, ma anche quelle relazionali, sociali, civili e culturali.
Il discorso della mercificazione totale portato avanti negli anni dieci dei duemila, in un certo modo (più o meno consapevolmente) estendeva il concetto della fabbrica totale elaborato già negli anni ‘70 del novecento. Oggi siamo alla capitalizzazione delle relazioni, non solo in quanto tutto si è fatto merce, ma in quanto è il pensiero stesso che supporta le relazioni che agisce nel meccanismo di riproduzione del capitale. L’agire è non solo tutto interno al modo di riproduzione capitalista, ma questo intenziona le relazioni sociali, culturali e umane. Nel momento in cui il “tutto e subito” diviene un concetto assodato all’interno dei rapporti umani tanto in ambito lavorativo, quanto ricreativo, non è solo una deriva valoriale che la società ha assunto, è l’imprinting del dinamismo necessario ad agire il consumo di qualcosa, sia per rispondere alla necessità di appagare un desiderio di qualsivoglia natura, sia perchè si è sospinti a reagire alla pulsione in maniera immediata.
L’opera di deteriororializzazione potremmo pensarla, nel caso della sussunzione, come l’inoculazione di un pensiero o di un’idea, apparentemente innocua ma capace di scardinare la matrice della struttura che la incamera. Azione lenta e graduale che deve necessariamente passare dal processo di riterritorializzazione. Questo è in qualche modo il ciclo, che si ripete in una continua accettazione di un cambiamento e ridefinizione dello scopo dell’agire pur mantenendo immutata l’apparenza epifenomenica delle pratiche o delle parole d’ordine.
Ma come avviene l’inoculazione dell’idea è una questione particolarmente interessante, in quanto molto spesso si parte da considerazioni lecite, piccole sfumature o accettazione di qualcosa che appare ineluttabile.
Questo processo è fondamentale per comprendere che l’attuale crisi di movimento ha avuto origine da piccoli cambiamenti di prospettiva che sul lungo periodo hanno avuto come conseguenza radicali riposizionamenti. Un po’ come il famoso ‘butterfly effect’, un piccolo cambiamento delle condizioni iniziali porta a conseguenze radicalmente diverse rispetto ad un percorso. Riuscire a snudare questi piccoli mutamenti iniziali è dirimente per comprendere il presente. Cambiamenti successivi nella tattica hanno, a nostro modesto avviso, introdotto mutamenti sostanziali nelle strategie fino ad indurre una perdita dell’orientamento, un cambio di percorso. Dalla ricerca di percorsi di rottura col sistema si è via via passati a percorsi paralleli al sistema, alternativi in un senso altro rispetto alla ricerca di una destrutturazione radicale del sistema. Il naufragio tra le secche della narrazione ha costituito una battuta d’arresto nella necessaria ricerca di un futuro diverso rispetto al mondo che viene proposto come l’unico possibile.
Quando e come si sia scelto di anteporre alla narrazione dominante una narrazione alternativa non è facile dirlo, ma è necessario capirne almeno le ragioni. Quando all’organizzazione di relazioni stabili, operanti per cercare di contrastare la modalità di riproduzione capitalista che stava riducendo i territori e gli individui a risorse da sfruttare si è sostituita la narrazione “eroica”, al saper fare si è sostituito il solo far sapere. In questo, un ruolo decisivo lo hanno giocato i web-media che dalla fine degli anni ‘90 hanno cominciato ad assorbire la militanza dalle strade per riversarla nel nascente metaverso. Il mediattivismo ha sancito un passaggio cruciale nella narrazione. Dalla controinformazione come strumento necessario alla demolizione delle “verità di Stato” o al disvelamento dei retroscena di dinamiche economiche di saccheggio dei territori, si è man mano passati ad altro, alla cronaca minuto per minuto di ogni singolo evento. In qualche modo si è ceduto alle lusinghe dello strumento, forse in buona fede, credendo di poter competere con le modalità dei telegiornali e delle grandi testate.
Ma pur riconoscendo la buona fede, è pur vero che nel tempo ci si è sempre più spostati sul web, lasciando sguarniti quartieri, strade e piazze. Ovviamente non tutto è imputabile al solo miraggio della “rete libera”, c’era da fare i conti con la storia recente, con la quale quei conti non siamo riusciti a farli. C’era da bilanciare l’unica voce superstite della grande stagione dei metaracconti (le grandi ideologie) il liberismo, ed eravamo sempre meno attrezzati a farlo, poi eravamo semplicemente sempre meno, e il web sembrava ristabilire un certo equilibrio. Ma la rete non è libera, e non c’è equilibrio che non sia preordinato da chi la rete la gestisce. Eppure l’enorme spinta illusoria ha determinato un certo atteggiamento che ha di fatto digitalizzato la militanza, includendola in uno strumento del quale non si aveva e non si ha il controllo ma dal quale il più delle volte si è controllati. Un punto di accelerazione nel processo di sussunzione, la militanza che si fa narrazione esperienziale che viene poi inglobata (o peggio incapsulata) all’interno dell’evoluzione della tecnologia della comunicazione.
Nell’oceano multimediale nel quale basta un click per dire e proclamare qualcosa, la necessità stessa dell’organizzazione per comunicare viene meno, non serve un collettivo per stampare giornali politici e distribuirli per le strade o attaccare manifesti e murali. Basta l’idea e qualcuno che metta un link e nascono blog, pagine facebook, siti, portali ecc. Dimenticando che spesso l’organizzazione che c’era dietro a ciò che si esponeva era per certi versi più importante di ciò che si scriveva o diceva. Il paradigma si è capovolto aprendo la strada ai piccoli gruppi più o meno organizzati iperattivi in rete ma semi sconosciuti al loro stesso territorio. Una comodità non da poco per chi sorveglia, una sconfitta pesante per chi dovrebbe essere destato dal torpore attraverso l’agire politico militante nella vita reale.
Questi successivi cambiamenti negli strumenti di una lotta sempre più narrata e sempre meno praticata, hanno dettato il passo degli ultimi 25-30 anni. Cambiamenti diluiti nel tempo, ma che se letti diacronicamente forniscono la visione plastica di un processo di involuzione costante, costellato da fasi di accelerazione. Pur essendo consci che non è solo l’innesto narrativo (se vogliamo lo storytelling, l’agire affabulatorio o la mera propaganda) la causa unica della profonda crisi del movimento, dobbiamo riconoscere che ne rappresenta un punto di criticità di centrale importanza. Non solo in quanto sposta la strategia del conflitto da un piano organizzativo reale alla costruzione di un immaginario, ma in quanto consegna l’agire politico in primis ad una strumentalità di per sé strutturata sulla riproduzione capitalista, in seconda istanza assume modalità che finiscono con l’essere compatibili con tale principio riproduttivo, proprio in quanto agenti all’interno di quel capovolgimento paradigmatico cha ha trasferito il conflitto dal saper fare, al far sapere. É quindi nell’agire comunicativo che si fa conflitto che possiamo rintracciare la germinazione sussuntiva.
L’atto del sussumere rende il modo di riproduzione capitalistica capace di assorbire tutti i discorsi che lo riguardano, di qualunque segno siano, e li utilizza a suo favore come propulsori. Facendo leva di ogni opposizione per continuare a procedere e fagocitare altro. Non c’è parola, slogan e narrazione scagliata contro che non venga reimmessa nel flusso della comunicazione. La macchina funziona prescindendo integralmente dalle caratteristiche specifiche degli “antagonisti”. Le differenze sono normalizzate, se non addirittura annichilite, divenendo invarianti riconoscibili, pur se di volta in volta ricombinate, tendono a comporre ricorrenti déjà-vu.
Negli articoli che seguiranno cercheremo di mettere a nudo questo processo, tenendo sempre bene in considerazione la complementarità delle modalità di estrinsecarsi della sussunzione.