Pubblichiamo un saggio di Carla Panico dal titolo Le autonome. Storie di donne del Sud estratto dal volume Gli autonomi. L’Autonomia operaia meridionale. Napoli e Campania – Parte seconda (VOL. XI, DeriveApprodi, 2022) di recente pubblicazione.
Nel testo, l’autrice prova a tracciare – a nostro avviso con lucidità e schiettezza – le connessioni, spesso tortuose, tra i movimenti autonomi, i femminismi e la «questione meridionale», ponendo l’accento sulla difficoltà e sui nodi irrisolti dell’essere al contempo donna, femminista e militante al sud.
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Raccontare la storia dell’Autonomia meridionale, e raccontarla per giunta dal punto di vista delle donne, delle compagne, del complicato percorso di ibridazione e distanziamento dalla grande stagione politica del femminismo italiano ed europeo degli anni Settanta, è un’operazione complicata, difficile, che suona a tratti simile a un’eresia[1].
Provare a intraprendere questo percorso significa situarsi al centro di un triangolo tutto da tracciare: quello tra movimenti autonomi, femminismo e «questione meridionale»; un triangolo in cui ognuno dei tre vertici – va detto immediatamente – ha avuto, con entrambi gli altri, una relazione difficile, dolorosa, a tratti quasi impossibile. Un percorso che assomiglia a una ricerca nel vuoto; non un vuoto prodotto dall’assenza, ma dalla iperpresenza di significati e parole dissonanti, di storie reciprocamente conflittuali, di spaccature profondissime.
L’autonomia meridiana. Storia di chi parte e di chi resta
L’esistenza stessa del presente volume, che prova a raccontare la Storia dei collettivi autonomi vista da Sud, apre un dibattito sopito, rimasto troppo a lungo letargico: l’operaismo, lo sappiamo bene, come ipotesi teorica e pratica politica ha trovato le sue culle quasi naturali nelle catene di montaggio dei poli industriali del Nord Italia, nella centralità delle lotte operaie che hanno scosso le metropoli industrializzate; come pratica di analisi e pensiero ha fatto spesso – troppo spesso – fatica a immaginare, comprendere e tematizzare questa alterità impensabile costituita dal Meridione, dalle sue vaste aree non metropolitane, dalle sue campagne ribollenti eppure lasciate troppo spesso in pasto alla narrazione pietistica del Partito comunista. Le cicliche esplosioni delle insorgenze meridiane – bollate sempre come pre-moderne, pre-politiche, intrappolate in un eterno «non ancora» della storia dell’antagonismo – sono troppo spesso sfuggite anche alla comprensione dei compagni dell’autonomia, con qualche rara, preziosissima eccezione incarnata dal seminale lavoro di Alessandro Serafini e Luciano Ferrari-Bravo o dalla sferzante narrazione di Nanni Balestrini. E su questi treni che portavano i contadini del Sud a diventare operai nelle catene di montaggio del Nord che abbiamo appreso a considerare il ruolo e il carattere meridiano insito nella storia dell’operaismo; una storia che non parla della famigerata ed eternamente attesa alleanza tra contadini e operai, ma che ci racconta, al contrario, che i soggetti della rivolta non erano quelli a venire, idealizzati e segregati in un eterno non ancora, ma proprio gli stessi: quelli che incarnavano una storia di mobilità interna senza la quale non sarebbe esistito tanto lo sviluppo capitalistico del Paese intero quanto l’assalto al cielo che lo avrebbe messo radicalmente in discussione.
Quando pensiamo poi al ruolo delle donne del Meridione nei movimenti autonomi, dovremmo avere la possibilità e il tempo di indagare anche questa prospettiva; poiché abbiamo imparato da tempo che non esiste «questione meridionale» senza questione migratoria, che la storia d’Italia è – per intero – una storia di spostamenti di massa di forza-lavoro e delle eccedenze insite in questo movimento stesso, che hanno portato masse spossessate del Sud a invadere le metropoli del Nord, a costituirne l’elemento di frizione, di pericolo, di sovversione. Quanta di questa storia è una storia femminile? Tanto, troppo, più di quanto siamo abituate a vedere. Uno degli elementi che hanno inficiato il piano capitalista di spostamento regolato di forza-lavoro dal Sud al Nord – regolamentazione che aveva come obiettivo il mantenimento di un determinato rapporto tra occupazione e disoccupazione – è stata proprio l’eccedenza di reti affettive, familiari, relazionali che hanno portato più persone di quante fossero impiegabili a intraprendere la strada della migrazione. Se è vero che a partire per primi per essere trasformati in operai massa erano gli uomini, è innegabile che questo surplus, questa eccedenza sia stata determinata anche da una conseguente migrazione femminile, che all’inizio avveniva all’interno delle dinamiche dei ricongiungimenti e delle anguste frontiere della famiglia-nucleare, ma anche allargata. Ed è altrettanto vero che le progressive conquiste di maggiore autonomia femminile a partire dal ’68 e per tutti gli anni ‘70 corrispondevano anche a una progressiva apertura al fenomeno delle migrazioni autonome, legate allo studio o al lavoro, di molte donne.
Molte compagne che sarebbero state, poi, protagoniste di una stagione straordinaria di militanza, che avrebbero animato i collettivi studenteschi come quelli femministi, i gruppi organizzati dell’Autonomia in molte città del Centro-Nord, ma che forse non si sarebbero mai riconosciute del tutto come appartenenti anche a una storia meridiana, a una storia di emigrazione vecchia quanto lo Stato-Nazione.
La doppia militanza
Il femminismo italiano degli anni ’70 è stata un’esperienza prorompente e avanguardistica che avrebbe costituito un archivio di saperi e pratiche innovativo, molteplice, capace di costituire un punto di riferimento anche fuori dagli angusti confini nazionali e per molti decenni a venire. Croce e delizia, però, – e forse possiamo
dire più croce che delizia? – dei movimenti autonomi, delle comunità miste legate alla storia dell’operaismo.
Da un lato, la presenza e il peso delle compagne nelle pratiche di lotta dei collettivi autonomi su tutto il territorio nazionale non può in alcun momento essere messa in discussione, così come la produzione di specificità teoriche uniche anche nel panorama complessivo del movimento femminista di quella decade: la straordinaria capacità di tante compagne che proprio a partire da quella formazione marxista eterodossa, sporca, impura avrebbero saputo mettere a tema come poche la centralità del lavoro nell’articolare la divisione
di genere, permettere l’emersione del lavoro domestico e di cura come forme di sfruttamento che costituivano la precondizione di tutte le altre – e l’emersione della gratuità di tale lavoro come precondizione all’esistenza di tutte le altre lotte -, rivoltare la teoria marxista come un calzino, fuori dai dogmi delle letture di partito o d’accademia.
Sono gli anni dominati dal dibattito sul salario al lavoro domestico, della campagna nazionale e internazionale che ebbe visibilità anche grazie al grande enorme lavoro teorico di Silvia Federici, che nel 1975 pubblicava Wages Against Housework[2]. In Italia, la campagna viene inizialmente portata avanti nell’esperienza di Lotta femminista, nata agli inizi degli anni 70 e in conseguenza dei movimenti studenteschi e operai del biennio ’68-69: le ragazze e le donne – studentesse, ricercatrici, insegnanti, lavoratrici – che avevano preso parte attiva alle mobilitazioni si ritrovano a chiedersi quanto ne avessero guadagnato in cambio, quanto fossero effettivamente cambiati i rapporti tra loro e i loro compagni – di lotta e di vita – e quanto fosse stato messo in discussione di quelle relazioni sessiste che avevano imparato a riconoscere bene all’interno delle proprie case e delle proprie famiglie. I Gruppi per il salario al lavoro domestico nati nel ’74 a seguito dello scioglimento di Lotta femminista dopo grandi e dolorose discussioni e fratture interne – hanno un carattere molto più ibrido, poiché, sebbene in varie città vengano inizialmente formati anche da tante donne che vengono dall’esperienza di Potere Operaio, diventano subito spazi che rivendicano una propria autonomia rispetto a partiti e anche a organizzazioni politiche miste, dato che tengono al loro interno donne dalle provenienze politiche più disparate. È importante qui sottolineare la capillarità della nascita di questi gruppi, che, a differenza di molte altre campagne, nascono e fioriscono anche al di fuori delle grandi città e in moltissime aree semi-periferiche del Sud: Napoli, ma anche Pescara, Salerno, Gela, Caltanissetta.
Dobbiamo qui comprendere che questi gruppi non si riconoscevano direttamente nella «famiglia dell’operaismo», ma rivendicavano innanzitutto la propria autonomia – praticata anche attraverso il separatismo – ed erano costituiti, su ogni territorio, da una composizione differente. Proprio il carattere così strettamente legato ai temi della riproduzione della vita ne faceva un campo di lotta trasversale.
Come ha notato Anna Rossi Doria, infatti, «negli anni Settanta, a differenza di quel che avvenne in seguito, il femminismo italiano era stato invece prima di tutto una pratica politica che aveva profondamente trasformato la coscienza e la vita di molte migliaia di donne, in tutte le regioni italiane, in città grandi e piccole, anche in moltissimi paesi». [La stessa autrice nota più avanti che «le prime femministe si erano già formate politicamente, militando per lo pi in gruppi di estrema sinistra» e che «mancano studi su questi precedenti così come sul fenomeno della doppia militanza e del femminismo sindacale»[3]. Questa relazione complicata tra rivendicazioni capillari e «doppia militanza» in gruppi organizzati, che rese molto complicata l’articolazione tra la richiesta del salario per il lavoro domestico e, parallelamente, la centralità delle lotte sul lavoro salariato – per quanto riguardava il lavoro «fuori casa» – si rese ancora più sfumata in molte città del Sud, dove lo stesso concetto di lavoro salariato assumeva, soprattutto per le donne, confini molto più labili e informali – basti pensare al caso delle lotte delle disoccupate organizzate a Napoli, di cui parleremo più avanti. Le campagne per il salario vanno di pari passo, negli stessi anni, alle grandi battaglie per i diritti civili che si situano proprio nell’intersezione tra produzione e riproduzione. La battaglia per il referendum sul divorzio – vinta con l’approvazione della legge del 1° dicembre 1970 – e poi quella per l’aborto diventano temi centrali su cui si concentrano gli sforzi di tutti i gruppi femministi e fa presa capillarmente anche nelle città periferiche del Sud: basti citare la grande manifestazione organizzata il 5 dicembre 1975 – del giorno precedente a una delle più grandi manifestazioni nazionali sull’aborto a Roma – dal Movimento femminista brindisino.
Tuttavia, il tema dell’aborto non viene affrontato solo nei termini della campagna per l’approvazione della legge. Le compagne avevano presto capito che la pratica dell’obiezione di coscienza sarebbe stata la scappatoia perfetta per continuare a limitare il diritto delle donne ad accedere all’interruzione di gravidanza. Per tutta la durata degli anni Settanta si sviluppano esperienze di reti clandestine di donne che sostenevano e praticavano gli aborti tramite l’aiuto di personale medico complice e/o che offrivano sostegno e supporto alle donne che si erano dovute rivolgere a chi praticava aborti clandestini a pagamento, senza particolare cura della salute a chi vi era coinvolto. E il caso del primo collettivo femminista fondato a Catanzaro tra il ’75 e il ‘76, che teneva insieme donne con una storica militanza in soggetti come l’Unione donne italiane (Udi), ma anche studentesse e giovani compagne che praticavano la «doppia militanza» nei gruppi dell’Autonomia.
Come racconta in una intervista la regista Teresa Rossano, il collettivo era fondato sulle pratiche di self-help, tra cui sedute collettive di esplorazione reciproca e di se stesse con l’utilizzo di speculum in plastica comprati appositamente per praticare «autovisite» guidate sia da letture di testi femministi quali Noi e il nostro corpo, a cura del The boston women’s heath book collective[4], sia dalla presenza di compagne ostetriche. Una delle questioni centrali era organizzarsi per l’accesso alla contraccezione. La situazione in città da questo punto di vista risultava tragica: la quasi totalità di medici e farmacisti avrebbe immediatamente avvertito le famiglie delle ragazze che si fossero eventualmente rivolte a loro. La situazione non poteva che peggiorare nel caso in cui si fosse reso necessario praticare l’interruzione volontaria di gravidanza. Esistevano i cosiddetti «cucchiai d’oro», medici rispettabili, cattolici e tendenzialmente conservatori che praticavano aborti clandestini nelle loro cliniche private a prezzi estremamente esosi, approfittando della condizione di estrema ricattabilità delle persone coinvolte, che le rendeva anche frequenti prede di molestie sessuali da parte degli stessi medici. In questi casi, le compagne si organizzavano per raccogliere il denaro necessario per aiutare le donne che si rivolgevano a queste cliniche. Tuttavia, molto spesso le condizioni socio-economiche di partenza delle donne che avevano bisogno dell’IGV erano talmente difficili da non metterle nelle condizioni di accedere a questi metodi, più sicuri seppur discutibili. In questi casi la pratica di aborti «casalinghi» realizzati con metodi e mezzi fatti in casa – il tavolo della cucina, i ferri da calza – era ancora estremamente diffusa, producendo esperienze fisicamente ed emotivamente traumatiche che alcune di queste donne sarebbero riuscite a condividere solo attraverso la pratica dell’autocoscienza. I vari gruppi di autocoscienza ponevano quelli che oggi chiameremmo dei problemi intersezionali: infatti, solo alcuni di essi tenevano insieme donne di estrazioni sociali diverse – studentesse, militanti, casalinghe delle periferie della città – permettendo la condivisione di esperienze variegate e una maggiore consapevolezza delle relazioni di potere interne ai rapporti tra donne.
Dobbiamo considerare che la pratica degli aborti clandestini realizzati con mezzi di fortuna torna come questione molto importante anche quando si parla di una categoria di donne molto specifica: le compagne che si avvicinavano alla lotta armata e entravano, dalla seconda metà degli anni Settanta in poi, nei gruppi clandestini. La clandestinità imponeva la necessità di ricorrere a queste pratiche discrete e pericolose anche dopo l’approvazione della legge 194. Tracce rare e dolorose di queste vicende affiorano nelle memorie delle militanti che si trovavano a condividere con le compagne queste esperienze traumatiche, che molto spesso non trovano spazio nel racconto della militanza clandestina e nella storia dei gruppi armati.
Del resto, essere donne in gruppi quali Prima linea poneva alcune questioni non marginali. Molto spesso era proprio questo passaggio a sancire la rottura del seppur contraddittorio equilibrio della «doppia militanza», poiché questo passaggio, normalmente, metteva davanti a una scelta di campo netta tra femminismo e lotta armata. Molte compagne si trovarono stretta in questa scelta forzata, e decisero di allontanarsi dai gruppi armati oppure di mettere in stand by la propria militanza femminista.
C’è un aspetto, a questo punto, su cui bisogna essere molto netti: le comunità legate all’operaismo sono sempre state – e soprattutto si sono sempre rappresentate, nella percezione esterna e nell’autopercezione – comunità dai tratti estremamente maschilizzati, con dinamiche di potere e relazioni di forza che difficilmente riuscivano a scardinare in maniera decisiva certe dinamiche patriarcali della leadership, della visibilità, del doppio standard.
Questa vicenda complessa va compresa e analizzata su due binari che si articolano in un binarismo internità/esternità molto più poroso e complesso di quello che si potrebbe, a prima vista, pensare. Una alterità forte tra storia dei movimenti operai e storia del movimento femminista «esterno» – quello dei collettivi esclusivamente separatisti nati a stretto contatto con le pratiche di autocoscienza, ad esempio il collettivo de Le Nemesiache a Napoli, che esisteva in contemporanea ma in modo del tutto parallelo ai gruppi separatisti delle femministe dell’Autonomia napoletana – che, a tratti e in diversi contesti, sfociava in una reciproca diffidenza e ostilità. D’altra parte, però, una presenza forte, cosciente e organizzata di compagne che praticavano quella che chiameremmo – con una definizione di certo passibile di aggiustamenti e critiche – la doppia militanza», ovvero che si riconoscevano come parti integranti di collettivi autonomi ma che, nel frattempo, si riconoscevano in un femminismo proprio, articolato e al tempo stesso separato dai processi collettivi portati avanti con i compagni, fondato, molto spesso, anche sulla necessità e sulla voglia di strappare tempi e spazi «tutti per sé», in cui parlarsi, comprendersi, lottare dando priorità al riconoscimento reciproco di questa alterità, resistendo al maschilismo imperante della società capitalista ma anche a quello che sapevano riconoscere riprodotto in nuove forme all’interno delle proprie comunità politiche. Questa storia, questa vita di immersione nelle comunità miste dell’autonomia, ma al tempo stesso di sperimentazione quotidiana di una alterità difficile, è – va detto con chiarezza – una storia piena di forza ma anche di dolore, di ferite aperte, di rotture e allontanamenti, di strappi mai ricuciti che non riguardano soltanto errori e intoppi nel percorso dei movimenti, ma che investono anche violentemente le storie singole e le vite personali – e, come si sarebbe detto allora e come ci continuiamo a dire oggi, cosa c’è di più politico di ciò che è personale?
Un capitolo a parte andrebbe qui aperto a proposito di una questione che risulta difficile aprire, un vaso di Pandora che andrebbe, finalmente, scoperchiato collettivamente ed esorcizzato, forse una volta per tutte. Ed è il tema indicibile della violenza di genere interna ai movimenti, che ha attraversato i movimenti autonomi a tutte le latitudini, che nel Meridione si è articolata e sovrapposta alla violenza delle famiglie di provenienza, dei padri, dei mariti.
Si tratta di una violenza pervasiva e strutturale, sia privata che pubblica, sia singola che collettiva. Che si esprimeva sia in una costante doppia morale e doppia etica politica tra proclami teorici che non corrispondevano, poi, a pratiche di vita e relazione, contraddizioni costanti tra il profilo pubblico dei compagni che «di pomeriggio, in assemblea, facevano certe dichiarazioni e poi la sera si comportavano in tutt’altro modo, facendo pressioni, avendo comportamenti maschilisti» come raccontato da una militante intervistata. Così come la costruzione di relazioni affettive e amicali con le compagne che si rivelavano strutturalmente tossiche, abusive e che passavano spesso – troppo spesso – sotto silenzio.
Ma una violenza che spesso – questo non può essere nascosto – si è esercitata anche come vera e propria pratica politica, mediante aggressioni fisiche delle compagne negli spezzoni femministi dei cortei quando si valutava che queste andassero «rimesse al proprio posto» perché si erano prese troppo spazio e troppo protagonismo nel movimento. Esistono casi molto netti in cui ciò si è verificato nella storia dell’autonomia nel Meridione, ma, come purtroppo sappiamo bene, anche in altri luoghi e territori, a partire dal famoso confitto durante la manifestazione nazionale contro l’aborto a Roma del 6 dicembre 1975, quando esponenti di Lotta continua cercarono di forzare violentemente il servizio d’ordine femminista – composto anche dalle militanti della stessa organizzazione – per invadere la testa separatista del corteo.
La contraddizione della «doppia militanza» significava anche misurarsi con una maschilità che troppo spesso non aveva strumenti minimi per mettersi in discussione e che tracciava solchi profondissimi, poiché le relazioni tra compagni e compagne all’interno dei gruppi erano generalmente non solo relazioni politiche ma anche di affetto, amore, fratellanza.
Una violenza presente come un rumore di fondo in maniera implicita o esplicita in tutti i racconti delle compagne che ricordano quegli anni. Una violenza che ha lasciato ferite aperte, profondissime, che ha fatto allontanare e desistere tante compagne e ne ha marchiate per sempre altre, che pure hanno fatto la scelta di non rinnegare e non dissociarsi.
Credo che questa violenza faccia parte, che lo vogliamo o no, della storia che stiamo raccontando e che di questo dobbiamo fare i carico. Ma credo che sia un processo di racconto e narrazione molto complesso e lungo che non spetta a me compiere, poiché credo che il femminismo ci insegni anche che ognuna ha diritto alla propria storia. Non voglio essere io a raccontare quella delle altre, ma mi fa piacere condividere la riflessione di una compagna che mi ha voluto raccontare la sua, dicendomi: «Su questo tema non si tratta di fare troppi discorsi o troppa filosofia. La violenza all’interno dei movimenti ci mette semplicemente davanti alle domande: Che significa essere compagni? Che mondo vogliamo costruire insieme?».
Cosa significa essere «donne del Sud»? Esotizzazione, autoassoluzioni, resistenze
Se a questo quadro – politicamente, analiticamente e storicamente complesso – aggiungiamo il terzo asse della nostra analisi, la «questione meridionale», ci rendiamo immediatamente conto che neppure il concetto di «doppia militanza» ci basta a comprendere la complessità delle soggettività a cui stiamo facendo riferimento. Stabilire le linee di confine tra appartenenza e adesione a una specifica visione politica che prevede specifiche cassette degli attrezzi e specifici archivi di pratiche, come è quella dell’operaismo in un territorio complesso da definire politicamente, situare storicamente, delimitare geograficamente come il Sud Italia è un’operazione quasi illusoria. Per farlo, per rintracciare i segni della scintilla dell’autonomia intesa come postura politica di fronte allo sfruttamento capitalista – ma anche di fronte alle strutture della sinistra tradizionale – è necessario innanzitutto forzare le categorie stesse, reinventarle, immaginarle come altre.
Un discorso simile, ma estremamente più complesso, va fatto se proviamo a teorizzare il femminismo – la sua storia nazionale e le sue pratiche – a partire dallo stesso sguardo meridiano.
Una riflessione va posta sul piatto immediatamente: sono convinta, personalmente, che il femminismo italiano non sia mai riuscito e non riesce ancora a tematizzare questa differenza interna, a fare i conti con la differenza meridionale che pure innerva, inevitabilmente, qualsiasi aspetto della Storia d’Italia.
La presenza del Sud nel discorso femminista, storicamente, appare di rado e sempre nei termini di una doppia assenza, di uno sguardo doppiamente colonizzatore – che investe i territori tanto quanto le soggettività, soprattutto quelle subalternizzate, silenziate, raccontate doppiamente con una lingua altrui che parla per loro il lessico dell’oppressione.
Da un lato, un racconto atavico e coloniale – nel senso più proprio e letterale del termine – vede nel Meridione il luogo dell’arretratezza, residuo quasi anacronistico di un patriarcato pervasivo, demodé, quasi teatrale, con le sue performance grottesche e il suo destino immutabile di gattopardiana memoria, evocatore di fantasmi della maschilità quali la criminalità organizzata – nella sua forma più cinematografica, legata a rituali e simboli evidenti, invece che nella sua veste di fenomeno finanziario-capitalista più che moderno. Specularmente, a tale immagine corrisponde quella della donna del Sud, ombra muta che nasce già vecchia, stretta nel fazzoletto nero di un lutto ancestrale, condannata con rassegnazione a portare la croce della propria maledizione, che la vuole eternamente non emancipata, non moderna, non abbastanza – neppure nei casi in cui tale tradizionalità viene esotizzata e abbellita ai fini del consumo di un immaginario erotico banalizzante.
Dall’altro, emerge a tratti una narrazione altrettanto tossica pericolosa, quella che vede nel Sud la culla di un matriarcato ipotetico e perfetto, un luogo fuori dal tempo e dallo spazio, dai rapporti di forza di una società capitalista e eteropatriarcale, in cui il femminismo «non servirebbe» perché il potere, erroneamente fatto corrispondere alla piena attribuzione della responsabilità della gestione domestica – anche quando con «domestico» si fa riferimento a strutture familiari allargate, legate a una economia agricola e informale, e quindi, di fatto, «familiare» – sarebbe già ipoteticamente in mano alle «donne di casa». Questa narrativa, che innanzitutto invisibilizza la violenza dello sfruttamento moltiplicato del lavoro domestico e esterno alla casa, nonché di quello che oggi chiameremmo il «mental gap», va a sua volta rifiutata in toto: innanzitutto perché autoassolutoria del potere maschile, poi perché a sua volta coloniale. Non c’è matriarcato nel Meridione come non c’è mai stato in alcuna società capitalista, e l’evocazione stessa di questo concetto si porta dietro un modo specifico di costruire l’alterità tramite l’esotizzazione, che l’antropologia coloniale eurocentrica e maschile ha classicamente riservato alla rappresentazione delle società ritenute come premoderne.
Certo, non si può negare che la questione delle relazioni familiari sia particolarmente complessa nel Sud Italia, sebbene in modi ben lontani dalla narrazione del «familismo amorale» di Banfield[5], che ha avuto – e continua ad avere – un successo tutto politico. Il contesto prevedeva – e forse in parte ancora prevede – la presenza di famiglie – spesso allargate – da cui era difficile allontanarsi, considerate, ad esempio, le maggiori difficoltà di accesso delle donne all’istruzione superiore, la presenza di pochi poli universitari vicini a casa e la difficoltà – economica e culturale per le ragazze di spostarsi per frequentare l’università da fuori sede.
Per questo, soprattutto nelle zone più povere e/o più periferiche, succedeva spesso che le ragazze si sposassero giovanissime, passando direttamente dal ruolo di figlie a quello di madri e mogli. Non a caso, «Non più madri moglie e figlie, distruggiamo le famiglie», recitava un coro che si sentiva spesso per le strade di Napoli nelle manifestazioni degli anni Settanta. La distruzione di questo paradigma, la rottura che molto spesso era necessario operare – a seconda delle condizioni – sia con la famiglia di origine che con quella nuova, costituisce un tratto comune alle vicende di molte militanti dell’Autonomia al Sud, mediante processi difficili, dolorosi e violenti.
Al netto di grandi narrazioni semplificatorie, invece, è proprio all’interno di questa complessità enorme che dobbiamo provare a muoverci, tenendo presente la stessa ipotesi di lavoro che abbiamo finora evocato. Molte delle categorie classiche, del femminismo italiano come dell’operaismo, non funzionano o non funzionano a pieno se non facciamo lo sforzo – necessariamente collettivo – di rinegoziarle nei luoghi e sui territori. Ciò che dovremmo iniziare a compiere è proprio una ricerca capillare di quelle tracce di scintille autonomia che da sempre hanno caratterizzato le vite e le lotte delle donne meridionali, e, forse, provare da queste a desumere nuove categorie di analisi che – lo dico con sincerità -ancora non abbiamo.
Anche provando a circoscrivere l’analisi a tempi e strutture politiche ben determinate – e il caso de «le Autonome» ne è un esempio evidente – ci accorgiamo di quanto facilmente i confini si sfilaccino, gli spazi si dilatino, le divisioni entrino in confusione. La presenza di esperienze femministe durante tutti gli anni Settanta punteggia l’intera mappa del Meridione: eppure è una presenza ibrida, spuria, caratterizzata da dis/appartenenze molto meno nitide di quelle di altri luoghi d’Italia negli stessi anni. Così come l’autonomia, il femminismo appare e scompare in diverse forme che con essa in parte si sovrappongono, in parte si distanziano radicalmente.
All’interno delle esperienze più legate all’Autonomia – questo è un punto che mi preme sottolineare – non si trova traccia di una riflessione vera e propria da parte delle compagne su cosa significasse essere «donne del Sud». Si avvertiva, probabilmente, una differenza con le compagne settentrionali, eppure tale questione era una presenza tacita, che si articolava insieme ad altre, più evidenti e non meno ingombranti nei tentativi di creare alleanze sui territori, come quella tra metropoli e periferie, tra donne di classi diverse e di differenti gradi di istruzione.
Emblematico è il caso di Napoli, una delle esperienze più articolate e organizzate di collettivo femminista interno all’autonomia di tutto il Sud Italia. Le compagne vicine ai gruppi dell’Autonomia si organizzavano in base al principio della doppia militanza anche in collettivi separatisti di sole donne; tuttavia, scarsi sembrano essere i contatti diretti tra le compagne di Napoli e quelle di altre esperienze del Sud, mentre per lo più ricordano i contatti nazionali con i gruppi omologhi di Milano o Roma – nell’organizzazione di campagne, manifestazioni e assemblee nazionali che per lo più si svolgevano al Nord, favorendo, forse, la relazione tra grandi città metropolitane invece che tra le diverse e mal collegate realtà meridionali.
D’altro canto, in questa mappatura non si può ignorare anche la presenza di molteplici esperienze di lotte non direttamente orientate da rivendicazioni di emancipazione di genere né, tantomeno, autopercepite direttamente all’interno di una coscienza femminista. Eppure, sono esperienze seminali nella costruzione di forme di resistenza radicale ma anche nella produzione di una nuova autonomia nelle proprie vite, per donne che erano state destinate dal contesto e dalla origine di classe alla prigione della vita domestica.
Nella città esistevano diversi gruppi femministi con anime e pratiche differenti, ma anche realtà di lotta che vedevano un grande protagonismo femminile ma che non si iscrivevano affatto nella tradizione delle rivendicazioni femministe. Ne sono un esempio le campagne per la riduzione delle bollette negli anni Settanta, spesso legate a pratiche diffuse di occupazioni abitative – ma che non riguardavano esclusivamente le case occupate – durante le quali le lotte per riappropriarsi indirettamente di queste forme di welfare erano gestite principalmente da reti di donne, in prima battuta poiché la loro presenza in casa permetteva di tenere sotto controllo l’arrivo della polizia per eventuali sgomberi oppure di funzionari che volevano operare il distacco delle utenze, e potevano prontamente chiamare a raccolta le altre per scongiurare il pericolo.
Grande è la presenza femminile nelle liste di lotta dei Disoccupati organizzati di Napoli, soprattutto nella cosiddetta «seconda fase» del movimento, quella post-settantasette: certo, le donne nei coordinamenti dei disoccupati c’erano sempre state, ma, come scrive Fabrizia Raimondino, «il loro protagonismo era stato molto limitato e più che altro legato alla presenza, nelle stesse liste, di mariti e fidanzati»[6]. Inizialmente, infatti, le donne venivano inviate al posto degli uomini a «prendere la presenza» alle manifestazioni – secondo la tradizionale organizzazione del movimento dei disoccupati – poiché meno impegnate.
Anche in questo caso la complessità del fenomeno rispetto alla dimensione generale dei movimenti femministi è notevole.
«Nelle liste, invece, e nelle manifestazioni – a parlare è la disoccupata Lucia – oggi c’è una presenza anche massiccia, una percentuale forte di donne. Che vogliono lavorare, che vogliono il salario; non è una presenza autonoma, non ha riferimento a tematiche di altro tipo come il femminismo, che qui è stata una esperienza completamente elitaria, intellettualistica e lontana dai problemi concreti più che nelle altre città; però è importante, caratterizza il movimento»[7]. Questa presenza costante in contesti di movimento, unita al contatto con le compagne dell’Autonomia che avevano avuto accesso a un livello di istruzione e formazione politica mediamente più alto, produceva necessariamente un processo emancipatorio: attraverso il protagonismo nella lotta, queste donne scoprivano una dimensione esterna a quella domestica, la possibilità di un salario proprio, tutti elementi che mettevano piuttosto in crisi i rapporti di forza in cui erano inserite all’interno delle famiglie di provenienza o dei nuclei familiari in cui fungevano da madri e da mogli, spesso giovanissime: questo processo produceva spesso rotture violentissime all’interno delle famiglie, poiché questa progressiva autonomia guadagnata dalle donne inaspriva brutalmente la violenza domestica a cui erano sottoposte. Tuttavia, raramente le aggressioni fisiche e verbali dei mariti servivano a riportarle al ruolo in cui erano state costrette in origine. Anzi, come racconta Mariella Toledo, «in quegli anni si producono alleanze che continueranno a lasciare traccia nelle decadi successive, in cui molte donne che venivano dall’esperienza delle disoccupate organizzate – tra tutte, spicca sicuramente quella delle disoccupate di Acerra, famose, tra le altre cose, per il grande protagonismo femminile e per la storica leader Consiglia Terracciano, scomparsa nel 2018 – si sarebbero avvicinate e spese anche per altre cause politiche non più solo locali». È importante sottolineare questo aspetto poiché molto spesso esiste una visione coloniale estremamente violenta delle classi popolari meridionali che utilizza anche il femminismo come arma di potere/sapere, immaginando donne costrette eternamente nella propria incapacità di teorizzare e quindi di emanciparsi e/o facili prede e vittime da trattare con paternalismo. La relazione tra queste donne e le compagne che avevano avuto accesso a una formazione politica e accademica era anche caratterizzata da un grande desiderio delle prime di apprendere e avere maggiori strumenti teorici per comprendere il mondo e la propria condizione al fine di produrre nuovi armi di lotta che migliorassero le proprie vite, ma non solo ed esclusivamente quelle.
Forse è proprio in questa necessaria ibridazione – in questa osmosi forzata tra dentro e fuori, dalle forzature di categorie troppo pure per contenere le eccedenze di vite meridiane e irriducibili ai dettami del patriarcato – ma che forse avrebbero fatto e farebbero ancora storcere il naso tanto ai puristi della lotta di classe quanto alle puriste di un femminismo troppo lineare e sviluppista – che si rintraccia la grana irregolare di cui è composta l’anomalia meridiana.
Conclusioni. Per un femminismo meridionale a venire
Il lavoro da compiere per ricostruire questa storia è appena iniziato. Credo, con assoluta convinzione, che debba essere un lavoro collettivo, molteplice, che accolga le voci di tutte e che indaghi proprio i sottili limiti tra le esperienze de Le autonome femministe e le esperienze autonome di femminismo a Sud, che metta in discussione la divisione tra politico e non politico – sia dal punto di vista dell’opposizione tra politico e pre-politico, di cui si nutre buona parte della letteratura coloniale sul Meridione, sia di quella tra politico e personale, che molto spesso domina le aree di movimento e ne silenzia le contraddizioni interne. Ma è un lavoro che necessita di tempi e spazi diversi, di riaprire grandi discussioni collettive, di tessere nuove reti, perché le pratiche di questa molteplice alterità che è l’esperienza femminista meridionale sono molto, molto di più di ciò che può essere contenuto in un capitolo di un libro con un titolo al maschile.
Per riuscire a tematizzare questa doppia subalternità – femminile e meridionale – che attraversa la storia d’Italia e quella dei movimenti servirebbe, forse, quello che oggi chiameremmo uno sguardo e una pratica intersezionale, con un femminismo in grado di vedere il genere insieme alla classe, alla razza, all’orientamento sessuale, alla meridionalità come ulteriore asse di intersezione che ancora ci manca e che pure è tacitamente presente nelle nostre esistenze, elemento di dolore e forza che risulta ancora tanto indicibile.
È una sfida enorme per chi fa il mestiere della storica – e per chi, come me, si sente coinvolta direttamente nelle vicende narrate a causa della propria biografia meridionale e della propria storia politica, ma che, d’altra parte, appartiene a una generazione diversa da quella di chi ha vissuto le vicende che qui si prova a ricostruire e non gode del privilegio dell’osservazione diretta – non guardare al passato usando categorie politiche e analitiche che appartengono più al proprio presente. Eppure, questo processo è inevitabile quanto, in alcuni casi, necessario, purché venga sempre riconosciuto e reso esplicito.
Trovarsi a scrivere di femminismo nell’anno 2020 pare una sfida beffarda, un fare e disfare ossessivo e a tratti frustrante, una forma estrema del supplizio di Sisifo.
Una femminista che poco ha che fare con il tempo e il luogo di cui ci stiamo occupando in questo volume – sebbene si muova e pensi a partire da altri Sud che, in fondo in fondo, qualcosa in comune con il nostro ce l’hanno – definisce il femminismo come «Il contrario della solitudine»[8].
Questa definizione torna in mente in maniera tonante in questo anno terribile, che di solitudine sembra fatto nella sua più profonda materialità, che con questa solitudine mette alla prova, in fondo, non solo le categorie della priorità del femminismo – la cura, il contatto, la prossimità, la relazione tra persone – ma quelle stesse della militanza, del movimento, dell’opposizione.
Ecco perché, forse, se dovessi definire ciò che la militanza dovrebbe essere userei proprio queste stesse parole: il contrario della solitudine.
Quando il lavoro su questo volume e su questo testo è iniziato vivevamo – va detto senza mezzi termini – in un mondo diverso da quello in cui lo consegniamo alle stampe.
Un mondo che mette a dura prova le categorie politiche e teoriche, quelle di lettura, studio e narrazione e ci impone di pensarne di nuove, che siano frutto di un tempo in cui i movimenti autonomi, per come li conoscevamo, sembrano dissolti – o per lo meno sembrano aver esaurito il loro compito storico di fare presa sul presente. Non a caso, è proprio il femminismo – o, il contrario della solitudine – che ci è venuto in aiuto, fornendoci strumenti vecchi e nuovi per affrontare questa nuova fase, per saper parlare di vulnerabilità, di malattia, di lutto, di cura. Cura, certo, come quella forza collettiva molteplice che abbiamo vissuto tra centri sociali che si sono trasformati in mense e centri di smistamento di aiuti e pacchi spesa e piazze che abbiamo deciso, soprattutto in molte città del Sud, che fosse necessario tornare a riempire, con le giuste precauzioni nei confronti di tutte e tutti.
Così come i movimenti sociali sono carsici, spariscono dalla scena solo apparentemente per continuare a scorrere silenziosi sotto la superficie e ri-insorgere con nuove torme e incarnati in nuovi soggetti, così mi convinco che facciano anche alcuni temi, alcuni nodi mai sciolti, alcune ferite sempre aperte in cui i movimenti sono incappati. Quello che ho imparato dal femminismo, però, è che la riemersione di tali fratture che porta con sé anche un potenziale enorme, quello di riconoscersi reciprocamente a partire dalle stesse vulnerabilità e da simili ostinazioni, di riprendere le fila di discorsi mai conclusi e ritesserli con materiali nuovi, tra generazioni e lingue diverse. Ho provato a proporre in queste pagine una carrellata di temi che mi sembrano costituire ferite ancora aperte e mai rimarginate, campi di battaglie ancora tutte da combattere, convinta che la narrazione collettiva sia una pratica femminista di guarigione, riconoscimento e resistenza, per continuare la lotta.
Ho cercato me stessa tra le contraddizioni e dolori della doppia militanza, e ho trovato le donne della mia famiglia – anche quelle che, con «la testardaggine di chi ha partorito nei campi»[9] non si sono mai immaginate di potersi dire femministe – ma anche le compagne della mia generazione, che riempiono le piazze e creano reti contro la violenza al grido di «Non una di meno», che lottano contro la precarietà, lo sfruttamento, i nuovi fascismi nazionalisti e che faticano ogni giorno per trovare un equilibrio tra le sfide del femminismo e questo senso di inadeguatezza che essere «donne del Sud» ci fa sentire addosso rispetto a uno standard per cui non siamo mai abbastanza. Ho trovato la voglia di restare e il desiderio di fuga, dalle proprie famiglie, dalla propria terra, anche dalle proprie comunità politiche che sono ancora lontane da quello che ci meritiamo – e mi sono ricordata che anche la sottrazione non è un arrendersi, ma un gesto femminista, un modo per lasciare una crepa aperta, una forma di sciopero da ciò che ci si aspetta da noi.
Il lavoro da compiere è a venire e richiede tempo, forza e una grande dose di cura reciproca.
Ma il femminismo non può – non deve – mai considerarsi un progetto concluso, perché trae forza dal rinegoziarsi quotidianamente in tempi e spazi differenti, che ci pongono davanti contraddizioni e alleanze inedite. Il Meridione d’Italia non può che essere uno di questi territori da cui situarsi per guardare ai femminismi a venire.
Note
[1] Varie donne militanti, intellettuali, attiviste sono state interpellate nel corso di questa ricerca. Alcune non hanno potuto essere intervistate per questioni logistiche o per scelte personali. L’autrice tiene a ringraziare tutte le persone coinvolte, quelle che le hanno raccontato questa storia e quelle che non hanno ancora potuto essere parte del racconto, sperando in incontri e scambi futuri ancora a venire. Un ringraziamento particolare va a Mariella Toledo e a Teresa Rossano per le parole, l’aiuto e il materiale condiviso.
[2] S. Federici, Power of Women Collective, Power of Women Collective and the Falling Wall Press, Bristol and London 1975.
[3] A. Rossi Doria, Dare forma al silenzio. Scritti di storia politica delle donne, Viella, Roma 2007, pp. 245-6.
[4] The Boston women’s health book collective (a cura di), Noi e il nostro corpo, Feltrinelli, Milano 1977.
[5] E. C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, II Mulino, Bologna 2006 (1958).
[6] F. Ramondino, Napoli: i disoccupati organizzati, Feltrinelli, Milano 1977.
[7] Parlano i Banchi Nuovi, in «Metropoli», n. 2, p. 8.
[8] M. Tiburi, Il contrario della solitudine. Manifesto per un femminismo in comune, Effequ, Firenze 2020.
[9] A. Santoliquido, Stupor mundi. Da Casa de piatră/La casa di pietra, Editura Tracus Arte, Bucarest.