Abbiamo apprezzato l’analisi post elettorale fatta da Sergio Bologna sulle pagine di Effimera. Un’analisi non scontata e che punta dritta ai veri problemi della fase politica che stiamo vivendo. Una fase certamente confusa, di mescolamento di linguaggi e approcci, e che non trova l’adeguata presenza di un soggetto organizzato capace di “frequentare” e comprendere la complessa composizione di quella classe sociale un tempo chiamata “subalterna” e che aveva i suoi luoghi di aggregazione dentro e fuori dal luogo produttivo per eccellenza del tempo: la fabbrica.
Oggi è certamente più complesso individuare qualcosa del genere. Se è vero che la classe subalterna come elemento di misura sociale tende a non essere così evidente quanto nel passato, nei fatti si è addirittura ingrossata a causa della fagocitazione di una larga fetta della classe media che negli ultimi 30 anni si è precarizzata per non dire proletarizzata (a tal proposito, per un ulteriore approfondimento, rimandiamo a un nostro articolo dal titolo Stratificazione, declassamento e soggettività). Non esiste come un tempo un luogo privilegiato e specifico dove incontrarla, almeno nella sua parte più cosciente e avanzata.
Con la vittoria elettorale del centrodestra e Giorgia Meloni al Governo iniziano i facili autunni caldi, le movimentazioni contro i barbari, ignoranti e cafoni, sbandierando le insegne del progresso con un po’ di ecologismo di maniera, un po’ di pidocchiosa “inclusione” e un po’ di aperture transessuali. Quindi la chiamata alle armi con cui si gonfiano il petto non è che il miserabile trucco con cui differiamo il redde rationem con noi stessi.
Uno scatto d’orgoglio, o più banalmente il risveglio con una doccia fredda, che porta a considerare come le varie pastasciutte e cappellacci antifascisti degli scorsi mesi erano solo una bella iniziativa conviviale e nulla più. Ora si urla alla fascistizzazione del bel paese, ma non si riescono a scorgere delle contraddizioni grossolane che la sinistra, da quella istituzionale a quella extraparlamentare spesso si porta dietro, ossia l’incapacità di sezionare la complessità della società attuale, sfornando dei paradossi assurdi.
Basti pensare al polverone alzatosi in quel di Milano dove, con un approccio elitario all’ambientalismo, si impedisce, sostanzialmente al popolo impoverito, di circolare con mezzi perfettamente funzionanti ma inquinanti secondo le nuove direttive. Chi darà loro i capitali per acquistare una nuova auto o, che è peggio, un nuovo furgone che gli permetta di continuare a lavorare e portare la pagnotta a casa?
Il vero problema è: come ricostruire una prospettiva politica che contenga una parte almeno dei valori per cui è nata “la sinistra”. […] Recuperare come riferimento la condizione della parte più debole della società, più sottomessa, le “classi subalterne” la chiamavano allora. […] Tutto il resto, il problema dei diritti civili, il problema della giustizia, il problema della politica estera, della politica economica, della scuola, della sanità, del fisco, la politica della cultura – tutto veniva da quella scelta di campo, di stare dalla parte dei più deboli.
Sono molti i meccanismi e le pratiche che il capitale adotta per rendere la vita della classe sempre più misera. Tra questi, ad esempio, anche quegli strumenti tecnologici che potrebbero, al contrario, rappresentare una via d’uscita se ben interpretati e usati con l’occhio rivolto dalla parte degli esclusi. La globalizzazione ineguale, la gig economy, l’automazione, l’informatizzazione e le sfide del metaverso. Bisognerebbe ragionare su come porre la tecnologia al servizio dell’intera umanità e non solo della parte al comando. Ragionare del lavoro nuovamente in termini di “inimicizia” ossia come parte del conflitto capitale/lavoro. Porre al centro del discorso politico le macerie sociali prodotte dal modo di produzione capitalista che ha fatto del liberismo il suo sacro verbo, che, invero, alla caduta del muro di Berlino si candidava a unica ideologia possibile e sostenibile per l’avvento di un futuro paradisiaco, di pace e salute. Nessuno, o veramente pochi, indicano nello sfacelo pandemico, climatico ed economico la fine della “fine della storia”.
In questo ci sentiamo di muovere una correzione infinitesimale a quanto scritto da Sergio Bologna. Se concordiamo sul fatto che la via istituzionale, che intendiamo anche come via elettoralistica, è definitivamente bloccata, dobbiamo sostenere alternativamente che dev’esserci una forma dell’agire politico organizzato come partito che possa essere utilizzata. Il “partito” inteso come organizzazione politica antisistema, a ben vedere, è un’organizzazione di militanti che si coagulano intorno ad una visione “di parte” del mondo; in quanto organizzazione tendente alla rottura col sistema, prescinde felicemente dalla presentazione di una lista elettorale.
Solo questa parte organizzata può garantire quella presenza sul territorio, sentire la responsabilità di rispondere a chi il territorio lo vive in tutte le sue sfaccettature, non pensare solo a riprodurre sé stesso o alla poltrona. Solo questa parte organizzata può svolgere quel lavorio che riteniamo anche noi necessario, duro, costante, oscuro, ingrato, di ascolto, di empatia, di prossimità, con una presenza. Lo scrivevamo nell’articolo Qual è il punto nato come riflessione sull’articolo apparso su Machina Facciamo il punto di Gigi Roggero.
Riteniamo sia il tempo di una presa d’atto della definitiva scomparsa della “sinistra” dai radar della classe degli esclusi. Della necessità di un lavorio che avvenga contemporaneamente in alto ed in basso, ridefinendo l’alto con i luoghi frequentati da chi è già politicizzato e vuole impegnarsi in questo compito autocritico e di ridefinizione programmatica e il basso con il lavorio di conoscenza e frequentazione dei luoghi della ‘parte dei più deboli‘ per l’assunzione delle istanze, dei pensieri, dei sentimenti che li popolano. Da qui bisognerebbe partire senza ansie elettorali per riconoscere e ricompattare un campo politico altro che ritrovi l’impegno e lo schieramento delle masse popolari oggi conquistate al giogo populista, sotto il quale sta ormai in Italia da almeno un ventennio.