Quale senso ha oggigiorno il lavoro salariato? Se la tendenza in Occidente è quella di un peso specifico sempre minore del lavoro salariato come componente fondamentale di riproduzione del capitale, come si mantiene la società dei consumi? La risposta non è semplice, l’analisi delle attuali tendenze del mercato del lavoro, inducono ad immaginare lo sviluppo di una sorta di “operaio non manuale”, ossia figure professionali iper-specializzate in mansioni tecnico-pratiche o procedurali; sono questi i casi della catena della logistica nella quale il facchinaggio è una componente numericamente bassa di tutta la forza lavoro impiegata, costituita in maggioranza da magazzinieri, tecnici meccanici o informatici che assistono e controllano le macchine.
Ma in tutto ciò viene introdotto anche un altro grosso cambiamento sociale, fino agli anni 80’ l’operaio era una figura con una sua valenza socio-economica, nel senso che il salario dell’operaio era la base minima su cui costruire la società dei consumi a livello nazionale. Il salario era la misura sociale della ricchezza, sotto quel livello si era considerati poveri, su quel livello si faceva una vita “normale”, superato il salario dell’operaio cominciava la borghesia agiata. Oggi questo ordine non solo è mutato, ma non vi è più uno strato sociale di riferimento che faccia da spartiacque tra il ricco e il povero, tutto è divenuto piuttosto relativo se si guarda al possesso di strumenti tecnologici o di una vettura. Il mercato ha reso disponibili prodotti per tutte le categorie sociali e pagamenti altrettanto accessibili, il credito al consumo ha esteso le potenzialità del reddito oltre la sua misura, portando milioni di persone a familiarizzare con il concetto di debito. Nella società di oggi anche i poveri sono diversificabili in categorie, c’è il povero sfortunato, al quale la crisi ed eventi avversi hanno portato via tutto e poi ci sono i poveri sconvenienti, il sottoproletariato urbano, costituito da migranti e minoranze etniche, quelli sono i poveri per i quali non vi è una giustificazione in quanto pur partecipando al generale processo riproduttivo della società capitalista, non sono accettati. Il loro ruolo non si esaurisce qui, il ruolo del sottoproletariato urbano è un ruolo cruciale, esso fornisce la spiegazione semplicistica per ogni sorta di problema.
Ma andiamo oltre, in chiave di relazione tra produzione e consumo, la base della piramide sociale fornisce due gradi di libertà alla libera riproduzione del capitale, da un lato svincola fondi pubblici da immettere nel sistema del terzo settore che innesca circuiti di consumo assistito, dall’altro tutto ciò che ha a che fare col sottoproletariato è quasi sempre di natura informale, compreso il lavoro, il quale viene adoperato in circuiti produttivi a basso costo. Il senso del lavoro, come elemento di emancipazione sociale, ha finito per dimostrarsi la menzogna che è sempre stata. Il lavoro emancipa solo nella misura in cui si è “liberi acquirenti” ed “eleva” solo nella misura in cui l’individuo vorrebbe guadagnare di più per acquistare di più. In quest’ottica il fordismo è ancora presente come orizzonte di benessere economico cui tendere. Ma come fare ad uscire dal vicolo cieco in cui versa attualmente l’occidente è un’incognita alla quale si deve prestare attenzione; sono su queste elaborazioni e su queste proposte che si giocano i futuri equilibri sociali o le strategie per ammansire gli individui.
Qui entra in gioco l’asso nella manica, la teoria legata ai redditi di cittadinanza o, in una visione ancora più “estrema”, al basic income. Ossia redditi monetari elargiti dallo Stato e prelevati attraverso dei meccanismi fiscali, atti a compensare il fatto che (almeno in occidente) il concetto di lavoro umano sta progressivamente abbandonando il campo.
In molti ci vedono il compimento di una società libera e felice, altri il compimento della supremazia dello Stato, altri una schiavitù senza catene, ecc.
A parte la differenziazione tra i redditi derivanti dal workfare e il basic income, aventi due significati assolutamente distinti, il concetto di base rimane grossomodo invariato, qualcuno deve darti quattrini perché il tuo lavoro non serve più. Il riferimento è sempre alla percentuale più consistente di lavoro salariato, ossia il manifatturiero e il logistico, rimangono fuori il lavoro cognitivo e quello agricolo, quest’ultimo è quello che maggiormente fa uso di manodopera irregolare, mentre il primo da anni soggiace sulla precarietà. Le soluzioni introdotte con i redditi di base o di cittadinanza, non sono reali soluzioni, ma processi compatibili con il sistema economico dominante, le quali non arrestano il principio di crescita lineare, anzi è proprio per permettere di consumare che si è disposti ad elargire reddito monetario.
A questo proposito sono d’obbligo alcune precisazioni sul significato di workfare e di come questo strumento si inserisca all’interno del tessuto socio-economico, non come supporto o sostegno al reddito individuale o familiare, ma come strumento che determina il comportamento individuale. Il workfare si estrinseca in un insieme di obblighi comportamentali e indirizzi all’acquisto. Chi è assoggettato al sistema deve attenersi ad un insieme di obblighi e sottostare ad alcuni controlli, e ciò che percepisce non può essere speso in un acquisto libero di prodotti di qualsivoglia natura. Questo stride in parte con la retorica della libertà degli individui di poter spendere liberamente il proprio denaro, mantra tanto caro alle scuole neo liberiste, ma è coerente con una visione paternalista dello Stato, il quale ti sta elargendo una certa somma ma ti controlla rispetto a quel che puoi comprare. Il sistema del workfare si estrinseca anche nell’obbligo di accettare le proposte di lavoro che ti vengono fatte e nel prestare lavoro volontario per la collettività. Se ad uno sguardo disattento, magari supino alla retorica che il sussidio non deve creare sfaticati e scansafatiche, ciò può sembrare legittimo e socialmente stimolante, ad uno sguardo un po’ più attento alcune contraddizioni emergono.
Una prima contraddizione risiede nell’essere costretto ad accettare un lavoro (potendo rifiutare due proposte) non solo per una questione di attitudine lavorativa, ma semplicemente per la ricattabilità insita nel meccanismo, se vieni licenziato comincia un periodo di osservazione per capire se sei un soggetto meritevole del sussidio mentre per chi licenzia nella sostanza non succede quasi nulla. In pratica chi assume attraverso i canali del workfare ha dei vantaggi economici incamerando alcune mensilità del sussidio destinate al lavoratore, che rigirerà a quest’ultimo. Ma oltre alla convenienza di non pagare alcune mensilità, il datore di lavoro ha il coltello dalla parte del manico dal momento che se licenzia sarà il lavoratore a doversi discolpare e dimostrare di essere una persona ossequiosa e ligia al dovere. Per quanto riguarda le ore da dedicare obbligatoriamente a lavori di pubblica utilità, circa 8 a settimana quelle previste dal sistema italiano, finiscono per essere lavori per conto dell’ente comunale o aziende che operano su servizi di rilevanza comunale, quindi si può immaginare che si possano passare due turni da 4 ore a falciare prati o potare siepi, oppure assorbiti come operatori base nel terzo settore. Il problema è che se da un lato può sembrare lecito e razionale, ripagare in qualche modo la società per il supporto economico, dall’altra chi gestisce questo tesoretto di forza lavoro “già pagata” si ritrova a poter svolgere più lavori senza aumento di costi. Questo tipo di razionalità comincia ad essere assai poco indirizzata verso qualcosa di socialmente utile.
Per quanto concerne invece in basic income, o reddito universale, se da un lato elimina la retorica del merito, in quanto sarebbe un fisso mensile per tutti, ricchi e poveri uomini e donne singoli e famiglia (quindi cumulabile), dall’altro apre l’interrogativo circa la provenienza di questo salario universale. Uno dei principali sostenitori del basic income è il professor van Parijs il quale quantifica il reddito universale come percentuale sul PIL nazionale (dal 15 al 25%) divisa per tutta la popolazione residente maggiore di 18 anni, l’esborso dovrebbe autofinanziarsi con l’eliminazione di tutti gli altri sussidi, comprese le pensioni. Senza scendere nel dettaglio fine sulle reali fattibilità di questo strumento, si parla per l’Italia di circa 350 euro al mese con un prelievo del 15% del PIL fino ad arrivare a circa 500 euro con un prelievo del 25%. Il che vuol dire, avendo legato il PIL al reddito, che maggiore è il PIL maggiore è il reddito universale, con tutto quello che comporta sostenere, in maniera lineare, la crescita del PIL che, per l’Occidente, è direttamente legato all’impoverimento di altre parti del mondo. Probabilmente nella visione apocalittica di popoli che sostengono la diretta ridistribuzione della ricchezza, proveniente dalla crescita economica indefinita e dalle transazioni finanziarie e azionarie, l’espansionismo economico sarà sostenuto come l’unica realtà possibile, tanto quanto lo è attualmente il pensiero neo-liberista.
Riteniamo, in conclusione, porre due considerazioni politiche su queste forme di sostegno al reddito. La prima considerazione è legata al soggetto sociale. Senza una soggettività conflittuale che ne rivendica, con la lotta, l’utilità e l’adozione, lo strumento rischia di diventare un boomerang contro le classi popolari e subalterne. La sua provenienza “dall’alto”, ci sembra che trascini e smantelli tutti gli strumenti di welfare già esistenti (come sta già avvenendo, ad esempio, con il cosiddetto assegno unico). La seconda considerazione è direttamente collegata alla prima: se le lotte servono a mutare i rapporti di forza, allora i fondi con i quali finanziare questi strumenti devono essere drenati dal capitale e non dal lavoro, questo per evitare – come sta già accadendo – che ciò che ci elargiscono sia sostanzialmente reddito indiretto, già prelevato, sotto altre forme, dallo Stato ai lavoratori contribuenti.
La redazione di Malanova
La prima parte dell’articolo puoi leggerla QUI