Il lavoro, nella sua essenza di processo trasformativo, non è una prerogativa dell’essere umano; macchine e animali possono svolgere molte mansioni, ma soprattutto le macchine le quali, in ragione dell’avanzamento tecnologico, tendono a sostituire il lavoro umano. Quindi il lavoro in sé, come fonte di profitto per chi lo utilizza, organizzandolo in un processo razionale, potrebbe fare a meno dell’essere umano se si potesse affidare ogni mansione ad un sistema meccanizzato o elettronico. Per quanto fantascientifico possa apparire, è quello che si sta realizzando, seppur in alcune aree economiche circoscritte dell’Occidente, ma questo non è un problema nuovo che attanaglia la contemporaneità, esso fu ipotizzato già nel momento stesso in cui si ravvisavano le prime innovazioni tecnologiche nel campo industriale. Ricardo, già nel 1817 nei “Principi di economia politica e dell’imposta” difatti scriveva: l’opinione della classe lavoratrice secondo la quale l’impiego delle macchine è spesso dannoso ai propri interessi non si basa sul pregiudizio e sull’errore, ma è conforme ai corretti principi dell’economia politica. Ciò che Ricardo non immaginava era che l’evoluzione dei mezzi di trasporto e di comunicazione, avrebbero diviso il mondo sostanzialmente in aree di due categorie, da un lato le aree a capitalismo avanzato che implementando lo sviluppo tecnologico richiedono meno forza lavoro, e le aree con un capitalismo in via di definizione, che attraggono quote crescenti di produzione dai paesi avanzati grazie al vantaggio competitivo costituito in primis il costo del lavoro, in secondo luogo da norme assai lasche o inesistenti circa salute, sicurezza e ambiente.
Si può immaginare sul lungo periodo che si raggiunga un equilibrio nello sviluppo globale del pianeta, ma non si può chiedere a chi versa in ambasce, quali la segregazione sociale e la povertà, di sperare in un ipotetico futuro migliore, ammesso e non concesso che gli sconvolgimenti climatici non ci spazzino via anzitempo. Forse spostando l’attenzione dal problema del lavoro in termini quantitativi, al problema del lavoro in quanto fattore di riproduzione che può essere surrogabile con altro, ci indurrebbe a rivedere alcune scelte del passato e rimodulare le azioni del presente.
Discutere sul significato del lavoro non equivale quindi a definirne il senso, il fatto che la domanda più pertinente della nostra contemporaneità ruoti attorno al senso del lavoro, dovrebbe far risuonare qualcosa nelle menti di coloro i quali negli anni si sono sempre dimostrati attenti ai cambiamenti. Molte cose sono cambiate definitivamente nell’ultimo quarto di secolo, alcune stanno cambiando molto rapidamente, per altre il cambiamento è sempre stato implicito nella loro natura; purtroppo ci si è spesso attardati nell’affrontare i sintomi dei mutamenti senza scendere alle radici stesse del problema.
Difendere il lavoro tout court fuori dal suo significato di fattore interno alla riproduzione capitalista pone certune organizzazioni in una posizione di sudditanza assai imbarazzante. Ma a fronte di una automazione imperante e vorace che sta trasformando non solo la produzione di merci (attività manifatturiere) vieppiù la produzione di servizi, quell’antico legame che intercorreva tra salario e riproduzione sociale pare farsi via via sempre più evanescente. Il profondo cambiamento di paradigma avvenuto nel corso dell’ultimo secolo sembra non aver destato molte preoccupazioni in alcuni ambiti.
Ciò mette in luce il ritardo analitico nel quale stiamo annaspando. Ritardo spesso assecondato da richieste di ripristinare lo status quo invece di tentare di mettere in discussione tutto il sistema. Negli anni passati si inneggiavano slogan contro la globalizzazione spesso non avendo idea di cosa fosse fino in fondo, ora che stiamo guardando i suoi effetti, spesso non ci viene in mente nulla di meglio che esigere redditi più alti e lavori stabili, questo vuol dire continuare a sottovalutare la portata del fenomeno.
Il processo di integrazione globale è un processo scomodo da maneggiare, perché poco chiaro nelle sue propaggini socio economiche, scomodo perché pieno di contraddizioni, scomodo perché si basa su strumenti assai potenti che lasciano il segno e influenzano enormemente i territori su cui operano.
Il processo di integrazione globale è altrettanto scomodo per gli stessi soggetti che ne fanno uso, nel momento in cui si trovano ad armeggiare con un processo molto flessibile e rapido che con la stessa velocità con la quale riesce a far schizzare il PIL in una regione, ne affossa un’altra. Non è quindi semplice decifrare il senso del lavoro nella nostra contemporaneità senza comprendere fino in fondo cos’è il processo di globalizzazione e quali sono gli scenari che ha contribuito a chiudere e quali quelli che sta aprendo.
Il lavoro e la struttura economica sono molto più che fattori interdipendenti, sono elementi costitutivi dello stesso sistema, che pur essendo influenzati dai medesimi processi assumono ruoli diversi all’interno del meccanismo di riproduzione del capitale. Le relazioni che legano il lavoro alla struttura economica della società contemporanea sono relazioni nelle quali il lavoro deve essere identificato e catalogato per poter essere inteso e per comprenderne il ruolo all’interno dei processi produttivi. L’avanzamento tecnologico aumenta la velocità di trasferimento dei servizi delle risorse e del capitale, fino al punto in cui i flussi di investimento e i trasferimenti di denaro sono praticamente istantanei e virtualmente senza confini, mentre la velocità di trasferimento della forza lavoro oltre ad essere dettata dai tempi di trasporto è limitata dai confini istituzionali. Quindi da un lato i servizi e le merci non conoscono (o quasi) barriere, mentre il lavoro è bloccato e territorialmente circoscritto (Stiglitz, 2015).
L’innovazione tecnologica quindi crea le condizioni sulle quali si costruiscono nuovi scenari e sulle quali vengono ad essere impostate le istanze di cambiamento della struttura socio economica mondiale.
L’implementazione del sistema dei trasporti e dell’informatizzazione della logistica, ha contribuito in maniera assai profonda alla ridefinizione di tempi e costi attraverso un processo di efficientamento a livello mondiale. Ciò ha favorito la delocalizzazione della produzione in aree nelle quali il costo del lavoro è concorrenziale, addirittura con l’avanzamento tecnologico, nel momento in cui il lavoro umano costa poche decine di dollari al mese. Ma al di là di alcune eccezioni, il processo congiunto di delocalizzazione e robotizzazione sta rendendo problematica la gestione delle residualità di lavoratori attualmente impegnati in Europa e Stati Uniti. Per questi lavoratori l’economia neoliberista non è in grado di trovare una collocazione, se non chiedendo programmi statali di accompagnamento dolce alla disoccupazione.
È il caso della FCA che, non avendo più bisogno di lavoratori tra Pomigliano e Melfi, procede a ristrutturazioni della produzione, lasciando a casa gente problematica e trattenendo (chissà per quanto ancora) lavoratori più mansueti. Il problema che ci riporta all’inizio di questo discorso introduttivo è quindi il senso del lavoro, ed è nei paradossi e nelle contraddizioni che spesso si coglie il senso più profondo delle cose. Quindi abbiamo da un lato lavori che tendono a sparire perché semplicemente sono rimpiazzati o da automi o da esseri umani che costano meno, mentre quel poco che resta è spinto dal principio di massimizzazione della produttività. Dal momento che un lavoratore in Europa “costa troppo”, allora devo farlo lavorare più intensamente nelle 8 ore, solo così posso parzialmente bilanciare lo svantaggio competitivo di lasciare la produzione in Italia.
Quindi un paradosso potrebbe essere il seguente; si riduce il personale e quello che resta viene sottoposto a ritmi molto intensi e usuranti, chi perde il lavoro (soprannumerario o semplice contestatore del ritmo produttivo) lotta per essere riassunto in un posto di lavoro parimenti logorante o comunque destinato a sparire, per opera della delocalizzazione o per opera dell’automazione. Da qui nuovamente la domanda circa il significato che assume il lavoro salariato nella nostra fase storica. Seguendo il ragionamento fino alle sue conseguenze ultime, si approderebbe al nocciolo del problema e al fatto che il lavoro è l’unica attività che consenta la creazione di reddito monetario individuale, da qui la domanda basilare, sul significato autentico di reddito, il suo scopo nell’attuale struttura socio economica mondiale.
Precedentemente si è data una sommaria spiegazione del significato del salario in epoca fordista e le sue mutazioni in epoca post-fordista. Il passaggio dal salario dell’operaio al reddito generale dei vari strati della società non è un’operazione lineare, in questo passaggio logico è racchiusa, in parte, la ratio che denota il cambiamento fondamentale introdotto nell’economia dagli 80’ in poi. Ciò che è avvenuto è riassumibile nel concetto espresso da due economisti Grossman e Rossi-Hansberg che nel 2006 con un articolo dal titolo “The rise of offshoring: it’s not wine for cloth anymore”, introducevano nel dibattito economico mondiale la spiegazione per un cambio di paradigma assai profondo, che in buona parte mandava in soffitta le teorie del valore (per quanto concerne l’economia politica) di Smith e Ricardo. Nel momento in cui il vantaggio competitivo della delocalizzazione rende più conveniente produrre qualcosa altrove, non c’è più una specializzazione nazionale (la Germania esportava carbone all’Inghilterra e da questa importava cotone).
Quindi (anche se in maniera semplificata) l’attuale impalcatura dell’economia mondiale si basa su alcuni punti cardine; si ricolloca la produzione dove l’abbattimento dei costi rende l’operazione più competitiva, aumentando i profitti, si cercano altri mercati in via d’espansione per collocarvi il grosso della produzione, si mantiene una rete di servizi distributivi nei propri confini nazionali in quanto il grosso della produzione di beni è stata delocalizzata, mantenendo in loco il minimo indispensabile per poter continuare ad usare il made in (Italy, USA, Germany ecc. ecc.) non che questo sia garanzia di alcunché, solo il fatto di sfruttare una parvenza di qualità di bandiera. Nella società dei consumi è chiaro a cosa possa servire il reddito, ma qui si apre un altro punto, critico se non addirittura un altro paradosso, ossia che nella società attuale, la quale è sorretta dal principio di crescita lineare, tenda a ridurre la capacità di spesa inibendo l’istanza di base su cui essa si fonda ovvero il consumo a livello individuale. Posta in questo senso la questione appare paradossale, in realtà le cose non stanno esattamente così in quanto va chiarito un aspetto cruciale, ossia l’individuazione dell’elemento centrale che necessità della crescita lineare. A ben vedere la popolazione è parte di questo meccanismo ma non gioca un ruolo fondamentale. Soprattutto in una fase nella quale si può creare profitto impegnando risorse offshore oppure ridimensionando la forza lavoro e ampliando il “parco macchine”. Cosa fare della forza lavoro inutilizzata? In economia non si butta via mai nulla se mai si immagazzina o si utilizza in altro modo, la forza lavoro inattiva è, ad esempio, un grosso strumento di ricatto sociale per ritardare “puntualmente” la completa meccanizzazione della produzione che creerebbe un collasso sociale di proporzioni catastrofiche. È da evidenziare però come importanti sacche di “esercito industriale di riserva” garantiscono, assieme al lavoro (quasi)gratis, forme di profitto legate a particolari settori produttivi anche importanti come la logistica e l’agricoltura. Si cerca quindi di mantenere in equilibrio il sistema lasciando convivere, in alcuni settori produttivi, forme di lavoro fordiste (e addirittura ottocentesche) con quelle comunemente definite post-fordiste, entrambe utili per massimizzare i profitti e “non gettare via nulla”, come si diceva pocanzi. Le aziende, ad ogni modo, tendono a cercare fortuna altrove, avendo sia la localizzazione ottimale ove allocare risorse produttive, sia i compratori ottimali cui vendere. L’occidente non è più la terra dei consumi (men che meno quella della produzione industriale), pur rimanendo legata a questo concetto, i mercati più floridi sono ad oriente, non solo India e Cina, ma in tutta quella porzione geografica cui spesso non si fa molto caso, tipo i territori dell’ Azerbaijan.
La redazione di Malanova