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IL MOVIMENTO NEL TERZO MILLENNIO. UNA CRISI CHE VIENE DA LONTANO (II)

Il periodo storico nel quale viviamo è purtroppo contraddistinto da alcune pesanti lacune analitiche che inducono a banalizzare la complessità in atto. Questa tendenza fa il paio con l’altra ricerca di soluzioni banali a problemi complessi che il capitale mette in campo. Ma se da un lato è comprensibile che il sistema cerchi di autorigenerarsi senza “snaturare” i principi che lo regolano, ossia profitto a tutti i costi ed estrazione di plusvalore da qualsiasi fattore – umano, animale, vegetale o minerale che sia –  quello che appare assai meno comprensibile è la banalizzazione dei problemi da parte di chi si dice antisistema. Una visione disarticolata del reale che non è in grado di coglierne la complessità si evidenza quotidianamente in alcune pratiche, tra le quali spicca l’iper-specializzazione delle lotte che si unisce ad una visione ristretta alla propria sfera di interesse nell’articolazione di dinamiche di conflitto. 

Detto in parole più spicciole sembra quasi che ci si rifiuti di fare i conti con una realtà estremamente complessa e si preferisca rinchiudersi in pratiche circoscritte in linee di pensiero più gestibili. Il limite lo si nota inciampando in alcune “analisi” abbastanza melense, nelle quali giunti alla soglia della necessità di confrontarsi con la ragnatela di interconnessioni, della quale la problematica “X” rappresenta un nodo magari periferico, si chiudono gli occhi e si ficca la testa nella sabbia. Quindi si apre all’immaginario narrativo e suggestivo magari della riscoperta di pratiche antiche, giustissime per altro, senza però immaginare come queste possano ricucire o ritessere relazioni di comunità da contrapporre allo sfaldarsi della coesione sociale dettata dalla deriva individualista sostenuta dall’attuale sistema socio economico. 

Si intraprendono campagne sacrosante di occupazioni di alloggi, ma spesso capita che queste pratiche diventino quasi una sorta di servizio, dal momento che poi viene meno il lavoro di riconnessione relazionale tra individui o nuclei di individui che hanno un tetto sulla testa ma non riescono  riempirsi lo stomaco, quindi finiscono col gonfiare la schiera di chi è costretto a fare la spesa al discount. È chiaro che per ragioni di spazio stiamo procedendo per accenni, incasellando esempi e usando la scure piuttosto che il cesello, ma l’evidenza delle contraddizioni è tale che dovrebbe essere sufficiente indicare la contraddizione che appare evidente come un rinoceronte che si nasconde dietro ad un lampione. 

Prendiamo ad esempio proprio le giornate di Genova, al di là di botte in piazza, tafferugli, massacri a colpi di tonfa della celere e le torture di Bolzaneto, cerchiamo di concentrarci su quello che ha realmente significato quel momento,  cioè la crescente miopia del movimento cosiddetto antagonista rispetto alle tendenze socio-politiche e alle visioni economico-finanziarie degli ultimi vent’anni. Parliamo degli ultimi quattro lustri in quanto tale scollamento tra realtà e antagonismo si è fatto più marcato in essi ma le avvisaglie di tale crescente incapacità di leggere le fasi ha cominciato a far capolino dai primi anni ’90. Il prodotto di tale processo è stato quello che passerà alla storia come movimento no-global, che pur nella correttezza dei princìpi, giungeva a mettere in guardia sui pericoli della globalizzazione quando questa era già non solo presente ma stava preparandosi già a mutare da mera infrastruttura commerciale e rete di comunicazione finanziaria monopolare stava già riconfigurandosi come elemento a disposizione di una multipolarità di soggetti.

A Genova si intonavano slogan contro l’imperialismo a stelle e strisce ma già da Est si scaldavano i motori di un nuovo modello di globalizzazione, e i segnali a volerli cogliere c’erano già tutti. Un ritardo spaventoso che si è spesso concretizzato in tentativi di fermare conferenze e vertici internazionali come se bloccare la ratifica di un trattato annullasse gli accordi già vigenti come prassi. Ammettiamo pure che tali tentativi abbiano una loro valenza mediatica e di denuncia: nel momento in cui giungono fuori tempo massimo la loro efficacia tende a ridursi a una sorta di pantomima.

È su questo ritardo storico che si misura la distanza tra la comprensione del reale e le azioni decisive e significative di un movimento che vorrebbe, nella teoria, essere d’intralcio a qualcosa. Mentre nel recente passato era forse meno semplice procurarsi alcune informazioni e le elucubrazioni teoriche della classe dominante erano questioni poco dibattute, oggi le linee di tendenza per i futuri assetti socio-economici di questa parte del mondo non solo sono esplicite ma vengono messe nero su bianco e pubblicate per comune presa visione finanche sulla Gazzetta Ufficiale. Eppure già all’epoca di Genova gli intenti dell’Europa erano tanto ed espliciti! E non solo quasi nessuno si è peritato di andarci a dare un’occhiata ma, addirittura, si preferiva prendere informazioni dai giornali piuttosto che cercare le informazioni lì dove venivano bellamente pubblicate in tempo reale.

Il “Bollettino Europeo” ad esempio, pubblicato in 24 lingue (italiano compreso) esce regolarmente e annuncia tutte le decisioni e i dibattiti in corso tanto al Parlamento Europeo quanto nella Commissione dove le linee guida dei fondi strutturali e le loro mutazioni nel tempo si possono leggere con una chiarezza disarmante. Il passaggio da un’impostazione in chiave di integrazione economica delle aree depresse, con precise linee guida incentrate sulla spinta ad aprire anche le zone più recondite al mercato, ad un atteggiamento che dà quasi per scontato che il mercato di riffa o di raffa è giunto dove doveva arrivare ma non in chiave di semplice opportunità di vendere o svendere qualcosa sulla piazza globale: vi è giunto come eradicazione culturale e reinnesto di una matrice ideologica – l’homo oeconomicus.

Ciò a riprova che il neoliberismo va benissimo come espediente narrativo per propagandare le bellezze implicite nella libera scelta mercatale, una dottrina utilissima a imbambolare generazioni di individui fino a indurli alla certezza assoluta che non v’è altro mondo possibile fuori dal mercato. “La nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo”, scriveva Hegel. Il che equivale a dire che riusciamo a comprendere qualcosa solo quando quel qualcosa si sta dileguando ma, in una interpretazione contraria, ci accorgiamo del mutamento quando questo è ormai manifesto e inesorabile. Di fatto quando ci siamo accorti che qualcosa “stava cambiando” in realtà era già tutto in mano alla gestione aziendalistica.

Dalle prime privatizzazioni degli anni ’90 al fatto di accorgersi che qualcosa non quadrava sono passati più di dieci anni prima di vedere qualche analisi sui fenomeni in atto. È infatti del 2007 il libro di Barucci e Pierobon “Le privatizzazioni in Italia”: eppure già nel 2001 uscì un volume intitolato “Libro bianco sulle privatizzazioni” a cura del Ministero del Tesoro.

A livello di movimento uscivano documenti circa l’autoreddito e la ridefinizione degli spazi sociali, si cominciava a parlare di gruppi di acquisto solidali, di legalizzazione della canapa, imperava la narrazione eroica del compagno Marcos in Chiapas. Insomma il mondo cambiava e il movimento guardava da tutt’altra parte. Anche quando i programmi europei si facevano sempre più espliciti nel loro imporre gli strumenti finanziari come innovazione necessaria e lo sviluppo di economie di mercato come condizione base per l’accesso ai finanziamenti, il mondo antagonista seppure da un lato dava inizio ad una interessante stagione di mobilitazione contro le grandi opere (patto di mutuo soccorso), dall’altro non riusciva più ad interpretare il suo presente, limitandosi a biascicare slogan e rifarsi una cultura citando autori “post” qualcosa.

Abbeverandosi alla fonte della peggiore post-modernità, buona parte del movimento buttava via bimbo acqua sporca e bacinella, nel tentativo maldestro e raffazzonato di superare il ’900, sperando di essere nel giusto mettendosi di traverso a qualunque cosa passasse nella speranza di essere notato. Il capitalismo assumeva nuove aggettivazioni, bio-capitalismo, turbo-capitalismo, ecc. e, pur rimanendo graniticamente coerente a sé stesso, fagocitava e sussumeva tutto quello che poteva rappresentare nicchie di domanda inespresse e nicchie culturali bisognose di quindici minuti di gloria.

Qualche anno dopo Genova 2008-2010 si parlava di crisi, di debito, di audit del debito e in pochi percepivano il pericolo incombente. Si urlava “Noi la crisi non la paghiamo” o “Siamo il 99% e siamo in credito”, si disquisiva di precariato cognitivo e intanto le stesse università, delle quali si occupavano le aule per salvare il diritto all’alta formazione, stipulavano contratti con privati o sgomitavano per accaparrarsi bandi di ricerca finanziati dall’Europa. Si lavorava nei centri di ricerca e nei dipartimenti per trovare strategie di attuazione e applicazione dei fondi FESR e studiare ibridi tra la struttura economica statunitense e quella dell’Unione Europea, si studiavano i clusters industriali dello Zio Sam per importarne i meccanismi nel Belpaese. Mentre il capitalismo accelerava non avendo ostacoli sul suo cammino, il movimento si accapigliava su neo-lingue e politically correct.

Le strategie europee inchiodavano gli stati membri alle loro responsabilità, perché quelle politiche le avevano votate gli europarlamentari di ogni schieramento ed erano poi state ratificate senza troppa pubblicità da tutti i governi, mentre ci si baloccava tra forconi, popoli viola, vaffa day, bunga bunga e la micro agricoltura biodinamica. Approvavamo il MES e nello stesso tempo accettavamo come una boccata d’ossigeno il quantitative easing indebitandoci per i prossimi ottant’anni. Le città diventavano smart, la gentrificazione partiva dalle bottegucce stile hipster, ma noi, duri come il porfido, vedevamo la gentrificazione solo nei centri commerciali. Le piccole attività artigianali sparivano dal centro città, arrivavano i franchising di ogni tipo ma per noi la lotta era sempre altrove.

Sognando l’assalto al palazzo che mai giungeva, di corteo in corteo e di petizione in petizione ci siamo inventati modi creativi per stare al mondo e nel mercato senza darlo a vedere. Inventandoci sul concetto di “solidale” un mondo di commercio a lungo raggio però parlando sempre di chilometro zero, la sussunzione ci ha risucchiati in una spirale di compatibilità mercatale ma noi ancora non ce ne siamo accorti. Meno ce ne accorgevamo e più la programmazione europea parlava di mercato, finanza e innovazione. Fino ad oggi, quell’oggi nel quale il capitalismo si tinge di verde e noi facciamo fatica a controbattere che quel verde è solo il caro vecchio colore dei soldi!

La redazione di Malanova

Puoi leggere la prima parte a questo link:

IL MOVIMENTO NEL TERZO MILLENNIO. UNA CRISI CHE VIENE DA LONTANO (I)

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