Nel febbraio del 2022 è stata pubblicata una ricerca dell’INPS riguardante il Reddito di Cittadinanza. Misura sociale da molti citata più che conosciuta ma, comunque, molto nota al grande pubblico. E’ stata nei fatti, nonostante quanto scritto nell’art. 1 del decreto-legge n. 4 del 2019, primariamente uno strumento di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza, all’esclusione sociale, e solo secondariamente collegata alle politiche attive del lavoro. Le prime domande sono state raccolte dal 6 marzo 2019, i primi pagamenti a partire dal successivo mese di aprile. La misura del reddito elargito non è individuale ma commisurata al nucleo familiare:
La misura […] ha una doppia finalità. La prima, rivolta a tutti i beneficiari, è di offrire un sostegno economico a integrazione dei redditi familiari. La seconda, che riguarda solamente un sottoinsieme dei beneficiari, è di prevedere un percorso di reinserimento lavorativo o sociale. Le analisi proposte in questo rapporto riguardano essenzialmente la prima finalità.
Nei primi tre anni (2019-2021) di applicazione della misura, sono stati oltre 2 milioni i nuclei familiari coinvolti, pari a 4,65 milioni di persone che hanno ricevuto il pagamento di almeno una mensilità, per un’erogazione totale di quasi 20 miliardi di euro per tre annualità ossia una media di 6.66 miliardi su base annua. Per confrontarlo con un altro dato, in Italia le spese militari si attestano a 25,8 miliardi di euro all’anno ossia quasi quattro volte tanto. Il recente dibattito parlamentare ha preso in considerazione la possibilità di aumentare ancora la spesa bellica fino alla quota del 2% del PIL pari a 38 miliardi/anno.
L’INPS individua un andamento non costante dei nuclei richiedenti il Reddito di Cittadinanza. Chiaramente il picco si situa nel momento dell’istituzione della misura quando, in appena tre mesi, hanno aderito 859 mila nuclei, che rappresentano – senza esaurirlo – lo stock iniziale dei “poveri” esistenti (come definiti dai requisiti); successivamente si sono registrati semestralmente nuovi ingressi pari ad almeno 250 mila nuclei, con picchi in corrispondenza dei momenti più critici della pandemia da Covid-19. Si registra una diminuzione nel secondo semestre del 2021 (appena 100 mila esordienti), probabilmente causa della ripresa economica post-pandemica.
La maggior parte dei nuclei risulta ancora percepire il reddito alla fine del terzo anno dall’istituzione della misura. I dati indicano che il 70% di chi ha ricevuto per la prima volta il beneficio tra aprile e giugno del 2019 è ancora risultato beneficiario nell’ultimo semestre oggetto di osservazione, percentuale che con qualche punto di oscillazione vale anche per i nuclei “entrati” nei semestri successivi (anche se chiaramente per essi l’arco temporale di osservazione è inferiore).
Il dato suggerisce quello che dicevamo all’inizio: il Reddito di Cittadinanza ha avuto più una funzione di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza, all’esclusione sociale che di politica attiva del lavoro. La retorica borghese del Ministro Di Maio che affermava la validità dei navigator e l’assoluta probabilità che i percettori avessero trovato rapidamente un lavoro si è mostrata in tutta la sua futilità. L’unico ad aver trovato un lavoro stabile è il Ministro medesimo nel frattempo emigrato in altro dicastero.
Per quanto concerne l’ammontare dell’erogazione questo può essere considerato un indicatore dell’evoluzione del processo di impoverimento degli strati meno abbienti della società. Difatti se per i nuclei “lunghi” (quelli che hanno richiesto il reddito fin dall’inizio) l’importo attualmente erogato è maggiore dell’importo iniziale significa che “oggi” è maggiore l’integrazione del reddito familiare fino alla soglia. In altri termini, la criticità dei parametri che indicano difficoltà economica o familiare, per quegli stessi nuclei, ciò implica in maniera abbastanza evidente che la condizione di povertà si è acuita nel corso del tempo e del progredire dell’onda lunga dello shock economico indotto dalla pandemia.
Il numero di nuclei percettori di Rdc è pari a 1,23 milioni e l’importo medio a dicembre 2021 è di 577 euro. Chiaramente un dato che pone i soggetti sicuramente in una condizione di povertà e non nelle condizioni paradisiache che alcuni imprenditori denunciano. Se questa denuncia avesse mai un qualche fondamento, lo si ritroverebbe piuttosto nel fatto che gli imprenditori non riescono a reclutare manovalanza, soprattutto stagionale, perché la media dei salari stagionali è analoga a quella del reddito di cittadinanza o di poco più alta. Al lavorare in queste condizioni spesso si sceglie, a buon diritto, il non lavorare godendo del reddito, magari decidendo di arrotondare con qualche part-time sottobanco.
A fronte di 1.375.728 nuclei beneficiari a dicembre 2021, il numero di persone coinvolte è 3.048.988: una su quattro è minorenne, due su tre risiedono al Sud. Le prime cinque province per incidenza dei percettori sugli abitanti sono Napoli, Crotone, Palermo, Caserta, Catania.
La ricerca prende in esame il gruppo più omogeneo e di lungo recepimento della misura: parliamo quindi degli 859.486 nuclei (1.989.556 persone) che hanno fatto domanda entro i primi tre mesi del varo della legge e pari a circa due milioni di individui, ha evidenziato che:
- Per il 41,8% (831.421) la ricerca di un’eventuale posizione lavorativa non è d’interesse/utile nel contesto di ricerca proposto in quanto minorenni, anziani, disabili, titolari di pensione
- Per il 58,2% (1.158.135) la ricerca di un’eventuale posizione lavorativa ha permesso di classificare i soggetti “teoricamente occupabili” in tre gruppi distinti:
a. Circa 291mila soggetti (14,6% del totale beneficiari di Rdc) per i quali la ricerca ha dato esito nullo: non risulta alcuna giornata di contribuzione dal 1° gennaio 1975 al 31 marzo 2019. L’età media è di 33 anni, il 70% sono donne. In questo insieme rientrano gli studenti maggiorenni (sia scuole superiori che università) e chi è sempre risultato inattivo.
b. Poco meno di mezzo milione di soggetti (24,9% del totale beneficiari di Rdc) che hanno una posizione contributiva lontana nel tempo (nel 2017 o prima). L’età media è di 46 anni, le donne sono poco più del 50%. Si tratta di soggetti che all’atto della prima domanda di Rdc erano da almeno quindici mesi fuori dal mercato del lavoro attivo e senza neanche prestazioni a sostegno del reddito, congedo di maternità, malattia, eccetera. L’età media elevata e l’anzianità contributiva bassa evidenziano uno scarso attaccamento al mercato del lavoro. È un insieme di persone ormai da tempo inattive oppure disoccupate e quindi ampiamente classificabili come “vulnerabili”.
c. Circa 372 mila soggetti (18,7% del totale beneficiari di Rdc) che hanno una posizione contributiva contemporanea al Rdc o comunque ravvicinata. L’età media è di 40 anni, intermedia tra i due gruppi precedenti, rispetto ai quali è però l’unico gruppo in cui le donne sono minoranza. In questo insieme rientrano soggetti con un maggiore attaccamento al mercato del lavoro anche se con profilo da “working poor”: il Rdc, infatti, risulta integrare/proseguire la disoccupazione indennizzata oppure un part-time di modesta entità.
Dall’analisi condotta dall’INPS si evince dunque un quadro sociale abbastanza chiaro: i nuclei familiari interessati dalla misura sono per il 40% costituiti da persone che non possono lavorare anche volendolo. Del 60% rimanente solo un 20% sarebbe subito riattivabile visto che il restante 40% è composto da persone che oramai non ricercano più il lavoro per sfiducia o per passate esperienze di sfruttamento e che l’analisi annovera fra i “vulnerabili”.
Molto probabilmente, ciò che l’analisi non dice, è che il lavoro per questo milione e mezzo di persone non esiste o non è attivabile per questioni di competenze. Il mondo del lavoro è in continua evoluzione. Soprattutto in occidente, ampi spazi lavorativi sono coperti dall’automazione, altri spazi si aprono in virtù dell’innovazione ma abbisognano di specifiche competenze cognitive e di studio. Un’app o un software non necessita di altro che di una intelligenza capace di programmare oltre che di calcolatori oramai alla portata dei più. Il progredire della tecnologia se da un lato aumenta l’accessibilità ai mezzi di produzione e l’ipotetica “libera iniziativa individuale”, nei fatti oggi giorno i limiti sono dati dalle proprietà intellettuali dei prodotti. Prodotti che spesso sono semplici processi di produzione o servizi. Tornando all’esempio della app, colui che la realizza non la possiede pur essendo non solo prodotto del suo lavoro, ma sua creazione intellettuale. In qualche modo lavoratore e prodotto, nell’economia immateriale sono assai più intimamente legati che nella produzione materiale. Di fatto il capitalista più che proprietario della macchina diventa padrone dello stesso lavoratore del quale si appropria non più della sola diade tempo/lavoro lasciando quel poco di spazio vitale necessario alla riproduzione, ma da cui estrae la sua stessa capacità cognitiva. Anche il tempo della riproduzione oramai è messo a profitto. Da questa realtà discende la necessità di sempre più stringenti leggi sulla proprietà intellettuale volte ad alienare da sé, mercificare, la capacità intellettiva del lavoratore. Esemplare in questo caso è la vendita di software che, per assumere la forma merce, si presentano come un foglietto con su scritto una password con la quale sbloccare il semplice download dalla rete (un processo puramente immateriale se si esula per un attimo dal pensiero dei server), il tutto contenuto in uno scafandro di plastica con tanto di copertina. Di fatto grazie a questa nuova modalità produttiva (che rappresenta tendenzialmente una parte sempre più significativa del plusvalore prodotto) saltano i riferimenti quantitativi che diventano sempre più qualitativi. Un tempo il capitalista pagava il lavoratore per compiere in un certo numero di ore, un tot di cicli o azioni produttive. Pago il raccoglitore di pomodori per riempire una cassa entro un tempo medio dato. Lo sviluppo di un App, invece, può impegnare un ingegnere informatico particolarmente abile per un mese e un altro meno abile per due mesi, o l’upgrade di un’app può richiedere più tempo di quello impiegato nella progettazione originaria, ciò che conta è quanto l’azienda spera di farci, e se l’ingegnere meno esperto costa meno, il guadagno ripaga di quell’ipotetico mese in più. Anche il risultato non è scontato e il lavoro di uno potrà mostrarsi più duraturo di quello di un altro, con meno bug e funzionalità più performanti. Inoltre lo stesso lavoro può essere fatto da casa come in ufficio e il tempo di lavoro da casa è statisticamente maggiore di quello in ufficio. Così si parla sempre di più di raggiungimento degli obiettivi piuttosto che di orario di lavoro. Nonostante questo processo che sembrerebbe allargare spazi di estrazione autonoma di plusvalore per il lavoratore dipendente, le statistiche continuano a parlare di un immane concentrazione dei profitti e della proprietà dei mezzi di produzione umani o umanoidi in capo a pochi capitalisti, gli unici capaci di innovazione attraverso l’acquisizione di macchinari sempre più complessi e costosi e gli unici che hanno la possibilità di comprare la stessa umanità del lavoratore; la sua capacità di pensiero. Per questo una misura di ”sostegno” al reddito potrebbe avere senso se pensata su base universale e libera dal vincolo lavorativo. Ma anche queste condizioni non bastano in quanto abbiamo la consapevolezza che finiranno con l’essere un sostegno alla spesa.
Non è un caso che tra i principali sostenitori dei redditi universali troviamo multimiliardari come Bill Gates, Mark Zuckerberg e qualche altro illuminato. Hanno ben chiaro che i consumi non possono autosostenersi dal momento che i salari si contraggono sempre più e, nei paesi a capitalismo avanzato, la forza lavoro non qualificata è richiesta sempre di meno. Ci si ritrova dunque, con una massa crescente di “inoccupabili” non adeguatamente formati per lavori specializzati e non impiegabili in altri ambiti proprio perché è venuta meno la richiesta del lavoro non specializzato. Quel poco che c’è è per forza di cose trattato al ribasso. In questa spirale l’unica valvola di sfogo per evitare esplosioni sociali sono i buoni pasto e il reddito integrativo che riescono a far digerire, ancora per poco, gli amari bocconi del sistema, fornendo una base minima sulla quale poi arrotondare con qualche lavoro saltuario.
Pensiamo ora per un attimo al rapporto pubblico privato e alle ultime frontiere delle privatizzazioni: la furia estrattiva del capitalismo è arrivata a creare la situazione per la quale i Comuni, prima ammaliati dal canto delle sirene dell’efficienza capitalista attraverso l’aziendalizzazione dell’ente, ora risultano quasi completamente spossessati delle risorse umane e finanziarie per gestire i servizi, adornatisi nel frattempo con un esoso corollario di innovazione. Ecco la deriva delle cosiddette multiutility, multinazionali che offrono servizi in vari comparti strategici, calando come orde barbariche sulle comunità locali per depredarle delle loro risorse più importanti e vitali. Arrivano con il loro carico di capitali, attingono anche alle risorse pubbliche (pensiamo al PNRR e prima ancora alle società miste), per costruire gli impianti, succhiando la linfa vitale degli enti collettivi per decenni. Oggi le principali aziende, per esempio in Calabria, sono tutte attive nell’ambito dei rifiuti, dell’energia, dell’acqua; con l’unica variante dei call center, i cui padroni hanno le mani in pasta un po’ ovunque.
Come rilevato da imponenti analisi economiche e dai report annuali di ONG come la Oxfam, risulta in rapida crescita il dislivello tra il patrimonio accumulato dai padroni del mondo a discapito di larghe fette della popolazione. Per produrre, il capitalista deve organizzare certamente le ‘reti neurali’ informatiche ma anche le ‘reti neurali’ umane senza le quali non reggerebbero i processi digitali. In questo senso il mezzo di produzione primario diventa la mente che ovviamente non è isolabile dall’operaio che un tempo era alienato del solo tempo di lavoro che, sempre di più nell’oggi, corrisponde con il tempo di vita. Produzione e riproduzione sociale sono termini sempre più sovrapponibili a quelli di produzione e riproduzione del capitale.
Questo cambio di paradigma tendenziale del rapporto capitale/lavoro se è dato per assodato nelle economie avanzate, ancorché da indagare profondamente da parte delle varie sinistre, porta a un’alienazione più grande da parte dell’operaio cognitivo di quanto non lo fosse l’operaio dell’industria 2.0. Di contro l’accumulo dei profitti da parte padronale si fa più rapido, ed è certamente dovuto a un esponenziale aumento della produttività per singolo lavoratore, in quanto la produzione immateriale e cognitiva non si esaurisce quasi mai una volta chiusa la porta dell’ufficio o una volta spento il computer. Questo innovativo processo di estrazione di plusvalore è come sempre apertamente sostenuto dalle politiche governative che per loro intima natura non possono che essere filo padronali. In Italia, e in Europa in generale, si sono inanellati decenni di politiche lacrime e sangue per i ceti popolari ed espansive per l’industria. Ancora oggi il dibattito italiano verte sul cuneo fiscale con l’obiettivo dell’aumento dei salari. Una procedura già collaudata che ha visto in realtà la decrescita infelice dei salari italiani anche a dispetto della media europea che vede per esempio in Germania una crescita dei redditi negli ultimi decenni al di sopra del 30%, con una parallela diminuzione degli orari lavorativi. Mai come in questo periodo pandemico si è mostrata la capacità del capitalismo di fatturare anche le sventure nel mentre le classi medie si sono estremamente impoverite e per quelle più basse si è dovuto ricorrere dall’alto, ovvero senza la spinta di lotte popolari, a misure governative come il reddito di cittadinanza. Questo indica il carattere sistemico di queste toppe che tentano di mantenere sotto i livelli di guardia il malcontento popolare.
Di fatto, nell’attuale fase post-pandemica e pre-guerra, le politiche, nonostante i miracoli profetizzati durante il Covid, sono tutte ancora incentrate al sostegno dell’industria bellica, dello sviluppo e alla restrizione del welfare. Non c’è traccia degli immani investimenti promessi in personale e strutture della sanità pubblica, della scuola e delle infrastrutture specialmente digitali. Si è prospettata invece una ulteriore fase di sacrificio per le classi popolari che vanno dal blocco del condizionatore al contenimento della spesa pubblica per i servizi.
In una fase siffatta occorrerebbe svincolarsi dalla narrazione tossica circolante e riattivarsi intorno a un programma collettivo che sappia tradurre e attivare processi di liberazione che coniughino la coscientizzazione collettiva a nuove forme di organizzazione e di lotta. L’una non può andare senza le altre. Non può esistere una coscienza di classe senza una teoria che la rappresenti, la unifichi e le indichi una prospettiva, così come altrettanto non può esistere una teoria sradicata dalle reali necessità materiali di classe e dal livello di coscienza in essa sviluppato.
La redazione di Malanova
SCHEDA SINTETICA RDC
Nei primi tre anni di Rdc/Pdc sono stati erogati quasi
20 miliardi di euro a
2 milioni di nuclei per un totale di
4,65 milioni di persone.
L’analisi ha evidenziato che circa il 70% dei nuclei che hanno richiesto il Reddito nelle prime fasi di attuazione (aprile-maggio-giugno 2019) è ancora beneficiario alla fine del 2021.
L’analisi dei beneficiari a dicembre 2021 indica che
il 44,7% dei nuclei sono monocomponenti e che
il 67,3% sono senza minori.
il 17% sono i nuclei con disabili.
L’importo medio è di 546 euro, molto differenziato tra Rdc (577 euro) e Pdc (281 euro).
L’analisi longitudinale dei beneficiari del Reddito di cittadinanza, condotta sui percettori nel trimestre aprile-giugno 2019, ha evidenziato che su
100 soggetti beneficiari del Rdc
60 sono quelli “teoricamente occupabili”
di questi, 15 non sono mai stati occupati,
25 lo sono stati in un lontano passato,
20 sono ready to work.
2 percettori su 3 risiedono al Sud o nelle Isole (67% in termini di persone, 62% di nuclei, a dicembre 2021).