Lo scritto che proponiamo è tratto dal volume Il dominio e il sabotaggio. Sul metodo marxista della trasformazione sociale (Feltrinelli, Milano 1979, pp. 54-60) di Toni Negri. Insieme ad altri quattro lavori (Crisi dello Stato-piano; Partito operaio contro il lavoro; Proletari e Stato; Per la critica della costituzione materiale), sempre editi da Feltrinelli, Il dominio e il sabotaggio ebbe una notevole fortuna editoriale anche se, all’indomani dell’arresto dell’autore, il 7 aprile 1979, sparì dalle librerie e, insieme agli altri quattro, fu inviato al macero. Oggi è possibile leggere questi lavori nella raccolta I libri del rogo, (DeriveApprodi, Roma 2006).
Il breve paragrafo che proponiamo analizza il concetto del rifiuto del lavoro inteso come chiave di lettura del contenuto e della misura del processo di autovalorizzazione proletaria, ma in un rapporto distruttivo con la legge del valore la cui crisi può essere misurata, appunto, dalla diminuzione del tempo di lavoro (individuale e complessivo) e dalla quantità di vita proletaria sottratta al capitale.
Se lo sfruttamento del lavoro fonda l’intera società del capitale, allora non possono esserci risposte parziali: sabotaggio, sciopero e azione diretta diventano gli strumenti di classe che servono a dispiegare la negazione, nel suo complesso, della società capitalistica.
Ma al rifiuto del lavoro e alla sua pratica complessiva segue una risposta altrettanto globale del capitale in termini di ristrutturazione del modo di produzione: il rifiuto del lavoro diventa elemento di stimolo per una nuova azione produttiva del capitale che nasce proprio come risposta al rifiuto operaio. Dunque, la potenza del rifiuto del lavoro viene dettata dal ritmo incalzante della ristrutturazione capitalistica e la possibilità di rottura è data soltanto nella radicalizzazione e nella socializzazione del rifiuto del lavoro che ne amplifica gli aspetti di destrutturazione del modo capitalistico di produzione: «il fine del processo di autovalorizzazione è la liberazione intera del lavoro vivo, nella produzione e nella riproduzione, è l’intera utilizzazione della ricchezza al servizio della libertà collettiva».
A oltre quarant’anni di distanza, le intuizioni contenute nel testo possono ancora ritornare utili per decifrare gli attuali processi di trasformazione del modo di produzione capitalistica e gli assetti, sempre più complessi, del lavoro vivo globalizzato.
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Nessuna affermazione comunista, più di quella del rifiuto del lavoro, è stata violentemente e continuamente espulsa, soppressa, mistificata dalla tradizione e dall’ideologia socialiste. Se vuoi mandare in bestia un socialista, o se vuoi scoprirlo quando si copre di demagogia, provocalo sul rifiuto del lavoro! Nessun punto del programma comunista, lungo un secolo, da quando Marx parlava del lavoro come “essenza disumana” (e aggiungeva “non libera e asociale”, cfr. K. Marx, Uber F. Lists Buch, in Archiv – Drucke, I, VSA Berlin 1972, p. 25), è stato tanto combattuto: fino a quando la scomunica del rifiuto del lavoro è divenuta tacita, surrettizia, implicita, ma non meno potente: l’argomento è stato tolto. Ora. è su questo terreno indiretto che l’astuzia della ragione proletaria ha cominciato a restaurare la centralità del rifiuto del lavoro nel programma comunista. Dall’etnologia alla psicologia, dall’estetica alla sociologia, dall’ecologia alla medicina, questa centralità riappare, camuffata, talora obliterata in strane fogge. Eppure vien fuori dappertutto e presto saran costretti ad inseguirla come un tempo analoghi preti inseguivano l’onnipresente stregonesca verità del demonio.
Nostro compito è la restaurazione teorica del rifiuto del lavoro nel programma, nella tattica, nella strategia dei comunisti. Mai infatti, come oggi, a livello della composizione di classe a noi data, il rifiuto del lavoro si rivela così centrale, punto di sintesi del programma comunista. Nei suoi aspetti oggettivi e in quelli soggettivi. Il rifiuto del lavoro è infatti il fondamento più specifico, materialmente determinato, della forza produttiva riappropriata al processo della autovalorizzazione operaia.
Rifiuto del lavoro è innanzitutto sabotaggio, sciopero, azione diretta. Già in questa soggettività radicale esso rivela la globalità della sua comprensione antagonistica del modo capitalistico di produzione. Lo sfruttamento del lavoro fonda l’intera società del capitale, il rifiuto del lavoro non nega un nesso della società del capitale, un aspetto della produzione o del processo di riproduzione del capitale, ma – nella sua radicalità – nega la società intera del capitale. Non è un caso, allora, se la risposta capitalistica al rifiuto del lavoro non riesce mai ad essere una risposta parziale: deve essere una risposta globale, in termini di ristrutturazione, di modo di produzione. Da questo punto di vista gli effetti del rifiuto del lavoro esercitano un’azione produttiva diretta sul modo di produzione capitalistico. Ma, quanto più il rifiuto del lavoro viene socializzandosi e radicalizzandosi, sul ritmo stesso della ristrutturazione capitalistica, tanto più la sua “azione produttiva” approfondisce gli aspetti di destrutturazione del modo capitalistico di produzione. Caduta del saggio di profitto, crisi della legge del valore, riarticolazione di questa nell’indifferenza del comando sono effetti diretti, sia pure non continui né omologhi, del rifiuto del lavoro. L’effetto continuo lo ritrovi sull’altra faccia della dialettica di capitale: laddove il sabotaggio si rivela come valorizzazione di classe e il rifiuto del lavoro diviene la chiave di lettura dell’autovalorizzazione. Diviene la chiave di lettura in almeno due sensi fondamentali, cui seguono alcune altre radicate conseguenze: nel senso che è uno dei contenuti, se non il contenuto fondamentale del processo di valorizzazione proletaria; nel senso che determina il criterio di misura del metodo della trasformazione sociale. Vediamo prima questi due sensi fondamentali, quindi le conseguenze che ne vengono.
Il rifiuto del lavoro come contenuto del processo di autovalorizzazione. Si badi bene: contenuto non significa obiettivo. L’obiettivo, il fine del processo di autovalorizzazione è la liberazione intera del lavoro vivo, nella produzione e nella riproduzione, è l’intera utilizzazione della ricchezza al servizio della libertà collettiva. È quindi di più del rifiuto del lavoro che comunque copre lo spazio fondamentale della transizione, ne caratterizza la dialettica, ne stabilisce la normativa. Rifiuto del lavoro quindi è ancora un momento del processo di autovalorizzazione nel suo rapporto distruttivo con la legge del valore, la sua crisi, l’obbligo al lavoro produttivo di tutta la società. Che tutti debbano lavorare, nella società fondata sulla autovalorizzazione, nella fase della transizione, è una norma che attiene al rifiuto del lavoro esattamente come vi attiene la programmazione della riduzione dell’orario di lavoro, del lavoro costretto alla riproduzione e alla trasformazione. Riconoscere questa normatività del rifiuto del lavoro è coglierlo come contenuto del processo di transizione e non come finalità del processo di autovalorizzazione, è non mistificarlo ma determinarlo dentro la lotta di classe nella specificità della sua funzione costruttiva. Il rifiuto del lavoro è dunque il contenuto della strategia comunista, dopo essersi rivelato come funzione tattica fondamentale della destrutturazione del nemico. I due aspetti sono profondamente legati. La lotta per la destrutturazione del capitale, e in particolare per la destrutturazione – distruzione del capitale costante nella forma che assume nell’ultima fase, nella maturità del modo di produzione capitalistico e del suo Stato, stabilisce infatti particolari rapporti con la permanenza della ricchezza nella forma capitalistica. Il processo di separazione di classe si scontra con la dura costanza del capitale, del capitale costante. Questo rapporto non può essere eliminato ma solo dominato nell’immediatezza. La forza-invenzione, come trasfigurazione della forza-lavoro in questa prima fase della transizione, deve applicarsi alla destrutturazione del capitale costante. Il rifiuto del lavoro è la sua prima arma fondamentale cui s’aggiunge l’invenzione in senso proprio, la determinazione qualitativa di un modo di produzione non più dominato dalle categorie del capitale. Ma il rifiuto del lavoro è appunto fondamentale perché ripropone continuamente la lotta di classe all’interno del problema della transizione, perché riporta nella sua esperienza la complessità della dialettica liberazione-destrutturazione. Ciò si può vedere anche da un ulteriore punto di vista. Quando la coscienza critica dell’economia politica avverte l’attualità del processo proletario di rifiuto del lavoro, reagisce o in termini utopistici o in termini puramente ideologici. L’utopia tecnologica è la negazione del rifiuto del lavoro nella sua concretezza e il tentativo di attribuire le esigenze che da questa concretezza promanano allo sviluppo tecnologico, all’allargamento del capitale fisso, ed all’approfondimento dell’intensità della composizione organica del capitale. L’ideologia quietistica è il rovesciamento dei termini collettivi dell’esperienza del rifiuto del lavoro nella prospettiva della liberazione artigianale, nell’isolamento della grande vicenda collettiva nel segreto della coscienza individuale o nello interscambio comunitario fra individui. Bene, tutto questo non esiste: il rifiuto del lavoro è insieme destrutturazione del capitale e autovalorizzazione di classe, il rifiuto del lavoro non è invenzione che si affidi allo sviluppo del capitale né invenzione che finga l’inesistenza del dominio del capitale. Non è fuga né in avanti (utopisticamente), né all’indietro (quietistica, coscienziale) a fronte del rapporto collettivo che solo ci pennette di introdurre una logica della separazione (collettiva) di classe. La liberazione non è pensabile senza un processo che innesti la positività della costruzione di un nuovo modo, collettivo, di produrre sulla negatività della distruzione del modo capitalistico di produzione. La forza esaltante e dimostrativa del concetto di rifiuto del lavoro consiste marxianamente nella duplicità delle funzioni argomentate. Nella loro complementarietà. È chiaro che nel processo della transizione sarà diverso il peso che le due funzioni a mano a mano verranno assumendo. Ma guai a dividere il nucleo fondamentale che le produce o a fondare omologie fra di loro nel loro alterno sviluppo: la storia delle depravazioni socialiste del processo rivoluzionario si è sempre fondata sull’esaltazione di un momento sull’altro – alla fine entrambi ne risultavano distrutti, utopia ed individualismo ricomparivano, perché la prassi collettiva, il contenuto unitario del processo rivoluzionario, la sintesi di odio e di amore, il rifiuto del lavoro nella sua materialità erano stati con ciò distrutti.
Il rifiuto del lavoro come misura del processo di autovalorizzazione. Dunque, il rifiuto del lavoro è davvero uno strano concetto: è misura di se stesso, è misura del processo di autovalorizzazione di cui è il contenuto! Ebbene, si. Lo permette la sua natura dialettica, l’intensità della sintesi di destrutturazione e di azione dalla quale è investito. Innanzitutto dunque il progredire del processo di autovalorizzazione viene misurato negativamente, dal progredire della diminuzione del tempo di lavoro individuale e complessivo, della quantità di vita proletaria venduta al capitale. In secondo luogo il progredire del processo di autovalorizzazione viene misurato, positivamente, dalla moltiplicazione del lavoro socialmente utile dedicato alla libera riproduzione della società proletaria. L’odio per il lavoro e per lo sfruttamento è il contenuto produttivo della forza-invenzione, che è il prolungamento del rifiuto del lavoro. Cogliere il rifiuto del lavoro come misura del metodo di trasformazione sociale significa per noi un enorme passo in avanti. Significa puntare alla riduzione generalizzata dell’orario di lavoro e nello stesso tempo collegare a questo passaggio un processo di innovazione rivoluzionaria, teorico e pratico, scientifico ed empirico, politico ed amministrativo, subordinato alla continuità della lotta di classe su questo contenuto. Significa poter cominciare a riproporre parametri materiali di misurazione del progresso operaio in termini comunisti. Il problema della misura della forza produttiva. Infatti, non è un problema solo capitalistico: d’altra parte non sembra davvero che nella crisi, e nella permanenza della crisi, della legge del valore il capitale sia molto capace di automisurazione. Il comando non è una misura ma un’efficacia, un vigore, un atto di forza. Né il criterio della gerarchia salariale, né l’ordinamento monetario hanno più una logica che non sia quella del comando. La forza produttiva del lavoro sociale è più subita che organizzata dal capitale: gli si rovescia contro come destrutturazione. La misura della produttività del lavoro in termini di rifiuto del lavoro porta a completa demistificazione il comando capitalistico – sulla produttività, nega la possibilità di una produttività del lavoro che sia comunque sfruttamento, introduce una misura che nello stesso tempo squilibra il sistema. Una misura dell’approfondimento dell’intensità rivoluzionaria del processo di autovalorizzazione. A quel punto, finalmente, ci abitueremo a considerare la misura non una funzione dello sfruttamento (com’è finora sempre stata, come gli economisti – anche quelli della scuola del valore – continuano a pensare: fidatevi di loro!) bensì come misura della libertà. Una misura adeguata al lavoro vivo, e non agli esiti di sfruttamento e di morte del lavoro consolidato nel capitale. Una misura della quantità di rivoluzione prodotta, della qualità della nostra vita e della nostra liberazione. E il metodo della trasformazione sociale lo formeremo e lo trasformeremo continuamente su questa base, su questa misura.
La determinazione del rifiuto del lavoro come contenuto e misura dei processi di autovalorizzazione comporta anche, come s’è detto, alcune rilevanti conseguenze. Ci basta qui indicarne una di fondamentale, poiché incide immediatamente sulla composizione di classe. Ed è il nesso dinamico che, sulla base della pratica del rifiuto del lavoro e delle sue proiezioni pratico-teoriche, si propone fra avanguardia operaia della produzione diretta e avanguardia proletaria nella produzione indiretta. Ora, anche nelle più rivoluzionarie fra le varianti del marxismo teorico, il nesso fra lavoro produttivo diretto ed indiretto non ha mai trovato una collocazione, non s’è mai posto in una tendenza che non fosse di carattere meramente oggettivo. Il capitale allarga, integra, sviluppa e ricompone socialmente il lavoro produttivo in generale: bene, in questo quadro qualcuno talora osava identificare un movimento di unificazione del lavoro direttamente e indirettamente produttivo. Ma se noi ci poniamo dal punto di vista del rifiuto del lavoro, allora possiamo reinterpretare queste tensioni derivate dalla logica del capitale ed identificare, in maniera complementare e/o antagonistica, un processo ben più profondo, dialettico (e desiderabile dal punto di vista di classe) che percorre il tessuto del lavoro produttivo. Il rifiuto del lavoro è infatti, prima di tutto, rifiuto del lavoro più alienato, quindi più produttivo. È in secondo luogo rifiuto del lavoro capitalistico, come tale, cioè dello sfruttamento in generale. È in terzo luogo tensione al rinnovamento del modo di produrre, allo scatenamento della forza-invenzione. Nell’intreccio di questi motivi l’intensità dinamica del rifiuto del lavoro investe la globalità del modo di produzione capitalistico. Se tutto questo è vero, l’interscambio che socialmente il capitale impone, e la divisione che solo lentamente viene meno fra lavoro direttamente ed indirettamente produttivo, viene assunta dal rifiuto del lavoro a tema fondamentale. Nei rifiuto del lavoro vive il riconoscimento dell’interscambio fra lavoro direttamente e indirettamente produttivo perché vive una tensione distruttiva (del lavoro più sfruttato e insieme della sua riproduzione sociale) che è affatto unitaria. Anzi: è nell’interesse operaio negare i veli che il capitale stende sull’unità del lavoro sociale, e di contro potenziarla, articolarla. Il rifiuto del lavoro, quando poi si presenta come forza-invenzione, deve muoversi dentro l’unità di tutti gli aspetti del lavoro sociale, di quello direttamente e di quello indirettamente produttivo: il metodo radicale della trasformazione sociale non può infatti che applicarsi a questa unità, non può che riassumersela e riarticolarla dall’interno. Il rifiuto del lavoro, sia in termini di definizione sia in termini di prospettiva, investe così la composizione di classe data, forzandone le caratteristiche unitarie, e insistendo sulla riarticolazione operaia del lavoro produttivo in tutte le sue figure.
Altre sono le conseguenze che derivano dalla dinamica del rifiuto del lavoro e ad esse faremo cenno nei due prossimi paragrafi. Qui è stato importante insistere sull’unità del lavoro produttivo sociale in termini di rifiuto del lavoro. Infatti, in questo caso, non è solo un’operazione scientifica quella che si fa ma anche, e soprattutto, politica. Perché infatti dentro quest’unità complessa del rifiuto del lavoro, su questa ampiezza e densità della definizione di classe, tutti i fili del programma operaio rivoluzionario che fin qui siano venuti seguendo, si riannodano. Questa composizione di classe vuole allora un programma comunista che sia adeguato alla propria figura sociale, che incida efficacemente sul livello della produzione e insieme, in egual misura, su quello della riproduzione. Sul terreno della riproduzione la più immediata figura che assume il rifiuto del lavoro è quella della riappropriazione diretta della ricchezza, sia a livello mercantile che a livello istituzionale. E poi su questa composizione il rifiuto del lavoro agisce attaccando l’orario di lavoro e proponendosi fino in fondo come prima normativa relativa allo sviluppo della forza-invenzione proletaria. Insomma, questa composizione di classe che vediamo investita dal rifiuto del lavoro e dalla forza-invenzione, comincia a rappresentare globalmente il processo di autovalorizzazione, nella sua indipendenza e separatezza. (Ci si permetta di aggiungere ancora una volta che questa separatezza non è utopia tecnologica, non è solitudine individuale, non è illusione comunitaria. D’altra parte, dopo l’esperienza di questo decennio, c’è ancora qualcuno che possa mettere in dubbio l’efficacia e la complementarietà dell’azione di destrutturazione del sistema del capitale ed insieme di destabilizzazione del regime del capitale messa in atto dal rifiuto del lavoro?)