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PRAGMATISMO O TRANSIZIONE ECOLOGICA: QUALE GIUSTIZIA SOCIALE?

In un articolo del 29 dicembre u.s. apparso sul «Sole 24 Ore» e dedicato all’effetto della produzione di gas sui prezzi dell’energia, l’autrice auspicava «un forte e chiaro indirizzo politico per varare una deroga alle attività estrattive limitandole al gas e autorizzando caso per caso». Inoltre, caldeggiava, come precedentemente altri suoi colleghi di testata, la ripresa dell’attività esplorativa e un’equilibrata gestione dello stoccaggio.

Non si tratta di auspici così remoti dal realizzarsi se si tiene conto del fatto che in Italia la produzione di gas è appesa al PiTESAI, il Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee voluto nel 2019 da Conte, adottato dal decreto ministeriale n. 399 del 29 settembre 2021 e modificato di recente dall’intesa raggiunta in seno alla Conferenza Unificata, che, invece di bloccare tutto, di fatto ha eliminato dal territorio nazionale le aree interdette alle attività concernenti gli idrocarburi, non escludendo alcunché.

Il nodo, com’è facile comprendere, è strutturale e prescinde dal fatto che i prezzi del gas naturale sono fortemente condizionati da operazioni di arbitraggio e speculative e, visto che prescindono dai titoli effettivi di domanda e offerta, potrebbero persino attenuarsi nei prossimi mesi. Il nodo è strutturale, sì, ma non nel senso indicato dal «Sole 24 Ore» o anche dalla Lega di Salvini che, in nome di una fraintesa idea di pragmatismo, largamente condivisa dai parlamentari di Forza Italia, rivendica la sovranità energetica dell’Italia, ignorando o fingendo di ignorare, tra le altre cose, che nel nostro Paese la ricerca e l’estrazione di idrocarburi non sono nazionalizzate ma, cosa sin troppo nota, gestite da grandi multinazionali. Sono queste, poi, che vendono ciò che estraggono sia al privato, sia allo Stato.

E allora, in virtù del tanto auspicato pragmatismo, si potrebbero fare almeno due cose, come suggerisce Enzo Di Salvatore, studioso di diritto costituzionale da tempo impegnato nel Coordinamento Nazionale No Triv: eliminare il sistema delle franchigie (per un certo quantitativo di greggio e di gas estratto all’anno non si paga nulla) e innalzare la percentuale delle royalties (che oggi è pari al 7 e al 10%). 

D’altronde, le soluzioni, anche di altra natura, non mancano. Se proprio dobbiamo estrarre, almeno si massimizzi l’introito pubblico abbattendo i costi energetici per la popolazione e imponendo che quella che va sotto il nome di ecotassa, ossia il costo del ripristino del territorio, venga rateizzato durante tutto il periodo di esercizio dell’estrazione. In questo modo saranno veramente pochi i falchi esteri pronti a planare sui giacimenti nostrani.

Non sembra essere molto pragmaticamente vantaggioso, per chi deve fare i conti con il caro spesa, il caro bollette, il caro affitti e via dicendo, svendere pezzi di territorio in cambio di briciole. Fornire ad alcuni soggetti economici la possibilità di capitalizzare le risorse comuni e socializzare i costi sono azioni frutto di un pragmatismo odioso che andrà forse benissimo per soddisfare gli appetiti dei mercati, ma che non servirà a calmierare i costi energetici nel breve periodo. Pur accelerando i tempi di entrata in funzione degli impianti, si parla sempre di circa diciotto mesi, un anno e mezzo: un tempo troppo dilatato per far fronte a un’emergenza energetica.

In alternativa, lo Stato potrebbe ritoccare le accise e l’IVA su prodotti e filiere. Interventi a monte e a valle delle catene produttive che vadano in questa direzione potrebbero abbattere alcuni costi specifici ed evitare di riversare sull’acquirente di ultima istanza, noi comunissimi mortali, il peso dei rincari. Ma, si sa, l’IVA non si tocca, vuoi per tenere i conti in ordine, vuoi perché si tratta di uno dei principali canali di finanziamento dei programmi europei.

Un’altra cosa è certa: estrarre solo gas, come paventano la giornalista del «Sole 24 Ore» e Roberto Cingolani, Ministro della transizione ecologica, non ha alcun senso perché le tecniche per farlo sono le stesse previste per il petrolio.

Infine, merita una considerazione a parte il concetto stesso di transizione ecologica che allude chiaramente a un nuovo modello sociale ed economico di giustizia. Però, se Salvini e il Ministro della transizione ecologica parlano di pragmatismo nei termini esposti sopra è ovvio che il senso della parola e la stessa funzione del ministero non sono ben chiari.

Se transizione ecologica deve essere (e non mera “transazione”) che transizione ecologica sia, ma che preveda un vero rinnovamento radicale delle strategie produttive e, ancor prima, degli obiettivi della produzione. Non è possibile continuare sulla strada della crescita infinita: anche quando l’economia circolare dovesse entrare a pieno regime sarebbe sempre e comunque inserita in un circuito globale di equilibri precari tra vantaggi competitivi internazionali e rendite di posizione locale, nel quale le merci vengono spedite da un capo all’altro del globo. Sono, e lo saranno sempre più, merci preziose le cosiddette materie prime seconde, ossia lo scarto di lavorazione o il rifiuto che diventano materia prima per un successivo step produttivo. Da un certo punto di vista questo è senz’altro auspicabile, anche se non si può ignorare la tendenza a concentrare le fasi produttive più inquinanti o meno remunerative nei paesi in fase di crescita e a consumare nei paesi cosiddetti sviluppati. Il che implica un trasporto continuo di merci su ogni mezzo che rende l’economia circolare, fintanto che l’energia non sarà tutta prodotta da fonti pulite e rinnovabili, solo un palliativo, una mano di vernice verde su un sistema depauperante ed estrattivista sin dal midollo. Una “transazione ecologica”, dunque. Una nuova fase di espansione capitalistica che, in virtù dei dettami legislativi in materia energetica dei governi occidentali, permetterà al capitale di ristrutturarsi per poi avviare un nuovo ciclo di accumulazione.

La redazione di Malanova

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