Da tempo immemore ci si torna a interrogare sulla funzione e il potere degli intellettuali in seno alla civiltà capitalistica, perlomeno da quando la cultura esplicita, come la definiva Romano Alquati, degli intellettuali di professione si è interessata quasi esclusivamente alla riproduzione dell’esistente, elidendo ogni finalità antagonista. È questa la via, lungo la quale il sapere, venduto e comprato come una merce, concorre, come è facile prevedere, alla strutturazione di soggettività pienamente capitalistiche.
La lavorizzazione delle capacità intellettuali, promossa anche da un processo di formazione che si è più volte mostrato sprezzante nei confronti delle competenze, ha desacralizzato il sapere, facendone una merce come tutte le altre. Sarà per questo motivo che qualche intellettuale di professione ha proposto che la formazione venga intesa come tutela del sacro, quando invece sarebbe stato opportuno concepirla come demercificazione del profano e, quindi, come capacità umana di essere attivi, sottraendosi a un ruolo sociale predisposto una volta per tutte.
A metà strada tra l’attore-umano, del tutto asservito al potere, e il soggetto-umano, pienamente antagonista, vive l’agente intermedio, una specie pericolosissima di intellettuale che svolge il proprio ruolo con una certa autonomia, ma dimostrando anche una inequivocabile adesione e, tutto sommato, un sicuro gradimento nei confronti del sistema capitalistico. Detto in altri termini, si tratta di un intellettuale che sale e, all’occorrenza, scende dalla propria torre d’avorio e che, in silenzio o con voce flebile ha scritto recentemente Sabino Cassese in un discutibilissimo libello (Intellettuali, Bologna, il Mulino, 2021), guarda il cielo, ma senza lottare, senza prendere mai posizione, imponendosi soltanto con la sua disorganica e altalenante presenza. Questo agente intermedio, staccato dalla realtà concreta e narcisisticamente proiettato su un piano di mezza cultura, permeato di astrazioni e di sottoprodotti del pensiero, non dispone certamente della capacità di demercificare il sapere perché rincorre semplicemente il consenso, la doppiezza, invece di mirare all’acquisizione di soggettività. E, invece, è scontato che l’intellettuale dovrebbe paventare una qualche uscita dal sistema capitalistico che, se si vuole dare retta alla cultura esplicita degli agenti intermedi, è omeostaticamente chiuso. E allora bisogna provare a uscire, magari recuperando la dimensione materiale del conflitto, ossia rapportandosi criticamente alla vita e opponendosi alla rassicurante e angosciosa statizzazione del pensiero.
All’alluvione di parole che caratterizza l’oggi non si può certo pensare di rispondere mediante il silenzio caldeggiato dall’incredibile Cassese (invece che Intellettuali il suo libro avrebbe dovuto intitolarsi Intermedi): si tratterebbe, in entrambi i casi, di forme di quello che è stato recentemente definito da Walter Siti come neoimpegno e che però, in tutte e due le prassi, degrada l’azione intellettuale a specializzazione merceologica, a impegno diversamente direzionato. Dunque, l’intellettuale non deve adottare la postura sciattamente engagée di chi vuole guarire le persone o provare a riparare il mondo per qualche ora o per qualche giorno, finendo poi per adattarsi a esso; bensì detenere quel carico di dubbio (quell’apertura all’imprevedibile, se si vuole) che gli consenta di agire la realtà capitalistica odierna, ma di farlo a partire dalla propria soggettività, cosa ben distante dalla semplice resistenza o dall’ambivalenza narcisistica.
La redazione di Malanova