Viene alla mente la scena del film L’attimo fuggente, nella quale veniva letto un saggio del fantomatico docente emerito J.E. Prichard dal titolo Comprendere la poesia che suggeriva un metodo geometrico per stabilire la potenza espressiva di un’opera. Va da sé che la complessità di una produzione letteraria come quella poetica è difficilmente inquadrabile all’interno di una serie di schemi esemplificativi del reale tumulto di sensazioni che sono spesso i generatori di un componimento. Allo stesso modo utilizzare metri ormai logori per misurare la distanza che il ceto politico ha interposto fra sé e le problematiche sociali è un’operazione che potrebbe risultare inutile se non addirittura balzana.
L’agire politico parrebbe essersi orientato al solo agire comunicativo: vi è più interesse nel far sapere ciò che si fa piuttosto che nel saper fare, il che pone l’accento sull’aspetto della narrazione. Se l’agire politico si sposta dalla pratica del conflitto alla sua narrazione, è chiaro che gioca su un terreno che ha più a che vedere con la comunicazione che con l’azione reale. Comunicazione, beninteso, non diretta a interloquire con il corpo sociale o con quei soggetti che subiscono le angherie del sistema, ma un vero e proprio agire nella narrazione, con tutto il carico di enfasi che necessariamente implica. Far sapere ciò che si fa, quando ciò non è descrizione di fatti ma autocelebrazione, finisce con il competere con quella narrazione artefatta tipica del sistema.
Sempre attingendo alla cinematografia potremmo ripescare Quarto potere o il nostrano Sbatti il mostro in prima pagina: la narrazione giornalistica che non informa dei fatti ma, citando Carmelo Bene, “informa i fatti” ha attecchito anche in quello strato culturale che avrebbe dovuto avere gli anticorpi per difendersi dai miasmi della narrazione tossica. In tutto ciò, l’uso e l’abuso della rete ha contribuito ad accelerare la corsa all’auto-narrazione celebrativa. L’agire comunicativo di movimento, un tempo ammantato dall’appellativo di controinformazione, si è via via trasformato in una sorta di story telling. Un agire non più comunicativo in senso ampio; piuttosto un racconto a tinte accese ed entusiastiche di eventi di varia natura.
Quindi una manifestazione con una buona partecipazione numerica (magari preparata in un anno intero) diventa, in questo tipo di narrazione, il preludio per la rivoluzione, salvo poi non lasciare traccia di sé dal giorno successivo, eccezion fatta per qualche articolo di giornale e una valanga di video e foto in rete. Una piccola “azione simbolica” condotta da uno sparuto gruppetto di militanti diventa l’occupazione di un palazzo del potere, magari è solo uno striscione appeso a una finestra o uno sventolio momentaneo di bandiere su un tetto, nel mentre nel suddetto palazzo nessuno s’è accorto di niente. Ciò avviene in lungo e in largo per l’Europa; in questo almeno l’Italia non ha il primato della farsa.
Quel che conta è narrare a tinte eroiche e con foto d’effetto l’assalto al cielo. Che poi si sia dovuto mostrare il documento alla reception per salire sul tetto questo conta poco. Quel che a nostro avviso conta è il progressivo distacco avvenuto tra questo tipo di agire politico e le problematiche socio-economiche vissute ed esperite da una fetta crescente della società.
Come leggere, allora, il nostro tempo e le dinamiche che operano in esso? Seguendo gli interrogativi che questa domanda pone, lasciandone aperti più di quanti riesca a evaderne, si giunge dopo una lunga serie di ragionamenti alla necessità impellente di autocritica. Essa risulta necessaria per ridefinire i termini dell’agire politico e comprendere quanto da questo ci si sia allontanati nel corso degli anni.
Quello che qui si vuole proporre non è una modalità di lettura della composizione del ceto politico messa a confronto con alcune date o fasi cruciali della storia più o meno recente. Piuttosto, capire non tanto da chi è formato e quali sono le sue aspettative o le sue ambizioni, ma come questo si è trasformato e sotto quali spinte è avvenuta la trasformazione .
Il primo passo è stabilire di cosa stiamo parlando quando usiamo il termine ceto politico. È chiaro che non ci riferiamo alla governance istituzionale, ma a quell’ambito della cosiddetta sinistra extraparlamentare divenuta tale non perché espressione, come in passato, di soggettività politiche volutamente altre dalla sinistra parlamentare e dunque ad essa antagonista, ma l’“extra” oggi indica un essere fuori, non per propria volontà politica, dalla governance parlamentare, continuando però ad aspirare al rientro. A questo blocco politico oggi si è aggiunto altro.
Come comprendere questa costellazione tanto variegata? Come leggerne la composizione socio-culturale? Forse per venire a capo di questi interrogativi va fatto qualche passo indietro per descrivere il recente passato e comprendere cosa è stato forse irrimediabilmente perso.
Se percorriamo a ritroso i trascorsi di movimento fino agli anni ’90, cominciando dalle ultime grandi azioni di conflitto a livello nazionale, delle quali in molti sembrano essersi dimenticati, come la stagione dell’Onda e quella delle battaglie contro le grandi opere, i tentativi di coordinamento passati sotto il nome di Patto di Mutuo Soccorso e giù fino al movimento della Pantera, si potrà apprezzare il sostanziale cambiamento nelle rivendicazioni e nelle proposte.
A mano a mano che avanzava l’erosione del welfare, dei diritti e delle garanzie sociali, venivano modificandosi le parole d’ordine, fino a giungere all’attuale rivendicazione del reddito garantito per tutti, quando negli anni ’90 si avviavano sperimentazioni di autoreddito[1] e già qualcuno storceva il naso, intravedendo il depotenziamento dell’attività politica e militante in favore di quella economico-commerciale.
Nel mezzo c’è stato uno degli spartiacque più controversi della storia recente, l’anno 2001. Da un lato, il conflitto mediorientale, che ha visto una vera e propria escalation fra il fronte iracheno e quello afgano; nel nostro Bel Paese, invece, c’è stato il G8 di Genova e nel mondo l’11 settembre. Un susseguirsi di eventi sempre più stordenti, dalla macelleria di Bolzaneto e della Diaz allo sgomento delle torri gemelle, che ha in qualche modo silenziato per mesi i giornali sui “fatti di Genova”.
Dicevamo uno spartiacque. Ebbene, per quello che possiamo definire il ceto politico militante, Genova 2001 è stato un punto critico di proporzioni mai viste. Per alcune letture il G8 di Genova è stato un momento di altissima conflittualità; per altre, il G8 è stato l’acme della crisi, dopo di che vi è stata una lunga agonia intervallata da sussulti potenzialmente risolutivi, ma viziati da quel male che ci ha condotti alla letargia di questi ultimi tempi. I sussulti possono essere ricondotti alla stagione dei “No” alle grandi opere, nella quale si è tentata una ricomposizione delle istanze movimentiste, con il Patto di Mutuo Soccorso, naufragato in una serie di lotte intestine per la leadership, all’effimera stagione No War del 2002-2003 e poi all’esperienza dell’Onda, anche questa consumatasi con contrasti accesi all’interno delle varie anime, tra quelle più movimentiste a quelle più sindacalizzate, spesso più inclini a rivendicare la paternità di talune azioni piuttosto che incidere nel tessuto studentesco, ormai prossimo al precariato esistenziale ma che nelle assemblee del 2008 aveva preso parola dentro un quadro spesso ambiguo (con appelli alla meritocrazia e alla legalità, ad esempio), ma che andava necessariamente agito. Anziché una capacità d’inchiesta, nei militanti ha prevalso, per l’ennesima volta, un atteggiamento paternalistico nei confronti degli studenti. Il risultato è stata una giustapposizione dei gruppetti politici alla composizione reale con goffi tentativi di rappresentarla senza mai afferrarla materialmente.
In Italia il cosiddetto “populismo” nasce proprio da questa sconfitta. Quando le pulsioni e le attitudini ambivalenti non trovano lo sbocco in processi autonomi di organizzazione, diventano facilmente preda della rappresentabilità istituzionale. L’ultimo decennio è stato un susseguirsi di soggettività caotiche e atipiche di questa natura[2].
Quali possono essere i connotati di questo male della militanza? Non abbiamo la presunzione di poter fare una anamnesi completa e definitiva, ma crediamo che forse cominciare a riflettere sul passato non possa che far bene alla comprensione. Premesso che l’intenzione non è di dare patenti di autenticità o menare strali sull’agire di questo o quel soggetto politico, è chiaro che se ci troviamo ai minimi storici in quanto a forze e qualità della militanza, un problema deve pur esserci.
Riprendere i filacci di un discorso aggrovigliato è difficile, ma cercando di ripercorrere alcune fasi salienti si potrebbe venire a capo di qualcosa. Pur nella sua incompletezza è sempre preferibile intraprendere una analisi critica del passato, piuttosto che far finta di nulla. Guardare in faccia errori di varia natura, tattici, strategici o interpretativi che fossero, è sicuramente meglio che dare la colpa agli altri.
Abbiamo individuato in apertura di questo scritto la questione della narrazione dell’agire conflittuale e il suo surrogare il lavoro politico lento e costante. La rapidità ha soppiantato, come azione “necessaria”, il lavoro carsico di ricucitura sociale e d’inchiesta. La fame di risultati eclatanti e spendibili ha scalzato quel lavoro quasi certosino di dialogo e ricomposizione, di comprensione delle enormi contraddizioni vissute da interi pezzi di società. Quei grandi lavori di inchiesta del recente passato che potremmo definire non narrativi ma analitico-descrittivi, hanno lasciato il posto a brevi cronache tratteggiate a tinte forti e contrasti stridenti. I famosi libri e quaderni che descrivevano un fenomeno a vari livelli e in diverse situazioni geografiche si sono volatilizzati e hanno lasciato il posto a brevi reportage che si limitano spesso a narrare le condizioni di miseria senza andare al nocciolo del problema.
Persa la capacità di leggere un problema locale come derivazione di una dinamica nazionale e sovranazionale è chiaro che le uniche “soluzioni” possibili diventano le azioni tampone dei vari Governi. Forse questo è il primo nodo che viene al pettine della nostra analisi. Le proposte di risoluzione dei problemi sono via via migrate verso una visione che, in altri tempi, si sarebbe definita riformista se non addirittura migliorista[3]. A questo punto, nel momento in cui più o meno esplicitamente si accetta l’inevitabilità del modo di produzione capitalista come invariante di sistema, appare chiaro che le rivendicazioni e le azioni non mirano più a una rottura strutturale col sistema. Appare chiaro, almeno per chi ha l’amabilità di accettare questa deriva e analizzarla, che si giunge a una progressiva compatibilità col sistema. Una sorta di spirale che conduce immancabilmente a un centro di gravità per successive accettazioni di compromessi. È anche chiaro che questi compromessi non sono affatto espliciti. Si deve sempre mantenere una parvenza di identità antisistema o anti qualcosa.
Da qui, ad esempio, tutto il caleidoscopio di iniziative per estrarre un po’ di ricchezza da ambiente, cibo biologico, artigianato, cultura, ecc.: prodotti ad alto valore aggiunto, direbbe qualcuno, appannaggio però di una cerchia ristretta di persone. Il mangiar sano è divenuto così tanto in voga che anche la grande distribuzione fa le linee bio. Ma tra il mantra del biologico e i prodotti naturali non per tutte le tasche, si inserisce un linguaggio fatto di decrescita e antisistema. Il problema è il meccanismo di autoalimentazione di una narrazione che sfocia in una tendenza culturale: anche qui nulla di male, se non fosse che tutto ciò permane nei binari di una diversificazione sociale. Diversificazione nella quale continua a non esserci posto per chi ha un basso reddito, a meno di non riuscire a infilarsi nei gangli della filiera corta. Ma la dinamica di ingresso nel mercato del “fuori mercato” ha comunque le sue regole, con costi ben determinati sia in ingresso che in uscita, siano essi monetizzabili o culturali e politici. Valgono sempre, anche all’interno della narrazione del fuori mercato, concetti come rendita di posizione, vantaggio competitivo, solidità dell’immagine, branding, ecc.
Un altro connotato di una gran parte del movimento, emerso nel recentissimo passato, è il progressivo abbandono di pratiche di contropotere, conflitto e incompatibilità per un graduale passaggio a una visione più istituzionalizzata dell’agire politico. Un incalzante aumento della partecipazione alle corse elettorali ha definito gli ultimi vent’anni della stagione politica del Bel Paese. Dalle liste indipendenti per governare i piccoli comuni alle liste civiche, espressione di comitati o presidi popolari nati sulla scorta di battaglie contro ecomostri, grandi opere e disastri di vario genere. La composizione di questi soggetti è quasi un canovaccio costante in lungo e in largo per la penisola: pezzi di sinistra usciti dal parlamento e che vorrebbero rientrarci e pezzi di movimento che in parlamento non ci sono mai entrati, ma che vorrebbero tentare di metterci un piede.
Mettendo in fila un po’ di questi nodi che di volta in volta arrivano al pettine della nostra analisi, osserviamo come l’agire politico degli ultimi anni è stato in qualche modo condizionato da istanze che prevedono risultati immediatamente spendibili anche a fronte di esiti non stupefacenti, quindi il ricorso a narrazioni sovraccariche di enfasi che tendono a esaltare i risultati e a marginalizzare, quando non a oscurare del tutto, i punti critici.
La progressiva perdita di capacità di spesa da parte del ceto medio ha avuto un impatto non indifferente sulle rivendicazioni di movimento e su un corollario di questioni affacciatesi all’attenzione pubblica. C’è da premettere che, dagli anni ’60 fino agli anni ’90, il cosiddetto ceto medio (oggi declassato o che ha paura di diventarlo, ambivalente nella composizione e bisognoso di una maggiore attenzione analitica) è notevolmente aumentato di spessore, inglobando parte del ceto medio basso e del proletariato rurale (aumento quantitativo della popolazione con determinate caratteristiche reddituali). Da lì in poi si è avuta un’inversione di tendenza, con un progressivo assottigliamento del ceto medio[4]. Inversione di tendenza avvenuta con l’introduzione delle politiche neoliberiste di matrice anglo-americana, dal Thatcherismo inglese al Reaganismo americano. Parliamo degli anni ’80 del secolo scorso. Unitamente all’adozione di tali scelte economiche ritroviamo anche un cambiamento sostanziale della visione sociale. Tre decenni di propaganda neoliberista hanno destrutturato il tessuto sociale, associati allo sconvolgimento del mondo del lavoro e al cambiamento profondo dei sistemi produttivi che da conurbati e agglomerativi sono diventati decentrati (almeno in occidente). Il mantra era rafforzato dal fatto che si considerasse soltanto l’esistenza degli individui a discapito della società. Individui, nella migliore delle ipotesi, con molti interessi in comune. La società è un concetto che appartiene al passato: oggi abbiamo donne, uomini e famiglie e i loro relativi bisogni, che un lavoro decente e un po’ di indebitamento possono soddisfare. Questo il modello esportato ovunque.
Ma davanti a questo sovvertimento radicale si è arrivati sistematicamente e strutturalmente sempre dopo, e sempre più in ritardo. Il movimento No-global, che a Genova ebbe il suo punto di massima visibilità europea, arrivava con un ritardo di almeno vent’anni su quello che era un fenomeno ormai consolidato che stava innervando l’intera struttura sociale. Già a Seattle, in occasione delle proteste che poi innescarono il movimento No-Global a livello planetario, non era più avanguardia, non anticipava una fase, né individuava le traiettorie future di tendenze in fase di consolidamento ma ne descriveva soltanto gli effetti nefasti già consolidati.
Difatti quel movimento, pur nella sua ricchezza di proposte e nella sua complessità propositiva, nasceva a rimorchio di una fase, inseguiva il processo anziché anticiparlo. Alla fine del secolo scorso i giochi erano ormai fatti e il cambiamento verso una società completamente asservita alle isterie del mercato era già in atto. Non vorremmo scomodare le politiche di disarticolazione delle briglie del mercato introdotte da Nixon o le sperimentazioni neoliberiste in Cile, ma quelle non furono provvedimenti avulsi da un qualsivoglia contesto o capricci di qualche presidente più o meno legittimo. Erano e devono essere considerate dei test di prova, da un lato, e creazione di alcuni presupposti, dall’altro.
Svincolare il sistema monetario internazionale dal regime di cambi fissi ha riacceso i motori della speculazione; il “miracolo cileno” serviva a capire quali erano i margini di manovra nel processo di privatizzazione dei servizi pubblici. Tutto ciò avveniva negli anni ’70[5], mentre le mobilitazioni di Seattle e il movimento NO-Global, com’è noto, vedevano la luce tra il 1999 e il 2000. Tra azione e reazione passano più di 25 anni. Ma la storia si ripete e, dal pacchetto Treu al processo di Bologna[6], le reazioni alle modifiche introdotte avverranno circa dieci anni dopo, tra le proteste contro il precariato e le occupazioni universitarie che avranno un punto in comune nelle mobilitazioni dell’Onda. Potremmo continuare a discutere del processo di privatizzazione introdotto sempre negli anni ’90 sul quale ancora si sta tentando fare marcia indietro. Eppure, ciò che avveniva non era un mistero per nessuno. Le ricadute erano comprensibili e immaginabili e gli scenari futuribili ampiamente prevedibili, essendo frutto di meccanismi che erano stati limitati dalle riforme keynesiane e dall’impronta socialdemocratica data alle democrazie occidentali.
Ebbene, estintasi la forza propulsiva del decennio ’68-’77, sembra che tutto ciò che di politicamente attivo sia avvenuto dopo, almeno in Europa, sia qualcosa di oscillante tra l’epigonismo e il migliorismo. Da un lato, si è tentato di far rivivere la stagione di conflitto aperto, sia con la riproposizione di sussulti di lotta armata sia con il conflitto di piazza; dall’altro, si ragiona di innovazione dell’analisi politica e della creazione di percorsi di presunta incompatibilità che hanno però come scopo la creazione di autoreddito in alcuni casi o di consenso in talaltri, quando queste due istanze non vengono a coincidere in un unico percorso.
Allo stato attuale, dunque, ci troviamo di fronte alla mancanza generalizzata di supporti teorici alla comprensione della fase storica. Nel tentativo di superare il Novecento con un balzo, abbiamo perso parecchi pezzi per strada, prova ne è che spesso si leggono analisi apparentemente innovative, ma che, nella migliore delle ipotesi, reinventano la ruota, nell’inconsapevolezza di giungere a conclusioni attardate. A volte certe “perdite” sono frutto di una strategia specifica, come quella di abbandonare alcuni termini ma con essi anche il senso dell’agire. Il senso del conflitto perde di significato se invece che essere un processo di sottrazione continua di consenso allo status quo, diventa una pantomima rituale da celebrarsi in ogni corteo.
La redazione di Malanova
note
[1] Si veda, a tal riguardo, il documento di alcuni centri sociali romani coordinati sotto la sigla Grande Raccordo Autoproduzioni dal titolo Nuove frontiere per l’autoproduzione (Roma, aprile 1996). Il documento è consultabile al seguente URL: https://www.inventati.org/scarph/LSK/sopravvivenza/documenti/frontiere.pdf.
[2] G. Roggero, Il militante senza qualità, Machina, 02 novembre 2020. L’articolo è consultabile al seguente URL: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/il-militante-senza-qualit%C3%A0.
[3] Il “migliorismo” sosteneva l’idea del possibile miglioramento dall’interno del capitalismo, quando non la sua supina accettazione come dato di fatto. Tale miglioramento sarebbe dovuto avvenire attraverso una serie di graduali riforme e praticando una politica socialdemocratica che non si opponga in maniera violenta o conflittuale al capitalismo stesso. La proposta politica migliorista nella sua elaborazione teorica si rifà alle tendenze riformiste del deputato e dirigente comunista Giorgio Amendola. Amendola era propenso a un graduale allontanamento dall’ideologia marxista, almeno nelle sue forme non revisionistiche, per abbracciare tattiche e strategie riformiste e socialdemocratiche. Il testimone passò poi a Giorgio Napolitano, distintosi per le sue tendenze apertamente europeiste.
[4] Rimandiamo per un approfondimento all’articolo Stratificazione, declassamento e soggettività (“Malanova”, 26 aprile 2021) consultabile al seguente URL: https://www.malanova.info/2021/04/26/stratificazione-declassamento-e-soggettivita/.
[5] Nel 1971 Nixon abolisce il regime di cambi fissi; nel 1975 si apre la stagione delle politiche ultraliberiste in Cile.
[6] Due momenti di “svolta” tra mondo del lavoro e istruzione universitaria: il pacchetto Treu ha visto la luce tra il 1995 e il 1997, il processo di Bologna è del 1999.