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LAVORO, REDDITO E BENESSERE MATERIALE (PARTE I)

Questo lavoro ha avuto una lunga gestazione, la prima bozza è del 2017 poi rivista e rimaneggiata a più mani fino  a questa che non è sicuramente definitiva. il testo è quindi ancora emendabile o integrabile in virtù del fatto che esso esprime il punto analitico fra concetti che pur rimanendo ancorati saldamente al conflitto capitale-lavoro, nella radice del loro presentarsi come problematici, sono coinvolti in un processo di continua ridefinizione semiotica. Concetti quali lavoro, reddito e bisogni materiali, pur rappresentando la base materiale della struttura sociale, subiscono una continua oscillazione simbolica, cioè cambiano le vestigia del problema, mutano i significanti, in un processo funzionale alla riproduzione (che va qui intesa in senso eminentemente marxiano di valore riproduttivo socio-economico). Siamo partiti da questi assunti per cercare di definire alcuni punti critici per individuare un impianto analitico che possa aprire un dibattito corale, al di là delle superfetazioni simboliche imposte dalle tendenze contemporanee di riproduzione del capitale. Il lavoro si pone come primo concetto da analizzare, come parte in causa in un rapporto sociale ipertrofico, sia perché disvelante il processo di riproduzione sia come meccanismo di assoggettamento e stratificazione della società. Questo lavoro può considerarsi come un punto intermedio in un percorso di “identificazione”, attraverso il quale comprendere dove si è collocati nel meccanismo di riproduzione e quali sono i processi che ci tengono in asse con il resto della macchina capitalista.

Il lavoro tout court, come fattore fondante della produzione, mantiene inalterato il suo ruolo, ma per comprendere i cambiamenti in atto e la progressiva compressione occupazionale legata ad alcune specifiche tipologie di lavoro, è necessario decostruirne il concetto relativamente ad alcuni parametri. Va precisato che il fattore lavoro viene qui inteso nel senso del pensiero economico classico, quindi da un lato come principio fondante del valore, lavoro incorporato (Smith 1776) e teoria del valore  (Ricardo 1817), dall’altra, il valore del prodotto ha in sé il plusvalore generato dal lavoro (Marx 1886). 

Nell’era fordista la divisione del lavoro seguiva, in certo modo ricalcandola, la piramide sociale presente nelle aree urbanizzate: molti lavoratori con qualifica bassa o nulla (elemento costitutivo dell’applicazione della teoria taylorista nella catena di montaggio), il lavoro dei quali era organizzato e controllato da lavoratori con qualifiche via via più alte e in numero via via sempre minore, fino ad arrivare alla soglia sulla quale finiva lo strato sociale che costituiva la forza lavoro manuale o bracciantile e cominciava la categoria dei tecnici dei professionisti e dei dirigenti.

Si affacciavano nuove figure professionali che dovevano gestire la nascente complessità della produzione, finanche le istituzioni universitarie furono investite da questo rinnovamento. Nacquero i corsi di ingegneria meccanica, si affinarono le leggi sulla protezione delle idee (brevetti e diritti di sfruttamento dei metodi di produzione), in vari modi la produzione di massa ha introdotto profondi mutamenti strutturali nella società. Ciò che nel tempo è mutato è stato il senso del prodotto del lavoro per gli stessi lavoratori, il salario da moneta per gli acquisti dei beni di prima necessità (affitto, abiti e cibo), ossia la riproduzione del lavoratore è diventata lo strumento per riprodurre il meccanismo del consumo accelerando la riproduzione del capitale. 

La crescita del capitale è stata legata a doppio filo alla crescita dei consumi che a loro volta innescavano processi di espansione dei siti produttivi, ampliamento delle aree urbane, infittimento delle vie di comunicazione ed evoluzione e potenziamento dei mezzi di trasporto. Il commercio e le aree di arrivo delle merci hanno dato l’impulso alla produzione di servizi logistici che hanno liberato la produzione dei beni dall’onere del trasporto come comparto annesso alla fabbrica, con un processo di successive esternalizzazioni. 

Altra forza lavoro per la produzione di servizi che affianca quella impiegata nella produzione di beni, l’apparato produttivo diventa ancora più complesso aumentando il numero di soggetti operanti nella filiera produttiva. Cresce la domanda di forza lavoro, crescono i salari ma contemporaneamente le innovazioni tecnologiche, tanto nella produzione quanto nei trasporti, abbassano progressivamente il costo delle merci, aumentando di conseguenza il potere d’acquisto, quindi generando impulsi di crescita vertiginosi.

La società diviene complessa, così i rapporti in essa generatisi; l’apparato statale diviene promotore della produzione attraverso le politiche di sviluppo da un lato o attraverso le richieste di produzione bellica dall’altro. La pianificazione urbana assume un ruolo di razionalizzazione del territorio per ottimizzare le risorse produttive e minimizzare i tempi di trasporto, ma alla base di tutto vi è la crescita economica che rimane legata alla crescita dei consumi. Il lavoro da semplice rapporto tra individuo e fabbrica diventa un fattore socio-economico sul quale si regge l’intero sistema capitalista. Da qui il concetto marxiano di capitale come rapporto sociale.

Anche il senso del salario comincia a cambiare: da mezzo di sussistenza individuale diviene un fattore di crescita sociale. Esso aumenta ma rimane comunque generalmente bassa la quantità di moneta risparmiata (fatta eccezione per poche realtà quali l’Italia), in quanto si tende a spendere tutto quel che si guadagna per soddisfare bisogni crescenti (nella sostanza per soddisfare l’esigenza di somigliare alle classi agiate).

Rimane fondamentale la decostruzione del salario come fattore riproduttivo dello sviluppo lineare del capitale; quota parte del salario deve essere necessariamente spesa per poter riprodurre la propria capacità produttiva, ma nel tempo questa aliquota è passata dal contemplare cibo, casa e vestiario al comprendere il trasporto individuale, con tutti gli oneri accessori per la circolazione e la manutenzione. 

A questa prima sottrazione “fisiologica” del reddito si aggiunge la parte spettante alla riproduzione del consumo, l’acquisto di beni accessori non durevoli: un tempo erano gli elettrodomestici, mentre ora la parte del leone la fa la tecnologia e gli abbonamenti a servizi. Ciò significa che l’esigenza di moneta si è progressivamente sbilanciata su un consumo inteso come costitutivo sociale. Inoltre, la tendenza in atto da almeno un trentennio nei paesi occidentali è quella di una progressiva trasformazione del consumo da riproduttivo a distruttivo: invece di consumare per riprodurre la capacità-attività-umana ed incrementarla e di rivendicarne l’arricchimento, si spende il reddito (salario) ora calante e si fruisce per distruggere ricchezza e per sviluppare i mezzi che potenziano proprio solo questa produzione di ricchezza da distruggere (Alquati, 1994).

L’attuale richiesta di reddito apre degli apparenti paradossi socio-economici, apparenti perché sembrerebbe un controsenso abbassare i salari (attraverso la precarizzazione, per esempio) creando una contrazione generalizzata della domanda di beni, innescando fenomeni recessivi e alimentando spirali discendenti nella crescita economica. Apparenti in quanto vengono analizzati dal punto di vista della “salute” generale del Paese e non dal punto di vista di allocazione di capitali. La contrazione dell’offerta di lavoro in un contesto geografico non implica, di fatto, la contrazione di produttività di una generica azienda che, ad esempio, delocalizza la sua produzione o che scambia tutta la sua produzione su altri mercati.

Questa apparenza del paradosso è solo la superficie di un problema più profondo che deve essere compreso ed elaborato, fino a giungere alla comprensione di una totale ineluttabilità di talune derive economiche. Da qui la necessità impellente di nuove strategie di conflitto per uscire dall’impasse e per costruire percorsi di incompatibilità con un sistema che non ha vie d’uscita soft dall’accelerazione dei processi ciclici di crisi e “ripresa”.  

Il lavoro, nella sua essenza di processo trasformativo, non è una prerogativa dell’essere umano; macchine e animali possono svolgere molte mansioni, ma soprattutto le macchine, le quali, in ragione dell’avanzamento tecnologico, tendono a sostituire il lavoro umano. Quindi il lavoro in sé, come fonte di profitto per chi lo utilizza, organizzandolo in un processo razionale che, dentro il ciclo produttivo, produce una progressiva sottrazione e soppressione di una quota di fattore umano. Questo non è un problema nuovo, esso fu ipotizzato già nel momento in cui si ravvisavano le prime innovazioni tecnologiche nel campo industriale. 

Ricardo, già nel 1817 scriveva: “l’opinione della classe lavoratrice secondo la quale l’impiego delle macchine è spesso dannoso ai propri interessi non si basa sul pregiudizio e sull’errore, ma è conforme ai corretti principi dell’economia politica”. Ciò che Ricardo non immaginava era che l’evoluzione dei mezzi di trasporto e di comunicazione, avrebbero diviso il mondo in aree di due categorie: da un lato, le aree a capitalismo avanzato che, implementando lo sviluppo tecnologico, richiedono meno forza lavoro; dall’altro, le aree con un capitalismo in via di definizione, che attraggono quote crescenti di produzione dai paesi avanzati, grazie al basso costo di produzione, in primis il costo del lavoro. 

Sul lungo periodo si può immaginare che si raggiunga un equilibrio nello sviluppo globale del pianeta, ma non si può chiedere a chi versa in angosce quali la segregazione sociale e la povertà di sperare in un futuro migliore, ammesso e non concesso che gli sconvolgimenti climatici non ci spazzino via anzitempo. Forse spostando l’attenzione dal problema del lavoro in termini quantitativi al problema del lavoro in quanto fattore di riproduzione che può essere surrogabile con altro ci indurrebbe a rivedere alcune scelte del passato e a rimodulare le azioni del presente.

Non avere chiaro che il lavoro sta perdendo la sua centralità nella riproduzione del capitale, pone in evidenza il ritardo analitico della fase attuale. Ritardo spesso assecondato da richieste di ripristinare lo status quo invece di tentare di mettere in discussione tutto il sistema. Negli anni passati si agitavano slogan contro la globalizzazione spesso non avendo idea di cosa fosse fino in fondo; ora che stiamo guardando i suoi effetti, spesso non ci viene in mente nulla di meglio che esigere redditi più alti e lavori stabili e questo vuol dire continuare a sottovalutare la portata del fenomeno.

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