Il processo di razionalizzazione del capitale è un processo di ristrutturazione permanente del modo di produzione che anticipa o è frutto di profonde trasformazioni sociali.
Come ampiamente analizzato da Guattari e Deleuze, il processo di avanzamento capitale, si traduce in una operazione simultanea di deterritorializzazione e riterritorializzazione. Ossia un processo di sradicamento e reinnesto di principi valoriali che devono essere cambiati affinché la riproduzione del capitale possa avvenire in maniera organica alla società stessa.
Questi processi si sono affacciati diverse volte lungo la storia del capitalismo. Il periodo che va dal 1872 al 1900 fu attraversato da quella che passò alla storia come la “Grande depressione”, la prima crisi economica del mondo moderno a essere definita tale per portata ed estensione temporale. In questa occasione il rapporto solidaristico tra stato e capitale diventa sempre più forte con il primo che inizia a rivendicare il potere di intervenire nell’organizzazione economica. Nei decenni successivi il ruolo e le funzioni dello Stato saranno affrontate da Lenin in maniera chiara e articolata.[1]
Un elemento che caratterizzò la fuoriuscita dalla depressione – che diventerà elemento permanente anche nelle successive crisi e nei cicli di ristrutturazione capitalista fino ai giorni nostri – è il ruolo della scienza che fu di tipo produttivo, partecipando in maniera permanente alla produzione di valore attraverso le innovazioni tecniche e organizzative. Dal lato della manodopera la deflazione perdurante nel corso di tutto il ventennio di crisi innescò un massiccio ciclo di licenziamenti e di politiche di riduzione salariale e, chiaramente, dei vasti movimenti migratori dalle campagne dilaniate dalla crisi alle città e dalle aree meno sviluppate a quelle economicamente più forti del mondo. L’effetto combinato della deflazione e del nuovo ciclo produttivo tecnologicamente più complesso produsse un esercito imponente di manodopera dequalificata, emarginata socialmente e politicamente, ma generò anche una manodopera che progressivamente diventerà sempre più una élite operaia coinvolta in maniera organica in un progetto politico riformistico per superare la fase di crisi.
Lungo tutto il xx secolo il sistema capitalistico ha continuato a produrre, da un lato, lavoratori specializzati e sindacalizzati integrati perfettamente nel processo di riforma/ristrutturazione del capitale e, dall’altro, un blocco sempre più consistente composto da lavoratori dequalificati, disoccupati, immigrati non organizzati in sindacati o partiti, non rappresentati dunque nei parlamenti delle democrazie occidentali, privi di cittadinanza. Sostanzialmente dei veri e propri spettri della nascente globalizzazione.
Ne L’altro movimento operaio,[2] Karl Heinz Roth per la prima volta prova ad affrontare, da un punto di vista di classe e non riformista e lungo un arco temporale che va dal 1880 alla prima metà degli anni ‘70 del Novecento, la storia dell’operaio massa dequalificato e non organizzato in Germania la cui composizione riguardava perlopiù immigrati italiani, turchi e provenienti dall’Europa orientale. Il quadro che risulta è quello di un ciclo di ripetute ribellioni (e di brutali repressioni) senza però nessuna reale conquista da parte di questi lavoratori.
In Italia la traiettoria dell’operaio massa (e in seguito anche quella dell’operaio sociale) assume una sua originalità e l’esperienza dell’operaismo italiano degli anni Sessanta e Settanta segna un cambio di paradigma culturale, di approccio metodologico e di visione sistemica. Ma la risposta del capitale alle discontinuità, ai salti e alle rotture operaie rispetto allo schema economico riformistico non si farà attendere. I processi di ristrutturazione capitalistica avviati negli anni Settanta saranno caratterizzati da un progressivo piano di delocalizzazione produttiva (prima su scala territoriale e poi internazionale) proprio là dove i costi di produzione, ivi compreso il costo della manodopera, risultavano sensibilmente più bassi. Negli anni si è costituita una vera e propria branca di studi sull’ottimizzazione dei processi di delocalizzazione e sulla strutturazione del vantaggio competitivo, un processo che ha evidenziato un dato cruciale, ossia la mobilità del capitale rispetto a quella del lavoro. L’uno libero di circolare senza confini e barriere, l’altro costretto e confinato in aree geografiche ben determinate da confini, trattati, leggi e contumelie ideologiche. Questa differenza ha generato squilibri economici sui quali sono state tarate le scelte produttive e la relativa delocalizzazione di interi comparti industriali.
L’intento non dichiarato è stato chiaramente anche quello di disarticolare il potere operaio dove era più forte, nelle fabbriche occidentali appunto. Anche qui l’uso capitalistico della scienza e della tecnologia produrrà ulteriori segmentazioni (e conseguente alienazione) in seno alla classe operaia.
Procedendo per grossi salti temporali, arrivando all’età contemporanea, l’introduzione di sistemi di controllo digitale nella produzione, la robotizzazione e l’intelligenza artificiale uniti al sopravvento del capitale finanziario su quello industriale, hanno comportato quella che Mario Tronti chiama virtualizzazione della produzione, cioè la sottrazione e la soppressione, dentro quest’ultima, di una quota crescente di fattore umano, compimento dell’alienazione, che dall’operaio di fabbrica è passata al lavoratore dipendente e al lavoratore autonomo di prima e seconda generazione, e di qui al cittadino elettore, e dunque al popolo sovrano, che si è ritrovato a essere, appunto, «la gente».[3]
Appare dunque una costante del capitale quella di produrre stratificazioni sociali e disarticolazioni nelle due grandi classi: A mio parere la teoria “dicotomica” delle classi nel sistema capitalistico non si contrappone neppure alla teoria della stratificazione sociale, ma la comprende al proprio interno come suo momento subalterno, importante e oggi ancora insopprimibile. La stratificazione sociale è ancora indispensabile alla classe capitalistica proprio per l’acutezza eccezionale che ha raggiunto la lotta fra le due classi strategiche. E chi governa la società si preoccupa molto di riprodurla e di rinnovarla e di far funzionare la stratificazione sociale come difesa contro la forza d’attacco della classe operaia e contro la sua forte pressione ricompositiva e sempre unificante. Esiste la stratificazione sociale proprio perché esiste la lotta fra le due grandi classi storiche del sistema capitalistico.[4]
Un livello di stratificazione che riguarda anche chi occupa la parte intermedia della piramide, il cosiddetto ceto medio: la composizione lavorativa o professionale di questo ceto di mezzo e dei suoi strati componenti è andata modificandosi continuamente nella storia del passaggio dalla società borghese alla società capitalistica, e cambierà ancora.[5]
Il ruolo storico di “mediazione” che svolge il ceto medio è un ruolo di stabilizzazione e subalternità non statica al capitale. La posizione “mediana” funge da sbarramento tra gli interessi del capitale e la potenza della classe operaia in lotta: A me l’aggettivo “medio” piace perché è associato al verbo “mediare”, che come tutti sanno è il verbo fondamentale del “parlare politico”. Infatti gli strati intermedi della gerarchia sociale non si limitano a starsene tranquilli nella posizione mediana, ma “mediano”; e quasi sempre anche “stabilizzano”, e fanno da diga protettiva al blocco capitalistico contro la solida forza d’attacco della classe operaia. Ed è stato storicamente questo, e in tutto il mondo, il modo in cui il ceto medio ha funzionato, in grande prevalenza, e ne spiega quasi sempre resistenza, e il fatto che sia stato spesso imbottito di lavoro improduttivo. Ma la storia cambia. La mia tesi è che nei momenti di forte tensione sociale il “ceto medio” può anche sentire l’attrazione dell’ascesa politica della classe operaia nella fase ascendente del suo ciclo di lotte, e allora si polarizza all’interno. […] Il “ceto medio” si è polarizzato e una parte consistente si è spostata verso il blocco politico della classe operaia, e vi è rimasta. E la conseguenza molto importante è che la stabilizzazione si è ridotta moltissimo, la diga si è ridotta e tiene pochissimo e anche la mediazione è in forte difficoltà. Tuttora. E proprio per questo parliamo di “ceto medio in crisi di mediazione”. […] Ma la polarizzazione sembra funzionare con forza maggiore proprio fra i nuovi strati intermedi portandone una quota ancora maggiore verso il blocco della classe operaia: come suoi alleati, ma anche come sue parti integranti e “forze motrici” della sua ricomposizione.[6]
C’è a questo punto da precisare un passaggio fondamentale: la polarizzazione verso il basso e la debolezza della funzione di mediazione – dentro la crisi del ceto medio a cui fa riferimento Romano Alquati – è una crisi prodotta dalla fase espansiva delle lotte autonome della classe operaia. Oggi appare evidente che la crisi di ceto medio che stiamo osservando – proprio perché in assenza di lotta di classe – è una crisi prodotta dal nuovo ciclo di ristrutturazione capitalistica e non più dall’indebolimento del ruolo di tenuta e di stabilizzazione delle lotte. Più che un’attrazione verso il blocco della classe operaia intesa come alleanza con funzione ricompositiva, oggi si intravedono, seppur mantenendo sempre un’ambivalenza di fondo sulla quale ragionare, una de-cetomedizzazione, intesa come processo di progressiva frantumazione del patto sociale che in precedenza aveva prodotto integrazione e stabilità politica. Una frantumazione che avviene dall’alto attraverso una serie di dispositivi come la svalutazione dei titoli di studio, la finanziarizzazione della proprietà e del risparmio e l’erosione del welfare che apre quindi a una serie di incertezze rispetto alla collocazione socio-politica di ciascuno. Dispositivi garantiti dal ruolo dello Stato che, in passato, hanno funzionato come ascensore sociale oggi garantita solo per la classe agiata che si colloca sopra la linea mediana del ceto medio. Da qui, la rottura del patto di fiducia con le istituzioni e la comparsa – destabilizzante per il ceto medio ora declassato – di un filtro selettivo più o meno invisibile che delimita quello che il sociologo francese Pierre Bourdieu definisce il «campo del possibile», ossia quel campo “caro” al proletariato e sottoproletariato che delimita quotidianamente quello che una persona si può o non si può attendere dalla propria vita. Dunque, una percezione dei segmenti privilegiati come sempre più distanti, lontani e probabilmente nemici, un blocco sociale “aspirazionale” che, continuando a desiderare modi di vita e forme di esistenza che non può più assimilare, matura un proprio modo di essere e un proprio tratto caratterizzante. Lo scontro tra “classe aspirata” e “classe percepita” (e vissuta), potrebbe generare una nevrosi di classe[7] ma vissuta al contrario: non più dal basso verso l’alto, in quanto difficoltà della scalata sociale per le classi subalterne (operai e contadini in primis), ma come una sorta di crisi di identità sociale che colpisce quanti hanno fatto o stanno facendo l’esperienza di scendere nell’inferno del proletariato.
Un processo che ha una sua forma di ambivalenza. Le forme di questa ambivalenza possono assumere o la dimensione alquatiana di forza motrice ricompositiva oppure la conflittualità per il riconoscimento sociale, per il possesso – magari anche in forma predatoria – dei simboli e dei beni del successo e del lusso perduti e nuovamente aspirati.
Qui ci poniamo alcune domande. Questi mutamenti potrebbero invece essere interpretati come la necessità del capitalismo di riprodurre e riposizionare – magari prima riqualificandolo – il ceto medio stabilizzatore? E questo ha una qualche forma di utilità per il capitale, in assenza di lotte? La polarizzazione in atto pare indicarci una via intermedia e cioè il declassamento (permanente?) di una fetta consistente del ceto medio e l’innalzamento elitario della linea mediana della piramide per la restante parte. Come se al capitale non necessitassero più tutti i soggetti che hanno composto, fino a pochi anni fa, il blocco mediano. D’altronde, la “classe percepita” oggi dal ceto medio nostrano guarda costantemente verso il basso: Il quadro di infragilimento della nostra società è marcato non solo dalle crescenti difficoltà economiche, ma anche da un consistente processo di polarizzazione sociale. Ne sono un esempio diversi indicatori: il 37 per cento degli italiani non è in grado di fare fronte a una spesa imprevista (una quota che nei ceti popolari sale al 63 per cento); il 16 per cento ha difficoltà a pagare le bollette (una quota che al sud sale al 20 per cento e nei ceti popolari vola al 40 per cento); l’8 per cento ha difficoltà a fare acquisti alimentari (un dato che nei ceti popolari lievita al 20 per cento).[8]
Abbiamo già osservato, seppur in maniera semplificata e per salti temporali grossolani, come il capitale decompone, stratifica e atomizza costantemente anche il proletariato fino a produrre un esercito imponente di manodopera dequalificata e una disoccupazione di massa. Oggi, dunque, la classica tradizionale ristrutturazione tecnica del lavoro assume i caratteri di distruzione sociale del lavoro. Così la tendenza storica del capitale al risparmio di lavoro, dove il general intellect ha dato nel passato il meglio di sé, punta ora, e ci riesce bene, non più a sostituire ma sopprimere lavoro. Non c’è solo passaggio di lavoro dall’uomo alla macchina, o al sistema delle macchine sempre più sofisticato, c’è contemporaneamente passaggio dal lavoro a non-lavoro. Di qui, i due caratteri socialmente vistosi della fase: uno, la disoccupazione di massa non è più un aspetto congiunturale del ciclo capitalistico, riassorbibili successivamente al suo interno, è un fatto strutturale, invece che di breve-medio periodo, di lunga durata; due, la formalizzazione/virtualizzazione dell’attività umana, coglie tutte le categorie viventi del sistema, mercato e consumo, ma anche lavoro e produzione. Dalle trasformazioni tecnologiche del processo lavorativo sono di nuovo partite tutte le tendenze alla smaterializzazione che hanno colpito prodotti e produttori.[9]
Appare inutile stilare l’elenco dei moderni lavoratori dequalificati: dai riders agli operatori di call centers, dagli operai della logistica al bracciantato in agricoltura, la dequalificazione è un dispositivo del capitale che investe tutta la forza lavoro mercificata necessaria alla valorizzazione del capitale.
In virtù di queste considerazioni, ci chiediamo se e in che misura sia possibile inserire nel quadro del declassamento del ceto medio tutto ciò che si è mosso negli ultimi anni a cominciare dai “forconi” passando per i “gilet jaunes” per giungere alle ultimissime proteste italiane promosse dal mondo della ristorazione, dello spettacolo e del lavoro autonomo.
Dunque, la dequalificazione del lavoro operaio può avere punti di contatto con i ceti medi declassati? Le lotte dei riders e della logistica hanno elementi di critica sistemica sovrapponibili a quelli degli operatori dello spettacolo o della ristorazione?
Venute meno le forme concentrate del rapporto sociale, cioè la concentrazione complessiva omogenea sia del capitale che della forza-lavoro, necessaria a garantire la potenza duale tra i due antagonismi, può avere una prospettiva focalizzare l’attenzione sul lavoro autonomo (di seconda e terza generazione)? Se formalmente (anche se non sempre sostanzialmente) nel cosiddetto lavoro autonomo padrone e lavoratore sono condensati in un’unica figura, non viene meno la forma dualistica dell’antagonismo?
Anche qui in fin dei conti si tratta di esplorare i mondi meno conosciuti per capire se dietro le ambivalenti parole d’ordine si nascondono le possibilità alquatiane di trasformare le soggettività autonome in soggettività politiche sempre con la capacità e la lucidità di vedere, in un dato momento della storia della “composizione di classe”, quale tra le sue “forze motrici”, ovvero tra le sue parti traenti nella lotta anticapitalistica, ha un ruolo d’avanguardia nei confronti dell’intero movimento e in che modo riesce a farlo e con quali risultati e quale ne è la portata politica: quale tra le forze motrici è egemone e guida l’intero movimento di lotte del proletariato, è qual è il rapporto di questa egemonia con la composizione di classe in quel dato momento storico.[10]
Ritorna dunque la centralità politica dell’organizzazione di classe. E qui bisogna oggi capire come posizionarsi rispetto alla sviluppo e all’accelerazione impressa dalla modernità. Per alcuni l’orizzonte strategico è quello “accelerazionista” dove una sinistra moderna prova a recuperare, con uno slancio prometeico, una centralità dentro un mondo nuovo, complesso e tecnologicamente avanzato. Andare avanti comunque perché la modernità produrrà inevitabilmente nuove forme di contraddizioni che produrranno “moltitudini” potenzialmente antagoniste.
Abbiamo però potuto verificare che questa nuove forme moltitudinarie del conflitto che si sono affacciate nella storia del terzo millennio, hanno prodotto antagonismi effimeri, lotte che si sono vaporizzate nel giro di poche settimane. Puntualmente manca il tempo per individuare le strade necessarie affinché le soggettività autonome possano mutare in soggettività politiche: bisogna trattenere e non lasciar scorre il fiume della storia. Bisogna rallentare l’accelerazione della modernità. Perché questo tempo più lento permette di ricomporre le nostre forze. Assumere come nostro il «frattempo»: solo lì puoi riscoprire le tue forze, ritrovare le soggettività alternative e comporle in forma organizzata, storicamente nuove.[11]
Una critica della modernità come critica di parte che ci svincoli da una prospettiva di modernizzazione subalterna che ha caratterizzato le esperienze socialiste del Novecento. La rivoluzione, dunque, non più come “locomotiva della storia”[12] che viaggia inesorabilmente nella direzione del progresso ma come un “freno di emergenza”[13] a cui fare ricorso per interrompere la corsa della storia.
La redazione di Malanova
Note
[1] V.I. Lenin, Stato e rivoluzione, Roma, Samonà e Savelli, 1972.
[2] K.H. Roth, L’altro movimento operaio, Roma, Feltrinelli, 1976.
[3] M. Tronti, Noi Operaisti, Roma, DeriveApprodi, 2009, p. 121.
[4] R. Alquati, Università di ceto medio e proletariato intellettuale, Torino, Stampatori, 1978, p. 75.
[5] Ivi, p. 76.
[6] Ivi, p. 77.
[7] V. de Gaulejac, La Névrose de classe. Trajectoire sociale et conflits d’identité, Paris, Hommes et Groupe, 1987.
[8] E. Risso, La pandemia sta decimando il ceto medio italiano, “Domani”, 18 aprile 2021, p. 6.
[9] M. Tronti, Noi Operaisti, Roma, DeriveApprodi, 2009, p. 117, 118.
[10] R. Alquati, Università di ceto medio e proletariato intellettuale cit., p. 81.
[11] M. Tronti, Noi Operaisti, Roma, DeriveApprodi, 2009, p. 111, 112.
[12] K. Marx, La lotta di classe in Francia, Roma, Editori Riuniti, 1992.
[13] M. Löwy (a cura di), La rivoluzione è il freno di emergenza. Saggi su Walter Benjamin, Verona, Ombre Corte, 2020, p. 125.