La pandemia ha indubbiamente impresso una forte accelerata nella direzione della trasformazione digitale dei consumi, cambiando progressivamente gli stili di vita dei consumatori.
In un recente articolo[1] abbiamo evidenziato come le economie delle piattaforme e i colossi americani dei big data siano riusciti a cumulare profitti record durante il primo anno di pandemia, consolidando un dato ormai chiaro da tempo: logistica, distribuzione e consumo sono fasi fondamentali per la valorizzazione del capitale.
Ripercorrendo l’espansione di Amazon e delle altre piattaforme digitali negli ultimi 14 mesi, diventa chiaro come la loro idea di post-Covid sarà costruita incrociando tre settori: logistica, e-commerce e tecnologie digitali; per reggere la concorrenza nessun negozio, grande o piccolo che sia, potrà prescindere da queste leve economiche. La stessa Confesercenti recentemente ha affermato che in Italia sono a rischio di chiusura 150 mila imprese del terziario, di cui 80 mila nel commercio. Adeguarsi a questi standard tecnologici appare come la sola ancora di salvezza. L’adeguamento non è soltanto legato alla capacità gestionale, vuol dire soprattutto ripensare le forme e le modalità dell’organizzazione del lavoro all’interno del comparto commerciale.
Perché, se è vero che i consumatori già da tempo hanno fatto proprio lo stile dell’e-commerce, appaiono invece decisamente meno indagati i processi di trasformazione dei lavoratori del commercio. Per voler esemplificare, se il mondo del commercio sta evolvendo verso il cosiddetto commercio 4.0, legato all’economia delle piattaforme,diventa inevitabile per il comando capitalista richiedere un nuovo commesso 4.0[2], una nuova forza lavoro che, indipendentemente dal livello contrattuale, risponda a specifici requisiti curriculari. Ma vediamo quali sono.
Per capire la tendenza in atto nel capitalismo delle piattaforme occorre analizzare i processi là dove sono più avanzati. L’esperienza di un mercato avanzato come quello inglese, nel campo della GDO, ci permette di capire, con molta più nitidezza che nel resto dei paesi europei, come il capitale ristrutturi il suo assetto produttivo all’interno della catena di valore in settori come il retail, il food e l’e-commerce.
Il caso più interessante è quello della Tesco, un catena di negozi di generi alimentari britannica attiva a livello internazionale. Si tratta del primo gruppo di distribuzione del Paese e di uno dei maggiori in Europa, con oltre 6.800 punti vendita nel mondo, 450 mila dipendenti e un utile netto al 2019 di 1,5 miliardi di euro. Le attività di Tesco si basano su tre poli: distribuzione interna, distribuzione internazionale e servizi finanziari, questi ultimi avviati in seguito alla joint-venture con Royal Bank of Scotland. L’azienda è attiva anche come operatore telefonico e nel campo dei carburanti, dopo l’accordo con la Esso del 1997.
Parlare quindi di “generi alimentari” in questo caso appare abbastanza riduttivo: la multinazionale britannica è, senza alcun dubbio, una delle prime realtà multinazionali in Europa ad aver fiutato l’affare dell’e-commerce. Basta pensare che, prima dell’emergenza Covid, aveva nel solo mercato interno 600 mila ordini online alla settimana, mentre oggi può contare su una media di 1,5 milioni di ordini settimanali (+ 150%).
Questa evoluzione in chiave 4.0 ha riguardato ovviamente il comparto lavorativo: la Tesco, per sostenere questi livelli di domanda, ha avviato una campagna di assunzioni che l’ha portata, dall’inizio della pandemia e in pochi mesi, a contrattualizzare circa 20 mila nuovi lavoratori. Quello che colpisce non è soltanto il numero di assunzioni effettuate in 5 mesi, ma le caratteristiche e i profili curriculari ricercati: data scientist, programmatori, sviluppatori di interfacce, esperti di reti e tecnologie cloud, esperti nella gestione dinamiche dei prezzi e nei pagamenti digitali, cyber security manager[3], esperti di automazione dei processi e robotica. A questi ovviamente si sono affiancate diverse figure “tradizionali” del settore commerciale, ma con mansioni nuove: 10 mila order picher, addetti al ricevimento e alla preparazione degli ordini online.
La tendenza in atto appare chiara: puntare in prima battuta sulla multicanalità per poter tenere dentro il vecchio e il nuovo mondo del commercio, ma riorganizzando la forza lavoro nell’ottica di una transizione al nuovo commercio 4.0. Non è un caso che in Italia, solo nel 2019, le imprese associate a Federdistribuzione hanno investito in formazione 35 milioni di euro con oltre 2,5 milioni di ore di formazione su intelligenza artificiale, big data, analisi e gestione dei processi logistici e digitali. Questo impegno profuso da un pezzo del comando capitalistico nostrano indica, da una parte, la necessità di puntare sulle nuove opportunità che da tempo offre il mondo digitale, ma evidenzia al contempo l’enorme ritardo del comparto italiano, reso più evidente dall’emergenza Covid.
In Italia, nel settore food e food retail, l’e-commerce nel 2019 rappresentava il 2% con la prospettiva di raggiungere il 6% nel 2024. Valore che invece è stato raggiunto e superato nel 2020. Di conseguenza un’analoga impennata è stata registrata nel settore dei pagamenti digitali, sempre nel 2020, con un salto di 11 punti percentuali, passando dal 57% al 68% in otto mesi. Per registrare un salto equivalente bisogna considerare l’intervallo temporale degli otto anni precedenti.
Una tendenza importante seppur embrionale che si evince anche dallo scenario prospettato da Unioncamere[4] per il periodo 2020-2024 e che già tiene conto degli effetti della pandemia: nel commercio il fabbisogno di lavoratori di tipo tradizionale sarà in contrazione e negativo: – 63.500 addetti a fronte di 63.900 addetti in più nel comparto dei servizi informativi e 5.600 addetti in più nel comparto logistica. Nel triennio 2022-2024 − afferma Unioncamere − si prevede che solo nella filiera dell’informatica e telecomunicazioni la replacement demand rappresenterà meno del 50% del fabbisogno del triennio, essendo prevista una ulteriore accelerazione della trasformazione digitale proprio per le conseguenze economiche della crisi sanitaria. Un rilevante ostacolo alla crescita di questa filiera sarà però rappresentata dall’elevata difficoltà di reperimento di molte delle figure richieste.
Nuove figure lavorative del settore commercio che progressivamente potrebbero soppiantare quelle più tradizionali; figure capaci di tenere insieme le mansioni contrattuali tradizionali con le nuove esigenze del comando capitalistico. Figure come il data analyst, specialista in grado di gestire, interpretare e elaborare enormi flussi di informazione, hanno il compito di tradurre i risultati delle proprie elaborazioni in strategie capaci di prevedere la domanda e aumentare le vendite. Chiaramente, più schizzano in alto i valori delle transazioni sulle piattaforme dell’e-commerce, più le aziende aumentano la propria capacità di profilazione per gruppi di comportamento, più ovviamente i fatturati aumentano. Un meccanismo competitivo che nell’ultimo decennio ha fatto le fortune di Amazon.
Si tratta di figure lavorative che oggi scarseggiano in Italia e che risultano “eccessivamente costose” per gli standard del capitalismo nostrano che prova a correre ai ripari con la normalizzazione di queste nuove figure lavorative attraverso – abbiamo visto – l’accorpamento delle competenze curriculari: oggi il nuovo commesso da assumere non dovrà soltanto essere capace di sistemare la roba negli scaffali o gestire le scorte del magazzino, ma avere una versatilità tale da poterla sfruttare anche in altri settori più avanzati.
Se il comparto logistico e della GDO da tempo hanno iniziato a riorganizzare il proprio assetto economico-produttivo, resta invece completamente in balia della crisi il settore al dettaglio. Un anno di restrizioni dovute alla pandemia ha comportato la chiusura di moltissimi negozi e piccole attività commerciali al dettaglio. Con esse sono stati spazzati via migliaia di posti di lavoro, anche se spesso dequalificati e sottopagati. La risposta di Confcommercio non si è fatta attendere e resta interamente nel solco della logica della multicanalità e del commercio 4.0 con l’introduzione di “nuove forme di resilienza creativa” come quella del co-retail che vede gruppi di commercianti magari di una stessa via, affidarsi a professionisti dell’e-commerce in grado di offrire le nuove competenze necessarie per “essere competitivi nel nuovo commercio”. Alle nuove figure professionali rimodulate su una scala ridotta, e-commerce specialist di vicinato e big data analyst di quartiere, vanno aggiunti i nuovi commessi 4.0 capaci, ad esempio, di interagire con le piattaforme dell’e-commerce e con il modello ibrido del click&collect, del “prenota online e ritira in negozio”.
Insieme ai consumatori dunque, la cosiddetta “rivoluzione digitale” sta mutando profondamente anche l’organizzazione del lavoro nel commercio. Un recente studio condotto dal Capgemini research institute su diverse aziende con oltre un miliardo di euro di fatturato (tra cui anche 80 italiane), incluse società del settore retail, ha dimostrato che l’uso sistematico dei big data per guidare le decisioni aziendali produce un incremento della produttività dei lavoratori fino al 70%[5].
Una mutazione dunque doppia perché, da un lato, cambiano le figure lavorative del settore in termini di caratteristiche curriculari sempre più orientate verso le competenze digitali e, dall’altro, le stesse specifiche competenze richieste − necessarie per generare i profitti sul nuovo mercato dell’economia delle piattaforme − sono poi applicate per il controllo produttivo sui lavoratori stessi. Per sintetizzare, la pratica analitica dei big data genera un atteggiamento produttivista nei lavoratori e una sorta di affiliate marketing nel consumatore.
Queste brevi riflessioni sulle mutazioni e le spinte innovatrici che stanno attraversando il mondo del commercio diventano, a nostro avviso, necessarie per ragionare sulle tendenze in atto nel capitalismo contemporaneo per meglio orientare il lavoro militante sul campo. Non riuscire ad anticipare lo sviluppo di queste tendenze significa pòrci sempre un passo indietro rispetto all’avanzata ristrutturatrice del capitale che ha come tragico epilogo il proporre fronti di lotta e parole d’ordine già superate o già sussunte, con l’aggravante di assumere, nel farlo, una postura e un atteggiamento codista.
Redazione di Malanova
NOTE
[1] «Malanova», Pandemia: profitti record per i big tech, 9 novembre 2020; articolo consultabile al seguente URL: https://www.malanova.info/2020/11/09/pandemia-profitti-record-per-i-big-tech/
[2] A. Larizza, Per il nuovo commesso 4.0 cloud, big data e blockchain, «Il Sole 24 Ore», 10 febbraio 2021.
[3] Ricordiamo che la Tesco nel 2016 fu oggetto di un imponente attacco hacker che coinvolse oltre 20 mila correntisti della Tesco Bank con oltre 40 mila transazioni sospette che costrinsero la multinazionale britannica a sospendere tutto il suo sistema online.
[4] Cfr. Unioncamere, Sistema informativo Excelsior, 25 agosto 2020.
[5] Capgemini research institute, The future of work: from remote to hybrid, dicembre 2020.