Gli stati generali di Villa Pamphili si chiudono con moltissimi dubbi e poche certezze sulla tenuta dell’economia italiana e soprattutto sull’efficacia degli strumenti economici e sociali programmati dal governo per reggere l’impatto della crisi economica post pandemica.
Se la ricetta di abbassare l’aliquota iva per agevolare la ripresa, puntando sostanzialmente su un incremento dei consumi, potrebbe dare una parziale boccata d’ossigeno, resta però del tutto fumoso il contenuto della bozza del cosiddetto Piano rilancio. Al di là delle tante proposte uscite dal consesso di Villa Pamphili e in attesa di sapere quello che realmente diventerà operativo in termini di risposte alla crisi economica e sociale, ci concentriamo su un dato che appare parzialmente consolidato, quello della cassa integrazione guadagni (cig).
Il presidente dell’Inps Pasquale Tridico aveva promesso che tutti i pagamenti relativi alla cig sarebbero stati chiusi entro il 15 giugno, tant’è che il 17 giugno il ministro del lavoro Cantalfo ha comunicato cifre “rassicuranti” dichiarando che il 96% dei versamenti sono stati effettuati e che restano da pagare “soltanto” 124mila persone.
Qui inizia la battaglia dei numeri tra il Ministro del Lavoro, l’Inps e i sindacati e si scopre così che in realtà i dati non sono proprio rassicuranti.
Un documento dell’Inps − che a quanto pare doveva restare interno ma che è stato reso pubblico dall’opposizione – evidenzia come tra cassa ordinaria, cassa in deroga e fondo d’integrazione salariale, i lavoratori rimasti ancora da pagare sono circa un milione e 200mila, dieci volte quanto dichiarato dal governo.
Come al solito il trucco sta nell’interpretazione dei dati: il governo fa riferimento alle sole domande pervenute nel mese di maggio mentre il documento dell’Inps fa la differenza tra i lavoratori la cui azienda aveva prenotato la cassa e quelli che l’hanno effettivamente percepita. L’Inps ha vagliato sostanzialmente i modelli con codice SR41 presentati finora dalle aziende; tuttavia, ci sono ancora moltissime imprese che, pur avendo prenotato la cig, non hanno ancora provveduto a inviare la richiesta. Il rischio che si sta palesando è quello di non avere fondi a sufficienza per far fronte alla totalità delle domande. A quanto pare in Campania e Lazio, tanto per fare un esempio, i soldi sono già finiti.
Una parte dei dati sono stati volutamente oscurati. Sindacati e fronte padronale sollevano dubbi sulla capacità di tenuta del fondo del FIS che eroga l’assegno ordinario; un fondo che prima dell’emergenza Covid ammontava a circa 1,6 miliardi di euro.
Inutile sottolineare il fatto che la maggior parte dei lavoratori in attesa di percepire l’integrazione si trova al Sud. Agli ultimi posti della classifica troviamo tre regioni meridionali: la Puglia, con il 21% delle domande ancore inevase, il Molise con il 20% e in fondo alla classifica la Campania con il 19%.
Il dato sicuramente più allarmante resta l’80% delle aziende che hanno «già esaurito le 14 settimane di cassa integrazione e necessitano di anticipare le ultime 4 settimane», come ha dichiarato a «Il Messaggero» Pasquale Staropoli, responsabile della Scuola di alta formazione della Fondazione studi dei consulenti del lavoro.
Al di là dei soliti meccanismi distorsivi nella comunicazione dei dati economici, appare chiaro come il numero dei lavoratori che avranno bisogno a breve di integrazioni salariali o che sono in attesa degli aiuti previsti dai decreti emergenziali è di gran lunga più elevato rispetto a quello diffuso dall’Inps.
Seppur in prima battuta resta da privilegiare l’utilizzo della cassa che, a differenza del bonus agli autonomi, è l’ammortizzatore sociale che meglio di tutti tutela pensioni e assegni familiari, va però ricordato che questo strumento sociale è finanziato, normalmente, con i contributi che i lavoratori forniscono tramite la trattenuta in busta paga.
Ma il vero problema resta un altro: la cassa integrazione messa in piedi in questo periodo emergenziale è legata al blocco dei licenziamenti (fino al 17 agosto) imposto dal governo per impedire una vera e propria Waterloo. Il messaggio che Conte e le forze politiche di governo (e di opposizione) hanno mandato agli industriali è stato fin troppo chiaro: voi non licenziate e nel frattempo i lavoratori li paghiamo noi. In più ad alcuni di voi (Fca e Benetton, ad esempio) saranno garantiti cospicui finanziamenti pubblici, magari a fondo perduto.
Ma i tempi ipotizzati per la fine del lockdown sono andati ben oltre ogni ottimistica previsione: gli effetti sull’economia nazionale sono sotto gli occhi di tutti. Si potrebbe, nell’immediato, attingere ai 20 miliardi del SURE (Support to mitigate Unemployment Risks in Emergency), lo strumento adottato dal Consiglio europeo e destinato a sostenere l’incremento della spesa pubblica dei governi dei Paesi membri «al fine di aiutarli a proteggere i posti di lavoro e tutelare i dipendenti e i lavoratori autonomi dal rischio di disoccupazione e perdita di reddito a seguito della pandemia di Covid-19», ma resta il fatto che per la cassa integrazione servono 6 miliardi al mese e quindi risulta un rimedio momentaneo, ma non utile a tamponare una crisi economica che si prospetta peggiore di quella del 2007.
Maurizio Del Conte, professore di diritto del lavoro alla Università Bocconi, in una recente intervista sul «Corriere della Sera» ha paventato il pericolo di firing day, una sorta di giorno del licenziamento simultaneo in cui le aziende potrebbero decidere di abbattere i costi della produzione tagliando sul numero dei lavoratori dipendenti. Se così fosse, sarebbe una ecatombe.
Neanche i recenti dati Istat sulla povertà vengono in aiuto di Governo e Inps. Gli indici 2019 presentati dall’Istituto nazionale di statistica ci dicono che in Italia la povertà non è stata abolita come dichiarò Di Maio dal balcone di Palazzo Chigi. Tutt’altro! Il 6,4% della popolazione (quasi 4,6 milioni di individui) versa in condizioni di povertà assoluta con il 45,1% di questi residenti nel Mezzogiorno (oltre due milioni di persone). Il Reddito di Cittadinanza ha influito positivamente su questo dato, abbassando di un mezzo punto percentuale il valore della povertà assoluta rispetto al valore del 2018 (7%), ma è comunque uno strumento spuntato in relazione a quelle che risultano essere le reali necessità reddituali della popolazione. Inoltre, i valori della povertà assoluta per il 2020 saranno decisamente più drammatici se non si predisporranno adeguati strumenti di tutela salariale e sociale atti a contrastare efficacemente gli effetti post-pandemici.
Questi dati, a ogni modo, ci suggeriscono alcune considerazioni.
Da una parte, osserviamo gli enormi interessi delle imprese, della finanza e delle élite politiche liberiste che, abbiamo visto, sono già in campo per drenare ulteriore ricchezza collettiva dalla società, scommettendo sulla possibilità di un’accettazione disciplinata e supina di una nuova fase di impoverimento di massa. Dall’altra, i soggetti sociali − soprattutto quelli più colpiti dalla crisi − iniziano a mobilitarsi seppur timidamente e con alcuni elementi contraddittori.
Con molta probabilità a settembre − finito l’effetto degli ammortizzatori sociali – operai, lavoratori autonomi e precari si affacceranno sulla scena del conflitto affiancandosi a chi già in questi giorni sta iniziando a mobilitarsi. L’effetto combinato potrà avere un portato quantitativo e soprattutto qualitativo di una certa rilevanza.
Per certi versi ci troviamo difronte a una situazione inedita in cui è evidente l’insostenibilità del modello capitalistico e al contempo è urgente la costruzione di un altro modello di società basato sul diritto alla vita, alla salute, al reddito, sulla giustizia climatica e sociale, sull’uscita dal patriarcato, sulla democrazia reale.
Sarà dunque un autunno in cui la crisi economica e sociale deflagrerà: sarà fondamentale costruire momenti di convergenza che oggi, molto più che in passato, appaiono necessari per incidere efficacemente dentro il conflitto sociale e politico. Ma per fare questo occorre fin da subito fare un salto di qualità che ci permetta di superare il divario oggi esistente tra le pratiche prodotte quotidianamente e la loro reale efficacia in termini di partecipazione, mobilitazione sociale e conflitto. Solo così potremo collettivamente affrontare la crisi e provare a determinare ciò che accadrà.
La redazione di Malanova