di Alessandro Gaudio*
La guerra dell’acqua è una pièce in due atti firmata da David Manzoni, scrittore e militante genovese, già noto per I provinciali, racconto uscito nel 2017 per le edizioni Ensemble di Roma. Questo nuovo lavoro, che segna l’esordio dell’autore in ambito teatrale e che conferma come la sua dedizione per la letteratura vada di pari passo con quella per il sociale, è stato pubblicato alla fine dello scorso anno da Divergenze in una collana, che si preannuncia freschissima, intitolata Controscena.
È un’opera breve dedicata al modo in cui, anche nel mondo di oggi, la poesia possa nascere imprevedibilmente da qualsiasi cosa, persino nel contesto fortemente burocratizzato che ha fatto di un bene comune come l’acqua un’occasione di arricchimento per pochi.
Manzoni, anticipando quello che potrebbe essere uno scenario possibile da qui a qualche tempo, parte proprio da una certa burocratizzazione del conflitto che ha messo nel sacco ogni rivendicazione sociale, qualunque favola nascesse dai movimenti di dissenso. A sgonfiare il pericolo rappresentato da chi si oppone al potere del capitale ha contribuito anche la società dell’informazione e deve essere proprio vero se ad ammetterlo è uno dei burocrati che ha tratto maggior beneficio dall’omeostasi che ne è venuta: si tratta di Piccoli, un funzionario del Ministero dell’Ambiente, «un trafficone che tutti chiamano onorevole» (p. 3), vero protagonista della Guerra dell’acqua. È colui che più di chiunque altro ha contribuito a costruire sulle rivendicazioni avanzate dalla gente quello che egli stesso definisce «un romanzo» (p. 33), ossia un progetto inattuabile, un sogno vano, prodotto dall’abbandono sentimentale, dall’immaginazione, da speranze e desideri del tutto sconnessi dalla realtà dei fatti. Su questa «storiella probabile che però non è la verità» (ibidem) si erigono le credenze popolari e, in fin dei conti, la supina accettazione di una rappresentazione deformata e ideologica.
Colpisce l’ostracismo con cui si considera l’immaginazione, con ogni evidenza termine antitetico alla burocrazia. La legittima protesta, che si nutre di creatività, di fantasia e di una pronunciata pulsione utopistica, rischia in ogni momento di essere ridotta a romanzetto, di rientrare in uno schema che ne azzeri la carica conflittuale: «veda di non mettere in moto la fantasia» (p. 38) è l’avvertimento rivolto dal solito Piccoli a Yambo, uno dei giornalisti che si sta occupando della questione. Vista l’infelicità del quadro generale, non si rivelerà anche questa un’occasione sprecata? Cosa ci si può aspettare da un popolo che si rivolta solo «quando è troppo tardi» (p. 44)? Un popolo che crede che in prima linea debba andarci sempre qualcun altro e che «fa a botte solo per le partite o per i saldi» (ibidem).
Sorprendentemente, a dispetto del cupo canovaccio costruito intorno alla figura di Piccoli, non tutto sembra perduto. Magari qualcuno è ancora incline a opporsi, a scendere in campo: d’altronde, resistere è l’unica speranza, paventata nel finale dell’opera quasi come in un sogno, per evitare che l’apocalisse morbida alla quale siamo condannati si compia definitivamente. E allora ecco che il romanzo, scacciato dalla porta per mano del burocrate e dei suoi accoliti, rientra in scena dalla finestra a opera di chi, con creatività e fantasia, riesce a immaginare un destino diverso per il genere umano e, dunque, ad agire. Un nuovo destino che passa dalla vecchia disposizione alla resistenza ma che, forse, ancora piace a qualcuno se «l’ufficio [di Piccoli] si riempie di gente ed esplode un fragore d’urla e di mobili ribaltati, vetri e suppellettili fatte a pezzi» (p. 45). In questa quota di futuro lasciata nelle mani di chi legge si paventa poeticamente quella possibilità che, se rinunciasse alle effusioni attivistiche, alla rabbia atomizzata e alla connivenza che Manzoni considera giustamente con sprezzante ironia, potrebbe riguardare la vita concreta di tutti e influire su di essa.
*Redazione Malanova