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SCOSTUMATEZZE. APPUNTI SU AUTONOMIA E MEZZOGIORNO

Riportiamo, all’attenzione dei nostri lettori, un interessante intervento di Antonio Bove e Francesco Festa pubblicato in questi giorni su Pragma: per un dibattito sull’autonomia. I due autori stanno curando per DeriveAppprodi il volume VII della serie «Gli autonomi», dedicato alla realtà del Mezzogiorno e che sarà pubblicato tra qualche mese.


Gli autonomi sono stati gli scostumati del Movimento Operaio. Refrattari alle etichette, si sono presentati all’appuntamento con la rivoluzione accomunati, nella diversità che ciascuna esperienza territoriale ha rappresentato, da una attitudine che sta sul fondo. Tirare sassi nelle vetrate, sedersi a tavola scomposti coi gomiti sul tovagliolo, sorbire il brodo col risucchio. Hanno capito a istinto che le regole dello “stare composti alla tavola della rivoluzione” servivano solo a mantenere l’ordine costituito. È per quello che hanno cominciato a macchiare le tovaglie di lino, fare palline di pane e lanciarle negli occhi dei commensali. Scostumatezze.

Qualche mese fa Sergio Bianchi ci affidò il compito immane di lavorare a un volume sull’autonomia meridionale, una follia decisa con la leggerezza con cui si scelgono i calzini da indossare al mattino. Decidemmo di accettare nello spazio di pochi minuti, trovandoci immersi nella ricostruzione di un complesso mosaico di storie rispetto al quale il volume dedicato alla storia dei Collettivi Politici Veneti per il Potere Operaio, nonostante la distanza geografica dal nostro oggetto d’indagine, offre numerosi spunti. In particolare, dopo una lunga serie di appassionate recensioni del volume, ci sembra interessante provare ad allargare la riflessione, usando questo volume come un detonatore, che è un modo di riconoscere la sua incisività. Siamo gente semplice, e visto che l’oggetto di Pragma è un “dibattito sull’autonomia”, partiamo dalle domande banali. C’è ancora spazio per l’autonomia?

Va riconosciuta senz’altro, a quest’area politico culturale, la longevità, mentre sono avvizzite le posizioni m-l, scalzate dall’accelerazione degli eventi che ha travolto i catafalchi dove riposavano le loro mummie teoriche. L’autonomia come attitudine alla rivolta e insofferenza al dominio, invece, è durata perché, appunto, la sua esistenza prescinde dalle sigle e dalle forme intorno alle quali negli anni si è coagulata. Anziché essere un’identità, l’autonomia è un comportamento che esiste a prescindere dagli autonomi.

Questo carattere rende ragione del suo essere un fenomeno multiforme, scivoloso anche nelle sue esperienze più strutturate e organizzate e questa sua natura rende possibile una sua narrazione soltanto se legata ai territori e alle loro specificità.

Questo insieme di esperienze differenti, tuttavia, ha avuto un elemento comune nella trama di fondo che è lo scontro tra il Capitale e lavoro, nelle sue forme specifiche in ciascun territorio. Discutendo, allora, di autonomia dalla nostra prospettiva, proviamo a introdurre nella discussione il tema dell’autonomia meridionale, nel contesto generale italiano.

Ricostruire la storia dell’autonomia operaia è un’impresa che si contraddice da sola. A conti fatti non esiste “una Storia” ma un insieme di vicende che si intrecciano intorno a eventi, lotte, grandi appuntamenti e piccole storie personali e collettive. Riguardo al Mezzogiorno la situazione si fa più ancor più complessa per il sopraggiungere di fattori delineanti una storia “a parte” che non è di “arretratezza”, come molta cattiva letteratura vuole far intendere, ma di subalternità interna a un piano generale di sviluppo.

Nella narrazione di certa cattiva storiografia quando si parla di Mezzogiorno si fa riferimento a un indistinto agglomerato di popolazioni e province dentro un continuum di vicende storico-politiche definite da un rapporto verticale con il potere costituito: dall’alto verso il basso, dalla borghesia ai subalterni.

La storia, così, si fa quasi descrizione di una Legge Naturale, determinismo delle classi proprietarie e dell’intellettualità borghese che sono intervenute, dalla seconda metà dell’Ottocento fino al lungo Secondo dopoguerra, con l’adozione di politiche emergenziali e con misure paternalistiche. Tutto ciò all’ombra della “questione meridionale”: una sorta di immagine retorica, depotenziante, appiccicataci addosso.

Scavando negli archivi di movimento si trova una stratificazione di vissuti e memorie sparse da cui si evince l’esistenza di un’esperienza collettiva con una propria consistenza materialisticamente radicata nelle lotte di classe. L’autonomia meridionale è esistita in quell’ampio reticolo di lotte operaie e sociali che bisogna ricomporre per squarciare il silenzio, togliendo quella patina che la borghesia meridionale ha depositato con la storiografia “ufficiale”, sulla quale ha riprodotto clientele, baronaggio e assistenzialismo, cambiando gattopardescamente pelle al feudalesimo per mantenere il potere. Questi dispositivi nel Sud hanno funzionato, prima, come valvola di sfogo e, poi, come controllo dei rapporti di forza tanto nell’entroterra agricolo quanto nelle città costiere. Una pluralità di dimensioni territoriali, di storie e di culture sulle quali, per esercitarvi egemonia, gli intellettuali borghesi hanno costruito l’icona della macroregione indifferenziata: il Sud Italia. Del resto, il discorso borghese non fa che semplificare la complessità in modo da esercitare la propria violenza di classe.

Da dove partire, quindi, per ripercorrere i fili di una storia dell’autonomia? E cos’è l’autonomia operaia meridionale? Per provare a rispondere bisogna scavare dentro i frammenti, tracciare una cartografia tematica e ripensare l’idea stessa di Mezzogiorno per liberarsene definitivamente, prendere distanza dal pietismo meridionalistico e dal marxismo storicista: la linea del progresso in ascesa con il timone retto dalla borghesia illuminata, senza la quale il Sud sarebbe ostaggio di lazzari, plebaglia e lumpenproletariat. Linea che ha segnato, per oltre cinquant’anni, l’azione politica e culturale del PCI.

In realtà, guardando a Sud è un tema particolarmente interessante quello della relazione fra i militanti rivoluzionari e le rivolte non propriamente operaie e, soprattutto, con quei “gruppi sociali subalterni”, per dirla con Gramsci: un insieme spurio di proletariato e sottoproletariato. In tal senso la rivolta di Reggio Calabria del 1970 è stata paradigmatica dell’incapacità, per molte formazioni politiche a parte Lotta Continua, di leggervi un contesto determinato dagli interessi di classe di quel “sottoproletariato” che i Nuclei Armati Proletari hanno poi individuato come la classe rivoluzionaria del meridione italiano, un tema senza il quale comprendere quello che è accaduto e ancora accade dalle nostre parti è impossibile.

Partiamo, quindi, da quegli anni in cui si innesta sulla soggettività di classe la possibilità dell’autonomia operaia e in quel momento che si ravvisano, anche nel Mezzogiorno, un ciclo nuovo delle lotte di classe che non sono una ricaduta sulla città di quello che accade in fabbrica e, soprattutto, non sono l’effetto della lotta di classe prodottasi nel Nord del Paese. Nel periodo, poi, che va dal ’69 al ’74 si situano eventi significativi, fra cui a Napoli il colera nell’estate ’73 e le molteplici lotte spontanee in tutto il Sud: non solo Reggio Calabria ma la rivolta dei braccianti di Avola, quella di Battipaglia, Castellammare. In quegli anni si osserva l’emersione di un’inedita composizione sociale dentro cui maturano le condizioni per lo sviluppo di radicali e massive lotte in cui interi settori sociali, ritenuti fino allora di secondo piano nella vita politica, si affermavano frantumando il pesante scoglio delle paternità politiche e delle dirigenze nelle lotte.

Questi settori non appartenevano alla fabbrica, ma si erano resi attivi, a Napoli, sin da dopo l’epidemia colerica con le lotte contro l’aumento del costo del pane, configurando una “composizione di classe urbana”, altra interpretazione di quello che era l’operaio sociale, dentro cui risiedono i caratteri peculiari della lotta di classe napoletana di quegli anni.

E questi dati di composizione sono ben presenti alle avanguardie operaie e ai gruppi politici che operano in città dentro un terreno sociale nuovo per la tradizione marxista–leninista. Nascono così esperimenti politici di soggettivazione di settori del proletariato estranei alla centralità operaia di fabbrica come i Disoccupati Organizzati o l’esperienza dei Comitati di Quartiere, che costruiscono i momenti più alti della lotta dai primi anni ’70 in poi. Chi non lo capisce e resta ancorato alla “centralità della fabbrica”, si dissolve.

Dunque, gli autonomi meridionali non ebbero la fabbrica come elemento centrale del proprio intervento politico, né tantomeno il soggetto centrale della loro azione fu l’operaio della catena di montaggio, bensì lo spazio era la dimensione urbana e i soggetti di riferimento erano annoverabili in una specifica forma di operaio sociale quale prodotto della sussunzione reale della città al capitale. L’intervento politico degli autonomi, pertanto, in particolare di quelli napoletani, all’interno di questa composizione sociale fu quello di sviluppare un principio del primissimo operaismo di Raniero Panzieri: “aprire e tenere aperto il movimento”. Ossia il tentare di attivare tutte le leve politico-sociali e di controinformazione per mantenere quanto più possibile il punto d’attacco dei movimenti sociali: accumulare quanta più forza tramite le lotte sociali per allontanare il momento del riflusso; produrre socialità nuove e consolidare gli interessi dei movimenti di classe, provando a far pendere i rapporti di forza a favore delle classi subalterne. In questi passaggi abbiamo una traduzione meridiana dell’operaismo: prima i movimenti di classe e poi il capitale; prima gli interessi di classe in modo da rifuggire allo spazio della normalità, alla tempistica del lavoro e, dunque, al recupero del capitale.

Sembra paradossale che proprio la “rivoluzione copernicana” di Tronti possa essere uno strumento utilissimo a leggere quella stagione che ha visto in Napoli un laboratorio. Se, come sostenevano gli operaisti, il punto di vista operaio non è niente di meno che lo sguardo sul processo generale da parte di chi sta nel punto più alto dello sviluppo capitalistico, la classe operaia, bisogna lavorare per definirne le mutazioni, la corretta fisionomia nella dinamica dello sviluppo e nel suo attraversare i territori. Un attraversamento che è sempre ambivalente, dentro cui si trasformano e si adattano i soggetti sociali ma anche i processi produttivi. Ciascuno secondo le sue necessità di sopravvivenza. “Soltanto a livello di classe operaia si può parlare in senso specifico di processo rivoluzionario, di rivoluzione, di rottura rivoluzionaria” ma la classe “operaia”, nelle metropoli e nei territori stravolti dal capitalismo della crisi non è solo quella della linea di montaggio, anzi, a Napoli e in tutto il Mezzogiorno questo paradigma non regge. Quell’approccio che ha riletto il marxismo fianco a fianco all’operaio massa è vissuto dentro le lotte del proletariato urbano che si è soggettivato riconoscendosi “operaio”: soggetto da cui si estrae plusvalore nel ciclo produttivo esteso alla metropoli, e quindi proprio come l’operaio massa ha cominciato a lottare contro se stesso, contro la sua condizione di forza lavoro alienata, estranea alla produzione di merci e sfruttata dalla tempistica della valorizzazione capitalistica. Proprio come l’operaio massa che era, poi, l’emigrante sradicato dalle province meridionali, il contadino, il bracciante espulso dalle terre della Riforma agraria, strappate grazie alle sue lotte contro il latifondo e i “galantuomini”. Questa epopea tristemente terminata è iniziata un secolo prima con la “nascita della colonia”, per dirla con Nicola Zitara, e con la suddivisione di classe fra un Nord industrializzato e un Sud agricolo, sacrificato per l’accumulazione originaria del processo di sviluppo settentrionale.

L’operaismo è ontologicamente un punto di vista di parte, una cassetta degli attrezzi cui ha attinto – chi più chi meno – tutta l’area dell’autonomia operaia. E questo rende obiettivamente importante leggere le storie dell’autonomia dentro le loro specificità ma in contesto che ne renda evidenti i legami fra le differenti storie. Fra coloro che più hanno attinto a quella riserva di idee, comunque, ci sono certamente i CPV. Esemplare è il racconto dei Despali nel ripercorrerne l’uso e, prim’ancora, nel dettagliare la genealogia dell’operaismo alla prova della nuova composizione di classe oltre il fordismo: l’operaio sociale.

Questa lettura getta in qualche modo un ponte tra l’esperienza veneta e quella napoletana, pur nella diversità di approcci e modalità di organizzazione politica che, comunque, aprono lo spazio politico di una soggettività nuova, intuita, non compresa fino in fondo ma incrociata in due esperienze differenti. Due dei tanti volti dell’operaio sociale che non è uno spaccato di classe omogeneo ma la nuova soggettività multiforme che si manifesta dentro la ristrutturazione capitalistica. E che ha fisionomie diverse a Padova e a Napoli, prodotti dalla stessa crisi su territori differenti.

Tuttavia c’è un vulnus in questa geografia, un cortocircuito nel paradigma operaista. Esso è situato nelle province meridionali. Le specificità dell’operaismo vanno rimodulate attraverso i comportamenti e le soggettività dell’autonomia meridionale: in particolare, rispetto alla composizione di classe di quei territori e rispetto ai processi di produzione e alla valorizzazione complessivamente delle comunità.

Detto fuori dai denti: l’operaismo quale metodo d’intervento nell’autonomia di classe è nato nel Nord Italia, sotto i cancelli delle fabbriche del “triangolo industriale”, in particolare a Mirafiori con al centro l’operaio massa, giovane meridionale “deportato” per sostenere lo sviluppo capitalistico dei gloriosi trent’anni del fordismo; e, poi, è stato utilizzato nell’analisi della composizione di classe metropolitana degli anni ‘70, nell’analisi della composizione tecnica e della composizione politica dell’operaio sociale espulso dalla fabbrica e sussunto nei processi di valorizzazione della metropoli. “L’operaismo – come dice Lanfranco Caminiti – apparteneva a processi di formazione, era una cassetta degli attrezzi concettuali – non esiste una ‘tradizione teorica’ operaista al Sud, né una ‘traduzione’”.

Posta così la faccenda sarebbe chiusa e, di conseguenza, l’autonomia meridionale sarebbe un’anomalia, un’etichetta inventata e affibbiata a chi non si rifaceva né alle formazioni della sinistra extraparlamentare, né ai gruppi m-l, né tantomeno a satelliti del Pci. Al contrario, esistono delle specificità dell’autonomia meridionale che l’operaismo, quale attrezzo assai poco duttile nell’interpretare e nell’intervenire nella composizione di classe meridionale non sempre è riuscito a cogliere, se non nella sua trasformazione che è stata operata dai militanti immersi nei loro territori di lotta. In quel Mezzogiorno che si voleva narcotizzato sorsero collettivi autonomi che diedero vita a riviste, pamphlet e giornali con una diffusione locale e regionale al ritmo di un “nomadismo militante” che portava gli autonomi meridionali su e giù per paesi e province inseguendo le lotte operaie e sociali. Quella immutabile staticità, cui lo Stato continuava a inchiodare il Sud, veniva rotta dai campeggi autogestiti e dai festival contro-culturali, come quello di Licola (NA) del ‘75 o dalle lotte che nello svolgersi rievocavano lo spettro delle gesta dei briganti dell’Ottocento, a suon di sollevazioni e poi di cacciate di preti, politici e padroni come a Grisolia (CS) nel ’78.

Questi tratti li abbiamo rinvenuti, più recentemente, nelle lotte contro i rifiuti in Campania oppure nella rivolta lucana contro l’insediamento delle scorie nucleari a Scanzano Jonico in cui la forza della sollevazione si è retta su parole d’ordine precise: autonomia dai poteri costituiti quale termine di intervento politico e autorganizzazione come metodo.

Eppure una volta vinte quelle battaglie, la politica è rientrata nell’alveo della stessa democrazia borghese, come se l’opzione antagonista non fosse credibile di divenire organizzazione e nuovo potere costituente.

Dietro questa incapacità a divenire potere costituente vi è stata un’incapacità delle e dei compagne/i a pensarsi in piena autonomia. Detto altrimenti: con debite proporzioni e differenze, anche nella nostra parte ha funzionato una sorta di orientalismo interno, sia nel come è stato percepito il Sud, sia nel come le/i compagne/i si siano visti.

Ne è seguita, dunque, una narrazione di riflesso, priva di autonomia e specificità relativamente alle lotte sociali meridionali. Tentativi di emanciparsi dai modelli importati dal Nord Italia ed Europa sono stati posti in essere. Ad esempio, nei primi anni 2000, alcune organizzazioni dell’antagonismo sociale meridionale hanno dato vita alla Rete del Sud Ribelle, un coordinamento interrotto nel 2002 dai reparti speciali antiterrorismo per un’assurda accusa di cospirazione politica e associazione sovversiva finita dieci anni dopo nel nulla. Negli anni successivi, parte di queste organizzazioni hanno dato vita a un luogo di riflessione e di ricerca militante nella rete di Orizzonti meridiani: una rete di riflessione teorica sulla possibilità di costruzione di un pensiero meridionalistico in Italia con alcuni seminari e una pubblicazione[1]. L’incapacità di strutturazione su lungo periodo di queste iniziative meridionali altro non è che lo specchio di una difficoltà epistemologica a pensarsi e pensare autonomamente con uno sguardo rivolto al Sud, senza affidarsi a intellettuali, formule e pacchetti già preconfezionati in altri luoghi e territori.

Nel tempo questa incapacità è stata introiettata funzionando come un tarlo tanto caparbio da destrutturare ogni tentativo di dare forma e organizzazione ai movimenti di lotta: sebbene la tensione delle e dei militanti sia stata sempre quella di accumulare potenza e di tenere aperto il movimento tramite azioni e momenti di coagulo, consci dell’imminente riflusso della lotta, anziché immaginarsene una processualità di lungo periodo. Infatti, non siamo mai riusciti a tradurre l’iniziativa di lotta in contropotere organizzato; e questo limite storico insieme alla moltiplicazione di differenze fra le strutture politiche hanno provocato frantumazioni insanabili e incapacità depotenzianti qualsiasi politica rivoluzionaria. Repressione poliziesca e inchieste giudiziarie hanno chiuso il cerchio attorno alle forme di contropotere nei territori e quel vuoto è stato colmato, da una parte, dalle formazioni politico-criminali, e dall’altra dai partiti e dallo Stato ripristinando il discorso in un ordine già visto: assistenzialismo e clientelismo in cambio di voti e lavoro.

Nel loro racconto, le/i compagne/i venete/i fanno giustamente notare come quell’operaio sociale diventi, nella crisi e nella sconfitta politica, l’uomo della Lega. Descrizione paradigmatica che restituisce l’idea di un processo reale. Un qualcosa di simile nella sua dinamica, e differente com’è ovvio nei suoi risultati, succede a Napoli quando il movimento perde terreno e si sfalda. Quei proletari e sottoproletari napoletani che, come le avanguardie venete devono campare, si organizzano in tal senso, defluendo verso differenti scelte soggettive, tra cui quella della criminalità organizzata, che in quegli anni diventa un’industria moderna ed efficiente. Oggi quella configurazione di classe, nuova per l’epoca e perciò poco compresa dai rivoluzionari “beneducati” si mostra in tutta la sua nitida figura e trovare una metodologia di approccio, teorica ma anche pratica è un elemento centrale. Rispetto alla questione dell’operaio sociale è chiaro che vada ricostruita una riflessione finalizzata in primis alla piena comprensione di questa figura di difficile inquadramento. Lo sforzo analitico e l’iniziativa politica degli anni ‘70, in Veneto come a Milano e a Napoli, hanno avviato ma non hanno assolutamente concluso quel percorso.

La sua figura è stata intercettata, incrociata; e pensare che quelle intuizioni felici, quell’iniziativa politica siano state definitive sarebbe un errore colossale. In quella fase le/i compagne/i venete/i hanno anticipato sul terreno della politica pratica quello che poi l’analisi teorica ha affrontato in seguito. Ed è vero. Com’è vero che a Napoli, dove quella figura nella sua contraddittorietà rappresenta ancor oggi l’elemento centrale della geografia sociale metropolitana, la stessa anticipazione rispetto all’analisi teorica è stata effettuata da quelle e quei militanti sorprendentemente provenienti tutti dall’area m-l, che hanno dato vita alla stagione della rivolta partenopea. Una rivolta con connotazioni “lumpen” che ne hanno caratterizzato la vivacità, la violenza e anche gli enormi errori di prospettiva politica.

Eppure è proprio questo nuovo modo di vedere la classe che ha costituito una prospettiva di rottura, che ancora oggi desta interesse, questa scostumatezza di irridere le sacre certezze della fede marxista e rendersi capaci di attraversare la realtà facendosi anche trasformare da essa.

È proprio così: prima che su quelle figure sociali che ancora oggi nell’affermare i propri bisogni danno la linea, più e meglio di qualsiasi politburo fuori tempo massimo, bisogna intervenire su noi stessi, sulla capacità di trasformarci per intercettarle. I CPV anticiparono quella composizione sociale nuova perché ci stavano coi piedi dentro. Lo stesso è successo a Napoli negli anni ’70, non riuscendo, però, a dare una forma anche transitoria che riuscisse a comprendere quella rivolta multiforme che emergeva dai bassifondi della città e che probabilmente era troppo ricca per essere compresa e interpretata a pieno.

Alla fine di queste note ci ritroviamo con una serie di idee e una miriade di domande, al di là delle questioni metodologiche. Che fare? Che far(n)e, di tutte queste memorie? Attraversiamo un tempo triste, distante da quelle vicende che proviamo a raccontare. Se è finito un periodo storico, però, è sempre viva e urgente la “domanda politica”. Il disfacimento del tessuto politico, ordito in una trama per tutti gli anni ‘90 e manifestatosi nella sua energia e nei suoi enormi limiti nel marzo 2001 a Napoli e nel luglio successivo a Genova, è completo. Un fattore determinante è stata sicuramente la dura repressione ma anche l’inadeguatezza di quell’esperienza al livello di scontro con il potere. Le energie politiche sono state poi impiegate per difenderci dai teoremi orditi contro il movimento.

Quella stagione conteneva numerose intuizioni felici ma anche l’arretratezza di strutture che erano pienamente coi piedi nel terreno sabbioso del peggiore ‘900. È da quella posizione scomoda che sono venute fuori il tatticismo esasperato, la predominanza del ceto politico rispetto all’energia che veniva da interi settori di classe coinvolti in massa per la prima volta dopo anni, e una mancanza di organizzazione che, ancora una volta, ha offerto il petto nudo di quel movimento alla falce dello Stato. I Social Forum sono morti per quello: erano diventati parlamentini dentro cui si agiva la tattica camuffata da strategia che ha annacquato il terreno della proposta politica.

La situazione attuale è direttamente figlia di quegli errori. Bisogna trovare il coraggio di dire a noi stessi che i morti sono le nostre forme organizzative, in molti casi forme ibride di stalinismo spruzzate di movimento. È defunta la vecchia ipotesi “entrista” che si è fatta strada fra ampi settori di quel movimento dopo la sconfitta producendo risultati disastrosi, annacquati dentro la brodaglia della tattica di sopravvivenza come unico orizzonte possibile.

Fuori da tutto ciò il terreno dello scontro è sempre vivo e le condizioni di lotta, che sono numerose, sono l’ambito nel quale si può scorgere “la linea”. Negli ultimi vent’anni le lotte di classe in Italia e in tutto il Sud sono proseguite fregandosene delle diatribe tra formazioni politiche.

Le condizioni dello sfruttamento sono divenute sempre più insostenibili; la composizione di classe ha visto la presenza di nuove figure sociali, ancor più, impoverite e sfruttate, come le/i migranti. Mentre, ogni ambito dell’esistenza è stato sottoposto alla valorizzazione senza che legge del valore lavoro possa misurarne lo sfruttamento e dedurne tassi salariali rubati con la violenza di classe. I conflitti hanno infatti una consistenza biopolitica: risiedono al di fuori dei perimetri lavorativi, dove la storia dell’autonomia di classe ha mosso i primi passi.

Nella società e, specificamente, nello spazio urbano molto spesso non siamo presenti, chiusi nelle nostre nicchie identitarie o in un passato che non vuole passare.

Talvolta ignoriamo l’esistenza di microconflittualità; altre volte, quando i conflitti affiorano, vi giungiamo in ritardo e, spesso, dopo neofascisti e/o leghisti. Ciò nondimeno, i comportamenti e le condotte dei conflitti urbani hanno un carattere ambivalente e autonomo: ossia, possono prendere diverse strade e si presentano ostili a istituzioni e partiti. Sono le condotte spurie del neoliberismo reazionario. E sono anche le tendenze da decifrare: le tendenze di cui non siamo capaci di analizzare i movimenti tellurici; diversamente dai primi operaisti, agli inizi dei ’60, al cospetto dell’emigrante meridionale e della “rude razza pagana”, fieri poi di affermare davanti alla rivolta di Piazza Statuto: “non ce l’aspettavamo, ma l’abbiamo organizzata”. Oggi, l’autonomia esiste anche senza gli autonomi, è colpa nostra se siamo in ritardo.

DeriveApprodi | 10/06/2020

 Note:

[1] Orizzonti meridiani (a cura di), Briganti o emigranti. Sud e movimenti fra conricerca e studi subalterni, ombre corte, Verona 2015.

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