Lo slogan “nulla sarà come prima” è vuoto se non lo si relaziona a quel “prima” che ha generato la crisi della pandemia. Il Corona virus non è estraneo al sistema economico-produttivo di tipo capitalistico, primo responsabile della rottura degli equilibri ambientali. Prima del virus infatti si parlava della crisi climatica generata dall’ iper sfruttamento delle risorse mondiali e si parlava di una nuova crisi sistemica quando ancora non eravamo usciti da quella del 2008.
Questa fase rappresenta un po’ il 1989 per il sistema neoliberale: questo significa che le crisi non sono un qualcosa di accessorio ma rappresentano dei momenti di rottura strutturali sempre più radicali e profondi del meccanismo capitalista. Ma come sempre, giunti al capolinea si aprono due vie: la prima è quella della prosecuzione delle politiche di austerità ma dentro un telaio molto più autoritario di quello precedente, come ha mostrato il lockdown; la seconda è quella della presa di coscienza che i nodi sono tutti venuti al pettine e c’è bisogno di un cambio radicale di paradigma. Questo modello ha dimostrato di non proteggere nessuno. Il virus ha spiazzato completamente coloro che avevano costruito perimetri di illusoria protezione (“prima il Nord” o “Prima gli italiani”), mettendo a nudo la profonda precarietà della vita di molti, anche di quelle categorie come gli autonomi e le Partite Iva. Allora, un primo cardine di un’alternativa do società non può che passare dall’eliminazione della precarietà.
Un secondo aspetto è che se la pandemia è endogena al modello capitalistico, allora è dall’ecologia che bisogna ripartire per superare questo modello e costruire un’alternativa.
La pandemia, inoltre, dà profondamente ragione al pensiero femminista che ha sempre sottolineato la preminenza della riproduzione sociale sulla produzione economica. Il lavoro di cura, il lavoro domestico, messi sempre in secondo piano dal lavoro di fabbrica, sono diventati evidentemente le basi imprescindibili per ogni discorso sulla possibilità stessa di un meccanismo economico produttivo. C’è dunque necessità di contrappore alla società del profitto, una società della cura di sé, degli altri e dell’ambiente.
La territorialità assume, in questo contesto, un significato completamente inedito. Il virus si è moltiplicato e diffuso così velocemente perché ha utilizzato i binari dell’iperglobalizzazione che permettono alle merci, alle persone ed ai capitali di muoversi a velocità supersoniche dentro il mito di una crescita infinita. I corpi di manager e tecnici specializzati, lavoratori di trasporti e logistica, turisti sono stati i canali utilizzati dal Covid-19 per moltiplicare in brevissimo tempo il contagio. Se per bloccare la pandemia si devono bloccare questi flussi globali bisognerà anche pensare ad una riterritorializzazione della produzione. Così i Comuni e gli enti locali divengono sempre più centrali. Non solo sono quelli chiamati ad assistere i cittadini nelle emergenze a causa della prossimità ma saranno sempre più investiti dell’organizzazione dei sistemi produttivi riterritorializzati. Chiaramente sarebbe razionale, una volta investiti di queste nuove funzioni di coordinamento economico-produttivo, che recuperassero anche una capacità di scelte politiche e di indirizzo autonome. Bisogna ripensare dal basso, dalle comunità territoriali, come si costruisce un altro modello che sia socialmente ed ecologicamente orientato.
Da qui nasce la necessità di “riprendersi il comune” in una duplice accezione. La prima nel senso della riappropriazione sociale di tutto quanto ci appartiene, contrastando la privatizzazione e la svendita della ricchezza collettiva, ma anche superando la logica del pubblico così come l’abbiamo storicamente conosciuto dato che non deve coincidere necessariamente con lo statale e con il burocratico; si tratta si immaginare e sperimentare un autogoverno partecipativo delle comunità locali. La seconda nel senso della riappropriazione degli enti locali, in quanto i luoghi della democrazia di prossimità non possono più essere semplicemente i terminali che eseguono le politiche di austerità liberiste stabilite dall’alto (Unione Europea, Governo italiano) ma vanno ripensati come luoghi di resistenza all’interno dei quali le comunità territoriali rivendicano la tutela dei diritti umani fondamentali e sperimentano un altro modello sociale e democratico.
Per andare in questa direzione, occorre che tutti i comitati ed i movimenti territoriali facciano un salto di qualità. Assistiamo oggi ad una proliferazione di vertenze in campo su temi specifici che rischiano l’inefficacia se non si approcciano al modello comune in termini sistemici. Dal livello locale a quello nazionale, occorre uscire da quella che noi chiamiamo la trappola del debito, dell’austerità, dei vincoli di bilancio. Significa affermare, nell’ottica della società della cura, che l’obiettivo degli enti locali non può essere il pareggio di bilancio finanziario ma deve diventare il pareggio di bilancio sociale, ecologico e di genere. L’obiettivo di un autogoverno delle comunità locali deve essere quello di colmare il disavanzo sociale garantendo a tutti i diritti fondamentali, colmare il disavanzo ambientale modificando l’impronta ecologica della produzione territoriale e colmare il disavanzo di genere ed il suo portato di discriminazione. L’orientamento alla società della cura ci fa pensare che debbano saltare quei vincoli finanziari e di bilancio che non permettono agli enti locali di garantire pari opportunità e pari diritti a tutti e tutte.
Sono le vie diametralmente opposte percorse da Firenze e Napoli in questa fase di crisi pandemica. Il Sindaco di Firenze, partendo dal dato vero del rischio di default del Comune, ha esternato di voler fare tutto il possibile per salvarlo anche se questo dovesse significare indebitarsi mettendo a garanzia tutte le proprietà pubbliche compresi i musei, i mercati, i monumenti. Il problema che si pone è cosa voglia dire “salvare la città” se la si consegna in toto alle banche.
Napoli sta tentando con molta difficoltà una strada diversa. È stata recentemente approvata una delibera, alla fine di un percorso partecipativo all’interno della Consulta Pubblica per l’Audit sul debito, ai cui lavori hanno partecipato esperti, associazioni e cittadini, che pone la città in aperto conflitto con le istanze superiori. Napoli non ha fatto altro che chiedere, e resto stupito dell’immobilismo degli altri comuni, la sospensione del patto di stabilità interno, così com’è stato sospeso il patto di stabilità per gli Stati in Europa. Inoltre, a gennaio, il governo ha approvato all’interno della legge “Milleproroghe” la possibilità di accollarsi i mutui degli enti locali contratti con Cassa Depositi e Prestiti per tagliare drasticamente i tassi di interesse dovuti. Purtroppo non è mai stato deliberato il decreto attuativo, e ancora oggi i Comuni pagano a Cassa Depositi e Prestiti interessi intorno al 4-6%, assolutamente esorbitanti rispetto all’attuale costo del denaro che si attesta ad una percentuale vicina allo 0%. Ora, sapendo che l’81% della CDP è del Ministero dell’Economia e delle Finanze, ci troviamo in una situazione paradossale, dentro la quale lo Stato fa usura sugli enti locali!
L’attuale soluzione in campo, proposta da Cassa Depositi e Prestiti, rimane quella della rinegoziazione che significa semplicemente spalmare il debito su più anni accrescendo ancora di più il valore degli interessi che alla fine saranno pagati dai Comuni. Un’ultima via segnalata dalla riflessione della Consulta Pubblica per l’Audit sul debito è la richiesta allo Stato di poter accendere, per tutto il prossimo biennio, mutui a tasso zero, sulla falsariga di quelli concessi alle aziende. Si è data in soli due giorni la garanzia dello Stato a un prestito di 6,3 miliardi concesso a FCA, per altro con sede fiscale all’estero, e non si capisce perché non si riescano a reperire analoghe risorse per i Comuni al fine di uscire dall’emergenza. Sono proposte che ogni Sindaco di buon senso dovrebbe considerare come prioritarie.
I movimenti territoriali proprio in questo dovrebbero fare un salto di qualità, sostituendosi ai Sindaci dormienti, costringendoli al conflitto con le istanze superiori, chiedendo con forza che le risorse per uscire dalla crisi arrivino subito senza aspettare la marea di sussidi ad personam che nella maggior parte dei casi non risolvono i problemi dei cittadini.
In questa fase sostanzialmente non democratica dove la rappresentanza è destituita di ogni significato reale, la mobilitazione sociale è l’unico motore che può in qualche modo sperare di trasformare i rapporti di forza e, se è una mobilitazione ampia e consapevole, anche riuscire a cambiare le istituzioni.
Oggi chi pensa di entrare nelle istituzioni perché quello è il luogo in cui si possono rappresentare le comunità fa un errore di visione storica. Chi pensa di entrare nelle istituzioni per sopperire alla frustrazione dell’incapacità di essere presente all’interno della società e della comunità fa un’operazione di tipo opportunistico. Si può pensare di “prendere le istituzioni” dopo che si è riusciti a creare una mobilitazione sociale capace di produrre una gigantesca energia collettiva capace di irrompere per trasformare le stesse. Senza questo valore aggiunto si entra nelle istituzioni con l’intento di cambiarle dal di dentro ma si finisce ogni volta per esserne cambiati non avendo le forze necessarie per attuare questa irruzione trasformatrice.
Il conflitto sociale che inevitabilmente si svilupperà nel prossimo autunno, a causa dei drammatici problemi economici e sociali legati alla crisi non si risolverà all’interno delle istituzioni ma nelle piazze. Per questo occorre costruire convergenza tra le tante e anche approfondite piattaforme rivendicative sui diversi aspetti della crisi; servono mobilitazioni ampie e consapevoli per trasformare i rapporti di forza. Anche storicamente le tante conquiste degli anni 50, 60 e 70 del secolo scorso arrivarono da movimenti di massa extra parlamentari e con un Partito Comunista all’opposizione.
Se non saremo capaci di imporre le rivendicazioni attuali attraverso le piazze, il rischio di un’uscita a destra diventerà più che concreto e potremmo trovarci a sperimentare un moderno fascismo incarnato da istituzioni autoritarie che imporranno con maggiore violenza le ricette antipopolari calate dall’alto e che continueranno ad espropriare la ricchezza collettiva a vantaggio dei pochi.
Documento di sintesi della diretta in streaming live di Malanova con Marco BERSANI di Attac Italia