di Sandra Berardi*
Negli ultimi due mesi la vita di tutti noi è cambiata profondamente. All’ansia per il futuro si è sommata la paura di un nemico invisibile, invadente e mortale; e alle paure si sono aggiunte le misure di contenimento contro la diffusione del virus, attraverso l’imposizione del distanziamento sociale, il divieto di spostamenti immotivati, la cura particolare dell’igiene e l’adozione di dispositivi di protezione individuale. Misure legittime forse, certamente consigliabili, ma sicuramente insufficienti a contenere la diffusione della paura del contagio. Apparentemente l’Italia per due mesi si è fermata, tranne per ciò che riguarda le “attività indispensabili” e i luoghi di comunità forzate quali ospedali, RSA e carceri. La narrazione ufficiale attorno al rischio covid19 nelle carceri si è avvitata su due, tre, questioni, ovviamente di tipo securitario ed “emergenzialistico”, ma distanti dal nocciolo delle priorità effettive in fase di emergenza sanitaria.
Posto che il diritto alla salute è l’unico che la nostra Costituzione sancisce quale diritto fondamentale, il ministero preposto alla gestione della popolazione detenuta avrebbe dovuto mettere in campo ogni misura necessaria affinché la stessa popolazione venisse messa al riparo dal rischio contagio. E questo non è stato. Il covid19 si è affacciato nelle carceri attraverso i media e in forma di allarme, in una situazione già di per sé al collasso, con oltre 61.000 persone recluse (a fronte di 47.000 posti effettivi) in condizioni di degrado e sovraffollamento. Allarme e paure, con la sospensione dei colloqui il 7 marzo, si sono trasformati in rabbia. Rabbia che è esplosa con le rivolte dello stesso mese di marzo. Un bilancio tragico di 14 detenuti morti, per cause ovviamente da chiarire, e centinaia di feriti. Il bollettino dei morti che si allungava di ora in ora: 3, 4, 5, morti; forse 6, infine 14. Una Caporetto delle carceri italiane, mentre il ministro si affrettava a bollare come “atti criminali” le rivolte nate dalla paura di fare la fine dei topi in gabbia. A soccorso della incapacità del ministro Bonafede, e del Dap, di gestire una situazione delicatissima come quella profilatasi già prima del 9 marzo, che avrebbe necessitato di un immediato provvedimento deflattivo, si levano gli scudi degli amanti del complottismo: si fa strada, e si accredita, l’ipotesi di una regia “occulta” dietro le rivolte. Regia che viene dapprima imputata ai grossi boss, poi agli anarchici e ai centri sociali per arrivare, infine, ad una alleanza anarco-mafiosa finalizzata alla “scarcerazione” di 3 detenuti in 41 bis con la “scusa” di essere gravemente ammalati. Mi chiedo come mai non abbiano ancora pensato agli jihadisti. A questo punto l’equazione sarebbe facilissima, vista l’origine araba di 10 dei 14 morti. Sarebbe stato ancora più facile giustificarne la morte come gesto “kamikaze”, e magari 4 soli morti di metadone sarebbero risultati anche più credibili.
Seguono a ruota gli umori dell’opposizione al governo, che invoca l’uso dell’esercito e dei droni a presidio delle carceri; e quelli di una certa antimafia di professione che tuona contro qualsiasi provvedimento “svuota carceri” suggerendo al ministro di adibire a galere d’emergenza le caserme dismesse, ritenendo le carceri il luogo più sicuro per evitare il contagio. Voci amplificate dai media e dalla carta stampata, e capaci di annullare voci ben più autorevoli che andavano in direzione ostinata e contraria a difesa del diritto alla salute e alla vita. Per non dire dell’altra narrazione strampalata per cui le mafie sarebbero dietro le reti di solidarietà che sul territorio nazionale si sono attivate per dare risposte concrete alla crisi imposta dal lockdown.
Ma è con la sostituzione o sospensione della pena – da detentiva a domiciliare – a tre detenuti in 41bis con gravi patologie che l’indignazione dell’antimafia forcaiola, buona per tutte le stagioni, irrompe nel dibattito pubblico e politico (omettendo di dire che Bonura avrebbe terminato la sua condanna fra 8 mesi e che Zagaria fra 5 mesi tornerà in carcere) rimuovendo, di fatto, le priorità reali di questo particolare momento storico e spostando, strumentalmente, l’ordine del discorso sulla “classica” emergenza-mafia; emergenza che però, con buona pace dei nostalgici, non è, o meglio non è più. La mafia stragista oggi non esiste. Come ci hanno insegnato Falcone e Borsellino “la mafia e lo stato sono due poteri che si contendono il controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra, o si mettono d’accordo.” Ed oggi bombe non ne esplodono più.
I protagonisti sopravvissuti di quella stagione sono prevalentemente anziani e da circa 30 anni in carcere. Le mafie (intese come alleanze tra diversi poteri) invece, nel frattempo si sono riorganizzate. Oggi le mafie che contano pagano regolarmente le tasse (non vandalizzano scuole) e raramente vengono perseguite. Eppure si continua ad agitare lo spettro della mafia che fu, quella tutta coppola e lupara, attraverso la difesa del 41bis elevato a simulacro dell’antimafia dura e pura; lo scontro in atto tra politica e magistratura è la rappresentazione plastica di un gioco di potere che nulla apporta alla lotta contro il crimine. È, piuttosto, un rigirare il coltello nella piaga, quasi a voler riaprire periodicamente quella ferita a fronte della quale tutto il resto scompare. Scompaiono così 14 morti; scompaiono centinaia di massacrati; scompare la gestione criminogena dell’istituzione carceraria, che dovrebbe invece rieducare e giammai torturare; scompare il divieto di ingerenza tra poteri dello stato atto a scongiurare derive autoritarie: il “commissariamento” circolare dell’antimafia sul ministero della giustizia, e di questo sulla magistratura di sorveglianza, sembra prefigurare l’instaurazione di uno stato assolutistico con la concentrazione dei poteri in un’unica figura; scompare l’emergenza pandemica; scompare la sanità dissanguata; scompare la crisi economica e sociale in atto e quella che verrà; scompare la Costituzione; scompare il senso di umanità.
E nel frattempo, abbandonata la speranza del diritto, ogni giorno che passa si allunga la lista di intere sezioni messe in isolamento, di detenuti, agenti, cappellani morti per covid19, contagiati, trasferiti, dimenticati. Eppure lo stato è chiamato a fare giustizia, non vendetta: e i detenuti hanno piena la consapevolezza di essere soggetti portatori di diritti che vengono sistematicamente calpestati in nome dell’ormai sempreverde emergenza-mafia; emergenza che, a ben guardare, è lontana nel tempo e nella storia ma sempre utile a limitare diritti dei cittadini e doveri delle istituzioni.
*Ass. Yairaiha Onlus
Fonte: http://www.palermo-grad.com/virus-dietro-le-sbarre.html