Fonte: Centro Internazionale Crocevia
Lo scorso 15 aprile, Crocevia ha partecipato al webseminar dal titolo “Una ricetta per il disastro: sistemi alimentari globalizzati, disuguaglianza strutturale e COVID-19”. In questa occasione sono state affrontate diverse tematiche e, in particolare, abbiamo potuto apprezzare un focus specifico riguardante il modo in cui i sistemi alimentari industriali globalizzati abbiano spianato la strada all’emergere del virus Covid-19 e ai collegamenti strutturali tra agricoltura industriale, agenti patogeni e cattive condizioni di lavoro. Sono state anche esaminate alcune delle difficoltà che diverse comunità nel mondo si trovano ad affrontare oggi e il loro conseguente impatto in relazione alle lotte che mirano a costituire una società e dei sistemi alimentari più equi. L’attuale pandemia globale amplifica i problemi legati ad una società che da troppi anni ormai vede smarrita la capacità di valorizzare l’ambiente, alla ricerca di una produzione di ricchezza materiale insostenibile.
Durante il seminario online sono intervenuti esperti da diverse parti del mondo: Rob Wallace, autore di “Big Farms Make Big Flu” e coautore di “Neoliberal Ebola: Modeling Disease Emergence from Finance to Forest and Farm”; Moayyad Bsharat, Unione dei Comitati per il lavoro agricolo (UAWC), un’organizzazione membro di La Via Campesina in Palestina; Arie Kurniawaty, organizzazione femminista indonesiana Solidaritas Perempuan (SP); Sai Sam Kham, Metta Foundation in Myanmar e Paula Gioia, contadina tedesca e membro del Comitato del Coordinamento Europeo Via Campesina.
Emergenza Covid-19: il campanello d’allarme per i sistemi alimentari di Rob Wallace
L’attuale sistema agroalimentare, basato su un’economia globalizzata e capitalista, sta cedendo. Le previsioni economiche, relativamente all’attuale crisi sanitaria del Coronavirus, stimano una fortissima recessione dell’intera economia globale che sta rapidamente accentuando un’ulteriore crisi della sicurezza alimentare. Nel giro di poche settimane, l’esplosione della pandemia Covid-19 ha messo a nudo i rischi, le fragilità e le disuguaglianze sottostanti nei sistemi alimentari globali e li ha spinti vicino al punto di rottura.
In realtà, ciò di cui oggi il sistema agroalimentare sta soffrendo è in corso già da tempo. In Europa, le politiche pubbliche sembrano voler prediligere l’agricoltura industrializzata dove spesso non vengono adottate le giuste precauzioni in materia di salvaguardia ambientale e diritti umani [1], provocando un forte impatto ambientale e diminuendo drasticamente la biodiversità. Nonostante tale premessa, il 95% delle aziende agricole europee sono di piccole e medie dimensioni e con la loro produzione riescono a sfamare le comunità locali con cibo salutare e di buona qualità.
I blocchi e le interruzioni innescati dal Coronavirus hanno dimostrato difficoltà per tutti ad accedere a beni e servizi essenziali. Nei sistemi sanitari e alimentari, sono emerse debolezze e disuguaglianze. Alcune delle direttive governative di Italia, Francia e Spagna in tema di apertura delle attività commerciali, hanno inizialmente visto favorire i supermercati e le grandi catene alimentari ed hanno optato per la chiusura di ristoranti, attività florovivaistica, agriturismi, mense e numerosi mercati rionali, limitando quindi le vendite dirette. Inoltre, si è registrato un calo della richiesta di prodotti freschi da parte dei consumatori più propensi a fare scorte e ad acquistare prodotti secchi. Tutti questi fattori hanno provocato notevoli perdite economiche per gli agricoltori e allevatori di piccola scala soprattutto in un periodo come quello pasquale.
L’emergenza Covid-19, dovrebbe essere interpretata come un campanello d’allarme per i sistemi alimentari che hanno urgente necessità di essere ascoltati. Ciononostante, sembrerebbe che la resilienza contadina stia sopravvivendo e che stia dando un’ulteriore lezione al mercato. La crisi ha offerto uno scorcio verso nuovi sistemi alimentari più resilienti, poiché le comunità si sono unite per colmare le lacune soprattutto per quanto riguarda l’accesso al cibo per tutti e le autorità pubbliche hanno preso misure straordinarie per garantire la produzione e la fornitura di cibo. Sta di fatto che nel settore agroalimentare non saranno esclusivamente le “immissioni di liquidità” a determinare la ripresa, ma la capacità, la volontà, la resistenza e l’autonomia produttiva di contadini, artigiani, aziende di piccole e medie dimensioni che operano a livello locale, che sono la vera struttura portante dell’economia nazionale.
Il governo indonesiano con i protocolli di sicurezza favorisce i supermercati di Arie Kurniawaty
In Indonesia, la situazione sanitaria è più fragile dati i numerosi casi di tubercolosi e diabete. Il numero del personale medico scarseggia, non solo di fronte all’emergenza attuale, ma anche per quel che riguarda i reparti di ginecologia e neonatologia, mancanze che incrementano il numero già alto della mortalità materna. Ad aggravare la situazione emergono i devastanti impatti dell’industrie estrattive e i recenti disastri ambientali, per cui parte della popolazione vive ancora in alloggi temporanei spesso privi di acqua potabile e strutture di sanificazione. Nonostante l’Indonesia sia ricca di terreni agricoli e di pesca, il COVID-19 sta mettendo in seria difficoltà i mercati tradizionali e i piccoli e medi produttori. La mancata chiarezza dei protocolli di sicurezza ed igiene da parte del governo ha fatto sì che molti consumatori si siano affidati ai moderni supermercati, a discapito di quelli tradizionali. Il risultato è stato quindi la chiusura dei mercati di pesce e di ortaggi, etichettati come non sicuri e antigienici, rendendo difficile la vendita diretta. Molte sono le donne che lavoravano in questi mercati. La loro chiusura ha determinato maggiori difficoltà economiche che hanno coinciso con l’aumento del numero di casi di violenza domestica. Mentre il governo sta cercando delle soluzioni concrete, la popolazione ha trovato il modo di connettere le zone rurali a quelle urbane per l’approvvigionamento alimentare.
La privatizzazione del sistema sanitario israeliano e la dipendenza dell’approvvigionamento alimentare indeboliscono i palestinesi di Moayyad Bsharat
La Palestina sappiamo essere stata divisa in tre zone dall’accordo di Oslo del 1993, che divide la Cisgiordania e la striscia di Gaza in tre zone: la zona A, interamente palestinese, la B, dove l’autorità civile è palestinese, mentre il controllo militare rimane a Israele, e la zona C, israeliana. La zona C è quella che detiene circa il 95% delle terre coltivabili ed ospita una popolazione di almeno 300.000 palestinesi. Nella zona C, vivono contadini e famiglie in situazione di vulnerabilità e marginalizzazione. L’amministrazione israeliana ha scelto la linea di privatizzazione del sistema sanitario, rendendo quindi impossibile l’accesso alle cure per molti palestinesi che in aggiunta si trovano distanti dalle città (palestinesi) che offrono un servizio ospedaliero. La Union of Agricultural Work Committees (UAWC) un’organizzazione membro di La Via Campesina in Palestina, con la distribuzione di oltre 350.000 semi sta creando campagne per sostenere i contadini e le loro famiglie, dando loro la possibilità di diventare autonomi per quanto riguarda l’approvvigionamento alimentare, al fine di rendere la popolazione indipendente dalla produzione chimica ed industriale.
Il rientro dei migranti birmani e gli scontri armati aggravano l’emergenza Covid-19 in Myanamar di Sai Sam Kham
In Myanamar il distanziamento sociale è molto difficile da attuare non solo a livello pratico, ma anche culturale. Gli ospedali non sono in grado di gestire la crisi e manca il personale sanitario. Due fattori che contribuiscono negativamente alla crisi sono: il gran numero di migranti birmani, che per il lockdown si vedono costretti a tornare nel loro paese natale (circa 750.000), poiché già soffrono grandi difficoltà economiche e sono privi di un alloggio; e gli scontri nella zona occidentale del paese. In questa porzione di territorio, a causa dei conflitti armati, internet è stato vietato, comportando così l’inaccessibilità dei portali informativi utili a contrastare la diffusione del COVID-19. Sempre in riferimento alla parte occidentale del paese, il governo ha richiesto un cessate il fuoco immediato, ma la situazione nei campi profughi in Bangladesh, che raccoglie quasi un milione di rifugiati, rende le loro condizioni sanitarie estremante vulnerabili. Gli aiuti umanitari sono numerosi, anche da parte della Cina, che sembra però avere degli interessi economici nel paese. Servono interventi strategici e polivalenti da parte del governo per poter affrontare non solo la pandemia COVID-19, ma anche per regolarizzare le industrie estrattive, l’espropriazione delle terra e le migrazioni.
Sovranità alimentare e mercati resilienti: gli antidoti alla crisi dei sistemi alimentari di Paula Gioia
In Europa il modello agricolo è molto industrializzato e contribuisce ad arricchire le multinazionali, allo sfruttamento del lavoro, alle violazioni dei diritti umani, alla perdita della biodiversità, alle malattie degli animali negli allevamenti e a molte altre criticità. Allo stesso tempo, il 95% delle aziende agricole sono di piccola scala e sfamano la popolazione locale con cibo fresco e sano.
Quello a cui assistiamo oggi, anche in questo periodo di emergenza Covid-19, è che l’agricoltura di piccola scala è messa in crisi dalla globalizzazione e dai mercati internazionali. In particolare, occorre sottolineare la questione dell’accesso ai mercati poiché in molti paesi europei c’è stata la chiusura di mercati rionali, mense, ristoranti e, di contro, un forte aumento delle vendite alimentari per le grandi catene dei supermercati. Ciò sta causando notevoli perdite economiche per i produttori di alimenti di piccola scala e, addirittura, alcuni di essi sono stati costretti a chiudere.
La notizia positiva è che sono aumentate le vendite dirette da cooperative di consumatori, i GAS Gruppi di Acquisto Solidale, le CSA Comunità di Supporto all’Agricoltura, i mercati all’aperto – nei paesi dove sono stati autorizzati – e hanno dimostrato di essere tutte forme di mercato forti e resilienti.
Tuttavia, nel vecchio continente si assiste anche a due dati da sottolineare e interconnessi fra loro: l’avanzata età media degli agricoltori (circa 65 anni) e la carenza dei braccianti. Bisogna considerare che purtroppo le misure di lockdown sono state pensate per i contesti urbani, perché per un contadino non sempre il campo coincide con la sua abitazione. È chiaro che i contadini non possono fare smartworking. In molti paesi, tra cui l’Italia, la maggior parte dei braccianti sono migranti stagionali, provenienti spesso da Romania, Bulgaria e Polonia, che accettano condizioni di lavoro degradanti. Con la chiusura delle frontiere si è visto come questi lavoratori siano fondamentali per l’andamento dell’agricoltura europea [2].
Pertanto, si osserva come inevitabilmente questi recenti sviluppi impattano non solo la stessa esistenza delle aziende agricole di piccola scala ma anche l’accesso al cibo dell’intera popolazione mondiale.
Nel passato le crisi sono state sfruttate da attori potenti con l’obiettivo di accelerare approcci insostenibili e solidi dal punto di vista commerciale. È importante imparare dalle lezioni del passato e resistere a questi tentativi, garantendo al contempo le misure adottate per frenare la crisi. Questo è un punto di partenza per una trasformazione verso un sistema alimentare che intende costruire la resilienza a tutti i livelli. La produzione intensiva è un problema politico e di produzione. Siamo chiamati a ripensare l’intero sistema di produzione, all’interno del quale il sistema alimentare si pone come parte integrante della soluzione, intendendo quella della sovranità alimentare come unica via percorribile.
È necessario reinventare un sistema che abbandoni la produzione industriale e l’allevamento intensivo e che promuova il movimento per la sovranità alimentare e la lotta al cambiamento climatico. Bisogna supportare l’agroecologia in quanto metodo di produzione di alimenti sani che rispetta di diritti umani e ambientali. Urge un movimento dal basso, con una forte pressione verso l’alto poiché i governi non cambieranno da soli. Questi ultimi dovranno assumersi le loro responsabilità per supportare gli agricoltori e le comunità più vulnerabili. Sono necessarie garanzie per i contadini, politiche pubbliche in grado di garantire un rinnovamento dell’agricoltura. C’è bisogno di nuove alleanze tra zone rurali ed urbane.
Rob Wallace ci lascia con diverse domande per attuare tutto ciò: “Siamo pronti a dare autonomia a contadini e pescatori? Possiamo finalmente imparare ad abbracciare le pratiche indigene nel coltivare la terra rispettandola in quanto fonte che ci alimenta? Abbandoneremo finalmente certe ideologie? Rientreremo nel ciclo naturale di rigenerazione della terra? Riprendendo le parole degli zapatisti, possiamo creare un mundo donde quepan muchos mundos, ossia un mondo dove le diversità convivono senza che gli uni si impongano agli altri e ci sia davvero spazio per tutti?”
[1] Nora McKeon, “Food Governance: dare autorità alle comunità, regolamentare le imprese” Jaca Book editore, 2015.
[2] Con la chiusura delle frontiere, l’Italia si ritrova a non avere lavoratori nel settore agricolo collezionando una carenza di circa 250.000 posti di lavoro. Il dato incontrovertibile è che l’Italia è un paese che rischia di non produrre cibo per mancanza di lavoratori e, mai come in questo periodo di crisi, emerge che la produzione agroalimentare italiana si basa in gran parte sulla manodopera straniera.
Autrice: Michela Tudini
Editing: Eleonora Mancinotti
Web Content Editor: Marco Galluzzi