Nei procedimenti di formazione e approvazione degli strumenti di governo del territorio, la legislazione urbanistica regionale prevede, come componenti essenziali ai processi partecipativi, i cosiddetti “soggetti portatori di interessi”. Un termine – quest’ultimo – ambiguo che pone sullo stesso piano rivendicativo le proposte delle comunità locali o dei comitati di quartiere ad esempio, con quelle delle lobby dell’immobiliare le cui interfacce spesso risultano essere quelle di qualche prezzolato del potere locale.
Guardando agli esiti “partecipativi” di alcuni Piani approvati in diversi comuni calabresi, spesso la maggior parte delle osservazioni avanzate dal basso non vengono accolte, trovando invece pieno accoglimento le “sollecitazioni” che arrivano da “portatori d’interessi” privatistici.
Il nostro territorio è pieno di brutture urbanistiche e scempi territoriali irrecuperabili con milioni di metri cubi di realizzato o realizzabile e vuoti abitativi che hanno ipotecato definitivamente il territorio agli interessi dei signori del mattone.
È inutile girarci intorno: gli strumenti di partecipazione esistenti incidono poco nelle scelte e, là dove hanno inciso, spesso l’effetto è stato nefasto perché a prevalere è stata la logica dell’interesse particolare.
Immancabilmente le accuse si riversano sulla cittadinanza incapace – a dir loro – di partecipare attivamente a qualsivoglia forma diretta di democrazia.
In realtà il limite sta tutto nella normativa regionale e nella concezione di partecipazione che in essa viene sviluppata.
La LUR del 2002 accenna alla partecipazione e alla sua importanza ma non traccia le modalità attraverso cui un processo partecipativo possa realmente divenire elemento di incidenza in un Piano di Governo del Territorio.
Il più delle volte, il riferimento è a strumenti di pubblicizzazione, di accesso agli atti, di istanze in fase di inizio del processo pianificatorio o di osservazioni a processo pressoché avvenuto.
Gli strumenti della partecipazione sono considerati dal sistema politico-amministrativo perlopiù obblighi di legge a cui non si può non dare seguito e non come occasione per innescare un processo reale di condivisione delle informazioni, di decisione collettiva e di partecipazione diretta alla pianificazione e al governo del territorio.
Tralasciando gli strumenti previsti nell’art.11 cosiddetti “concertativi” – coacervo di apparati burocratici e interessi lobbistici – l’unico accenno ad una qualche forma di pianificazione partecipativa lo troviamo nei comma 6 e 7 del succitato articolo dove vengono introdotti i cosiddetti “laboratori di partecipazione” articolati in laboratori urbani, di quartiere e territoriali.
Per questi strumenti, che reputiamo potenzialmente utili al processo partecipativo, risulta estremamente difficile reperire delle traccia negli iter messi in piedi dalle Pubbliche Amministrazioni nonostante la stessa legge ne preveda la “tracciabilità” lì dove afferma che “L’eventuale attività di partecipazione deve avvenire con processi tracciabili, ovvero con uno schema informativo completo sia sul sito internet di riferimento che in forma cartacea. Le osservazioni e gli interventi, espressi durante l’attività di partecipazione, sono riportati nel fascicolo della partecipazione e della concertazione”.
La debolezza, da un punto di vista del meccanismo partecipativo, sta proprio in quel termine “eventuale attività di partecipazione” che lascia libero campo ad ogni Amministrazione di scegliere se attuare o meno un processo partecipativo, di costruzione di una conoscenza e consapevolezza diffusa delle scelte di indirizzo, delle scelte strategiche per il piano.
Come accade nella maggior parte dei casi, le Amministrazioni si attengono ai formalismi minimi imposti dalla legge.
La scelta, quella della partecipazione reale, può rappresentare una rottura con l’urbanistica intesa come meccanismo di distribuzione del diritto edificatorio e come meccanismo di ripartizione di fette di territorio gestito e mediato dai sistemi politici locali e sovralocali.
La partecipazione non serve ne deve servire per costruire consenso intorno a scelte. È piuttosto un processo di attivazione di una risorsa fondamentale per l’esistenza e il futuro di ogni comunità.
Tale risorsa coincide sostanzialmente con l’insieme delle esperienze, conoscenze, memorie e, soprattutto, con la capacità di produrre soluzioni, con l’intelligenza collettiva proprie di chi abita il territorio.
La partecipazione così intesa diventa volano per la ricucitura di una società che sul proprio territorio oggi appare frammentata, ridotta ad una dimensione individuale. La messa in comune dei saperi e delle intelligenze collettive è il fulcro di un reale processivo partecipativo.
Questa attivazione non può che avvenire intorno alla definizione di quali siano i problemi reali, quali strumenti attivare per risolverli e quali possano essere le risorse su scala locale per risolverli. Tutto questo processo non può che avvenire sul territorio dove le comunità vivono la propria quotidianità rendendo ogni abitante compartecipe sia in termini di possesso che di responsabilità gestionale delle risorse selezionate.
La scelta di alcune risorse e la contestuale attribuzione ad esse di una gamma di valori, è momento determinante per dare senso e realismo ad un processo partecipativo, in quanto rende atto collettivo una assunzione di responsabilità. Atto in cui la comunità andrebbe poi a riconoscersi non vivendo così, l’esito dell’intervento di pianificazione territoriale, come un corpo estraneo innestato nel proprio tessuto urbano locale.
Quali debbano essere le risorse su cui responsabilizzarsi è compito della comunità sceglierle. Alcune risorse elementari ovvero palesemente essenziali per il futuro di una comunità si presentano già nella loro evidenza: il suolo, ad esempio, è una di esse.
Da parte della pubblica amministrazione l’introduzione ad esempio di modalità di computazione delle risorse, un corretto bilanciamento tra suolo urbanizzabile e suolo da rinaturalizzare, l’assunzione di procedure economiche capaci di computare per ogni singolo processo l’insieme dei costi sostenuti dall’intero territorio, a fronte dei benefici dei singoli operatori, potrebbero essere delle semplici “attrezzature istituzionali” da mettere in campo atte a garantire una protezione dalle incursioni delle lobby immobiliariste e, al contempo, capaci di esaltare una intelligenza pubblica collettiva frutto della interazione permanente con la propria comunità di riferimento, pratica che, in tutta sincerità, fino ad oggi ci risulta del tutto sconosciuta.