di Domenico Bilotti (*)
Bisognerebbe non trattare il tema dei rapporti tra l’azione di contrasto alla criminalità organizzata e la comunicazione sui media vecchi e nuovi in modo transitorio, legato al clamore o all’oblio di inchieste specifiche. Sarebbe piuttosto necessario addivenire a una costruzione democratica delle relazioni tra diritto all’informazione, prudenza d’indagine e cultura della legalità. Ciò si dice soprattutto perché i tre fattori sono tipicamente e naturalmente collegati: l’inquinamento dell’uno travolge irrimediabilmente gli altri.
Un’informazione scandalistica in materia giudiziaria, ad esempio (un esempio che pur si è riscontrato! nonostante la bravura di tanti giornalisti), annacqua l’accertamento di responsabilità, ingenera equivoci, produce un senso complessivo di abbattimento e sfiducia.
Credere poi che la lotta alle mafie passi soltanto attraverso la carcerizzazione è una strategia che non paga, in primo luogo per i cittadini.
Con l’ausilio del diritto pubblico comparato, guardiamo all’ordinamento penitenziario di Cina, Stati Uniti e Italia.
Nel primo caso, pur in assenza di dati inoppugnabili sulla carcerizzazione, scopriamo che legislazione ed esecuzione penale si sono mostrate nude rispetto a quella che è con l’inquinamento e lo sfruttamento di manodopera la vera piaga del diritto cinese: la corruzione nei pubblici uffici.
Negli Usa, gli Stati ove si pratica con più frequenza la pena di morte non sono quelli dove si registra il minor numero di reati contro la persona.
In Italia, la penetrazione del capitale mafioso nell’economia lecita non è stata fermata dai regimi detentivi speciali. Anzi: è aumentata.
Il sociologo e criminologo Baratta invitava a considerare l’inchiesta giudiziaria con gli strumenti dell’analisi sociale: cogliere inflessibilmente ma appropriatamente le ragioni dell’agente, e lì commisurarne la cornice edittale, ha una valenza generale special-preventiva più incisiva della legislazione speciale.
Il costituzionalista Luigi Ferrajoli ha elaborato una teoria del garantismo penale che esalta la dimensione del processo in contraddittorio, non con gli schemi della letteratura anglosassone di common law (che vive la fase “dibattimentale” con eccesso di competitività), ma unendo ragioni di umanità nella considerazione della situazione delle vittime a strumenti di razionalità legale e logica giuridica.
Si può essere vittime, del resto, non solo per la lesione compiuta da un soggetto privato, ma anche a causa d’un fatto cagionato da poteri di uno Stato.
Contro ipotesi siffatte, una visione vendicativa del diritto penale statuale non ha alcuno strumento di contrasto: è un diritto non (solo) più iniquo, ma meno pronto a tutelare le esigenze protette e da proteggere. L’azione pervasiva delle mafie – e sempre che si riesca in ogni caso a isolarne scientificamente i contenuti operativi – non è indifferente a queste contraddizioni, ma le cavalca a proprio uso e consumo.
Sciascia ammoniva metodologicamente a non creare una quota di ceto politico, civile, sociale, clericale e intellettuale istituzionalmente auto-deputatosi a fronte unico di resistenza all’illegalità. Non per i rischi di penosa ipocrisia che ciò comporta, ma per un fatto eminentemente pratico: immobilizzare i buoni e i cattivi in categorie immutevoli e del tutto eteronome significa lasciare molto più spazio alle capacità operative del “male”.
(*) Associazione Yairaiha Onlus – Università Magna Graecia di Catanzaro