Il concetto di economia circolare, nella sua accezione più ampia, implica una rivisitazione radicale dei processi produttivi per far sì che questi non abbiano un percorso lineare, nel quale il prodotto sia, in qualsivoglia modo, generato attraverso una complessa filiera organizzata, poi distribuito, utilizzato ed infine “smaltito” il che spesso coincide con lo stoccaggio in discarica.
La visione dell’economia circolare, sempre presa nel suo significato più ampio, prevede che il processo non sia quindi lineare, ma che il fine vita del prodotto sia l’inizio di un altro ciclo, quindi allo smaltimento si sostituiscono varie opzioni, quali riuso, recupero e riciclo. Agendo in quest’ottica si dovrebbero ottenere notevoli risultati in termini di sostenibilità economica e ambientale.
Attraverso gli indotti generati da questo processo (attività inter-industriali), si dovrebbe ottenere un sensibile vantaggio sociale (nuove attività lavorative) e, dal momento che si dovrebbero disperdere minori volumi di sostanze (solide e/o voltiti) nell’ambiente, ci sarebbero vantaggi anche per la salute.
L’uso del condizionale in questo momento è obbligatorio, dal momento che l’avvio di questa innovata visione della produzione industriale avviene per passi successivi. Ma non è solo questo a giustificare l’uso del condizionale; nella gradualità di affermazione di un nuovo processo sono spesso insite delle inerzie, sovente legate più ad una questione di rapporto costi-guadagni che di reale difficoltà nell’intercettare l’innovazione.
Questo passaggio merita un chiarimento per essere compreso.
Bisogna tenere a mente due concetti fondamentali: alcuni materiali non possono essere riciclati all’infinito – tanto per questioni tecniche quanto per questioni di costi – e le dinamiche legate agli incentivi, che agiscono non tanto come sprone per l’innovazione ma sono spesso dei compensatori per innovazioni parziali.
I materiali polimerici (plastiche in genere) non sono tutti riciclabili, e quelli che lo sono non possono essere riprocessati all’infinito, quindi prima o poi finiscono in discarica o in un inceneritore. La bio-plastica oggi come oggi non ha una sua filiera di riciclo o riuso e finisce nell’indifferenziato, quindi è forse (almeno allo stato attuale) più impattante di una tanto vituperata plastica da virgin nafta (plastiche di sintesi industriale).
Il vantaggio è tutto per chi la produce, che o si avvantaggia degli incentivi (L. n° 58/2019) oppure fa pagare il prodotto ad un prezzo maggiore agendo sulla coscienza ambientale collettiva come leva. Per il fine vita del prodotto, però, i costi sono ancora proibitivi, e qui sta il problema e la chiave di lettura da adottare.
Per quale motivo gli incentivi vengono elargiti a chi produce e non a chi ha il compito di non disperdere un prodotto in giro? Se lo stesso ammontare di finanziamenti fossero investiti in ricerca e sviluppo di nuovi materiali o nuove procedure a basso impatto per il recupero integrale dei prodotti, forse i vantaggi sarebbero distribuiti in maniera più equa.
Però si assiste a investimenti in comunicazione per influenzare l’uso di un prodotto bio-plastico[1] pur sapendo che non rientra nei processi ciclici di uso e riuso.
Quindi sotto questo punto di vista l’economia circolare è più uno slogan che un fatto assodato.
Se per riciclare un kg di prodotto sperpero più energia di quella necessaria a produrlo, qualcosa mi dovrebbe dire che quel prodotto non può far parte di una logica circolare. Propagandare prodotti insostenibili da riprocessare è solo fumo negli occhi, ma guai a toccare imballaggi e prodotti usa e getta, ai quali è legata buona parte dell’industria italiana sia come produzione primaria sia come indotto che come consumo (si pensi alla logistica).
L’economia circolare, se realmente dovesse imporsi per quelli che sono i suoi reali dettami, dovrebbe mirare ad ottimizzare e massimizzare le risorse esistenti, comprese le tonnellate di materiale di scarto ammassato in ogni dove.
Lo spirito che anima questa visione circolare dei processi produttivi e riproduttivi, trova il suo momento di massimo approfondimento teorico nell’economia cinese. La logica di fondo consiste nel guardare al fine vita dei materiali come a risorse potenziali, dopo più di trent’anni di espansione e produzione in constante crescita, c’è un volume di materie potenzialmente riutilizzabili tale da incidere sull’import del paese, un tentativo di abbattere la dipendenza da altri paesi.
Quindi per ottimizzare e massimizzare le risorse esistenti non è necessario introdurre “nuovi materiali” (per le quali tra l’altro non ci sono filiere di recupero) ma modificare in maniera strutturale le modalità di produzione applicare in maniera proba l’innovazione.
Progettare tutto in vista delle successive fasi che avvengono dopo l’utilizzo primario, ma se si scava più a fondo e si segue la linea di pensiero fin alle sue conseguenze ultime, ci si trova a dover fare i conti con l’ottimizzazione delle risorse energetiche, la cui sostenibilità è di primaria importanza e questo ci riporta al ciclo delle plastiche.
Il riciclo attualmente è possibile solo perché è sorretto da incentivi, sgravi e premialità; il riciclo delle plastiche impatta energeticamente in maniera tanto pesante che senza l’autosostegno che le aziende produttrici si danno (il CONAI è un consorzio che prende un contributo obbligatorio da tutte le aziende del settore degli imballaggi) sarebbe improponibile e insostenibile economicamente.
Quindi a conti fatti si scrive economia circolare ma si legge sostegno ad una produzione dura da smaltire.
Jammy (CSOA A. CARTELLA, RC)
Note:
[1] Accordo
COREPLA https://www.teknoring.com/news/tutela-del-territorio/plastiche-e-bioplastiche-un-accordo-sosterra-gli-imballaggi-compostabili-2/